Sono arrivati insieme. Il primo numero di Vedomosti, il principale quotidiano economico russo, è uscito nel settembre 1999. Un mese prima Vladimir Putin era stato nominato primo ministro e designato come futuro presidente. Il giornale era metà rosa e metà bianco, un omaggio ai suoi cofondatori e azionisti stranieri: il britannico Financial Times e lo statunitense The Wall Street Journal.
Il tempismo di quella nuova iniziativa era coraggioso. La Russia si stava riprendendo dalla sua crisi finanziaria del 1998 e si avviava verso una brutale guerra in Cecenia. Ma l’economia cominciava a crescere, nascevano aziende private e Vedomosti era lì per scriverne.
I suoi giornalisti e redattori, la maggior parte dei quali di meno di trent’anni, incarnavano l’aspirazione a integrarsi con il mondo e a dimostrare che gli affari in Russia non dovevano necessariamente essere il territorio esclusivo di mafiosi e oligarchi.
Nessun trattamento speciale
“I nostri giornalisti sanno che un’onesta concorrenza e un successo onesto non sono una rarità nel mondo imprenditoriale russo”, dichiarava Vedomosti nel suo primo editoriale. Il giornale adottò i princìpi dei suoi azionisti anglosassoni con lo zelo dei convertiti. Il suo codice di comportamento affermava che “un giornalista deve trattare tutti gli eventi, tutte le aziende e tutte le persone con uguale scetticismo. Nessuno ha diritto a un trattamento speciale: men che meno gli azionisti, gli inserzionisti pubblicitari e i cosiddetti oligarchi”.
Negli ultimi due decenni il quotidiano è rimasto perlopiù fedele al suo codice, protetto prima dai suoi proprietari e poi dalla sua stessa reputazione. Ma nelle ultime settimane è cominciata una rivolta della sua redazione contro il nuovo direttore provvisorio Andrei Shmarov, un giornalista vecchio stile degli anni novanta, imposto al giornale dai suoi aspiranti acquirenti, nel quadro di un’acquisizione poco chiara e ancora da completare. La redazione, e molti osservatori, ritengono che il giornale possa essere snaturato per servire gli interessi del Cremlino e di Rosneft, il gigante petrolifero statale.
Vedomosti si è tenuto lontano dall’attivismo, è stato un giornale critico, ma mai di opposizione
I giornalisti di Vedomosti hanno avvertito, dalle colonne del loro quotidiano, che potrebbe diventare una testata controllata, messa al servizio degli interessi dei funzionari e dei loro proprietari segreti. Shmarov ha cominciato cambiando il titolo di un articolo su Rosneft già pubblicato, e rimuovendo dal sito del giornale un editoriale di un importante economista, che criticava Igor Sechin, capo di Rosneft e uno degli uomini più potenti nell’entourage di Putin. Alcuni giorni dopo Shmarov ha impedito ai suoi giornalisti di citare Levada, la più rispettata azienda di sondaggi russa, che nelle sue ultime ricerche aveva fissato al 59 per cento il tasso di popolarità di Putin, il più basso dal 1999.
Paradossalmente il giornalismo investigativo e le analisi critiche hanno prosperato in Russia, soprattutto in rete. Ma come sostiene Maxim Trudolyubov, editorialista e collaboratore di Vedomosti, quel che sta succedendo al giornale è un attacco a un’istituzione che incarnava i valori della trasparenza e di una concorrenza di mercato onesta e fondata sulle regole.
Vedomosti è stato un giornale critico, ma mai di opposizione. Si è tenuto lontano dall’attivismo perché riteneva che gli affari economici dovessero essere separati dalla politica, proprio come accadeva alla cronaca e alle opinioni che apparivano sulle sue pagine. Il suo pubblico, tra cui la maggior parte dell’élite politica e imprenditoriale russa, aveva aderito all’iniziale patto della presidenza Putin, in base al quale le persone erano libere di guadagnare e spendere denaro finché si tenevano lontane dalla politica.
Prudenza sparita
Questo patto ha cominciato a disfarsi dopo le proteste di massa degli anni 2011 e 2012. Nel 2013 Vedomosti aveva diffuso una lettera di 35 imprenditori che sostenevano apertamente Aleksej Navalny il leader delle proteste, nella sua corsa a sindaco di Mosca. Come ricorda l’ex direttrice Tatiana Lysova, la cosa aveva fatto infuriare il Cremlino e rafforzato la sua sfiducia nei confronti dell’iniziativa privata e dei mezzi d’informazione non di stato.
Ma attaccare Vedomosti troppo apertamente rischiava di provocare un conflitto con due dei più influenti quotidiani economici del pianeta: una prospettiva che, nel 2013, il Cremlino soppesava ancora con prudenza. Un anno dopo, in seguito all’annessione della Crimea, una simile cautela era sparita. Il Cremlino approvò una legge che vietava il controllo straniero di testate russe, obbligando il Financial Times e Dow Jones (l’editore del Wall Street Journal) a vendere le proprie quote. I nuovi proprietari russi del quotidiano l’hanno mantenuto a galla per alcuni anni. Ma adesso, dopo che il Cremlino ha aumentato la sua pressione, hanno rapidamente ceduto, decidendo di vendere.
Il tempismo degli attuali tentativi di prendere il controllo del quotidiano non è tanto un segno della schiettezza di Vedomosti (che di recente si è attirato le ire di Navalny perché troppo conformista), quanto dell’intolleranza del Cremlino verso ogni critica. La grande paura di Putin è che possa diffondersi nell’élite politica ed economica russa l’opinione che sia arrivato per lui il momento di farsi da parte. Le prime pagine di un quotidiano di qualità avrebbero potuto incoraggiare un simile orientamento. Ma non se gli amici di Putin sono in grado di censurarlo.
E così, proprio come la nascita di Vedomosti ha coinciso con l’arrivo di Putin, le sue attuali difficoltà coincidono con il rifiuto del presidente di ritirarsi. Ma la rivolta della redazione dimostra che il quotidiano ha fatto crescere una generazione di giornalisti, e di lettori, che vedono in Putin un anacronismo. E che non accetteranno in silenzio i suoi esperimenti assolutistici.
(Traduzione di Federico Ferrone)
Questo articolo è uscito sul settimanale britannico The Economist.
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