Nel novembre del 2010, durante un incontro con gli studenti dell’Università di Pechino, al primo ministro britannico David Cameron fu chiesto che consiglio avrebbe dato al Partito comunista in un’epoca di crescente pluralismo. “Un suono straordinario si diffuse nella stanza, metà d’ammirazione e metà di stupore”, avrebbe rievocato in seguito. “Mentre guardavo il mare di volti intorno a me, pensai: davvero questo sistema durerà? La mia conclusione fu che, nella sua forma attuale, non ci sarebbe riuscito”.

Cameron sperava che il suo mandato da primo ministro sarebbe stato l’alba di un’“età dell’oro” delle relazioni tra Londra e Pechino. Quest’idea si fondava sulla convinzione che attraverso gli affari il Regno Unito avrebbe potuto modellare la linea della Cina nel commercio e rispetto ai diritti umani. Quella speranza non è sopravvissuta alla fine del decennio. Scambi commerciali e investimenti sono cresciuti, ma la Cina è diventata più repressiva con i suoi cittadini e più determinata in campo internazionale.

Per i politici britannici si è rivelato sempre più difficile convivere con questa tensione. Il 14 luglio il governo di Boris Johnson ha annunciato che vieterà l’acquisto del nuovo sistema prodotto dalla Huawei, il gigante cinese delle telecomunicazioni, destinato alle reti mobili di quinta generazione, 5G, a partire dal 2021. Gli operatori saranno obbligati a disfarsene del tutto entro il 2027. La decisione inasprisce quella presa a gennaio di limitare la quota di mercato della Huawei nel Regno Unito al 35 per cento e di escludere l’azienda dai settori più sensibili della rete. La scelta è legata al parere espresso di recente da Gchq, l’agenzia pubblica britannica che si occupa d’intelligence e sicurezza delle comunicazioni, secondo cui le sanzioni statunitensi interromperebbero la fornitura di componenti affidabili all’azienda, e renderebbero “potenzialmente impossibile” la verifica della loro sicurezza.

In seguito alla decisione delle autorità cinesi d’imporre una durissima legge sulla sicurezza nazionale a Hong Kong, Londra cambierà le sue leggi sull’immigrazione per consentire a quasi 2,9 milioni di cittadini dell’ex colonia di ottenere la cittadinanza britannica. Due deputati hanno fatto pressione affinché il ministro degli esteri Dominic Raad inserisse Carrie Lam, la governatrice di Hong Kong, nella nuova lista delle sanzioni stilata dal Regno Unito. Johnson è determinato a portare avanti i piani, a lungo rimandati, per instaurare un regime più duro di selezione degli investimenti, che permetterebbe di bloccare, per motivi di sicurezza nazionale, una più ampia gamma di acquisizioni di aziende britanniche da parte di proprietari stranieri.

Johnson, il sinofilo
Johnson si definisce un “sinofilo” e quand’era sindaco di Londra era stato ancor più entusiasta di Cameron nell’andare a caccia di turisti e di scambi commerciali con Pechino. Dal suo ufficio dicono che punti ad avere la Cina come partner nella lotta contro il cambiamento climatico e per la salute globale, ma che “questa relazione non può avvenire a qualsiasi costo”. Gli imprenditori britannici sono stanchi dell’andamento scostante dei rapporti tra i due paesi, e vorrebbero che il governo assumesse una linea più coerente.

Dietro l’inasprimento della posizione britannica ci sono vari fattori. Uno è la politica della Cina. Londra accusa Pechino di aver violato l’accordo che regolò la restituzione di Hong Kong, nel 1997, e che garantiva le libertà e i diritti nell’ex territorio britannico; inoltre la repressione dei musulmani nello Xinjiang ha turbato molti parlamentari. Un altro fattore sono le pressioni per scaricare la Huawei esercitate da Stati Uniti e Australia, che sono alleati del Regno Unito nel patto d’intelligence Five eyes e con cui Londra spera di chiudere rapidamente degli accordi commerciali.

In parlamento si è formato un nuovo gruppo di deputati conservatori, il China research group, che considera la Cina una minaccia per le norme globali e le società libere, e che raccoglie più consensi di quello sull’Europa formato dai falchi a favore della Brexit. Tom Tugendhat, il suo leader, è un ex ufficiale dell’esercito proveniente dall’ala liberale del partito. “Il Regno Unito aveva speranza e ambizioni, ma sfortunatamente le attese hanno fatto i conti con la dura realtà di uno stato autoritario”, spiega. Anche il Partito laburista, con il nuovo segretario Keir Starmer, è diventato più bellicoso. Lisa Nandy, ministra degli esteri ombra, sostiene che il Regno Unito debba trovare “alternative locali” alle aziende di telecomunicazioni e d’energia nucleare cinesi.

Vogliamo essere vostri amici e vostri partner, ma se volete fare della Cina un paese ostile, dovrete accettarne le conseguenze

I funzionari cinesi avevano spiegato ai vari funzionari stranieri in visita che prevedevano che dopo la Brexit il Regno Unito sarebbe stato un paese docile perché avrebbe avuto bisogno di aumentare il commercio fuori dall’Europa e di mantenere il ruolo di centro finanziario della City. Questo repentino cambio di rotta potrebbe quindi essere una sorpresa sgradita. I cinesi hanno dichiarato il loro disappunto il 6 luglio, quando l’ambasciatore a Londra Liu Xiaoming ha accusato i politici stranieri di avere una “mentalità coloniale”, e ha dichiarato che l’esclusione della Huawei avrebbe mandato agli investitori cinesi un “pessimo messaggio” sullo stato dell’economia britannica. “Vogliamo essere vostri amici e vostri partner, ma se volete fare della Cina un paese ostile, dovrete accettarne le conseguenze”.

La Cina redarguisce regolarmente i paesi che dicono o fanno cose a lei sgradite. Il primo passo è cancellare gli incontri tra politici, come accaduto quando il governo di Cameron è stato messo in attesa per un anno dopo che il primo ministro aveva incontrato il Dalai lama, il leader spirituale tibetano. Poi seguono le minacce economiche. La Cina è il terzo partner commerciale del Regno Unito dopo gli Stati Uniti e l’Unione europea, con il cinque per cento degli scambi totali, e il suo governo è abile nel prendere di mira esportatori simbolicamente e politicamente sensibili.

Gli esportatori di salmone norvegesi sono stati colpiti dopo l’attribuzione del premio Nobel per la pace al dissidente Liu Xiaobo nel 2013. Le esportazioni d’orzo e manzo dall’Australia sono state bloccate dopo che Canberra ha chiesto la creazione di una commissione d’inchiesta internazionale sull’origine dell’epidemia di covid-19. La decisione di limitare, e poi escludere, la partecipazione di Huawei alla rete 5g britannica ne ritarderà il lancio di due o tre anni, e costerà due miliardi di sterline, ha dichiarato il ministro della cultura Oliver Dowden.

Possibili bersagli
Se la Cina avesse davvero intenzione di danneggiare il Regno Unito, avrebbe un’ampia gamma di aziende e settori tra cui scegliere. Una lista di probabili bersagli include lo scotch whisky e la Jaguar Land Rover, la casa automobilistica che vende un quinto delle sue auto in Cina. In generale la City di Londra non è troppo esposta, ma due banche con radici nel passato coloniale britannico – la Hsbc e la Standard Chartered – realizzano rispettivamente due terzi e metà dei loro profitti in Cina e a Hong Kong. Anche la società assicurativa Prudential ha grossi interessi in Cina. “Se Pechino volesse davvero farci del male colpendo le aziende britanniche, avrebbe il margine di manovra per farlo”, sostiene George Magnus del China centre dell’Università di Oxford. La Hsbc e la Standard Chartered hanno annunciato il loro sostegno alla legge sulla sicurezza di Hong Kong, ma Magnus dubita che la cosa possa servirgli da scudo.

Secondo Charles Parton, ex diplomatico britannico e socio del centro studi Royal united services institute, simili misure potrebbero spaventare i leader ma di solito hanno vita breve, non impediscono alle esportazioni complessive di crescere e non dovrebbero dissuadere i politici dall’opporsi alle politiche cinesi quando gli interessi britannici sono minacciati. Gli investimenti cinesi nel Regno Unito sono legati alla ricerca di profitti, non alla politica o alla beneficenza. “I problemi ricadono sui politici”, secondo Parton. “Ma il mondo reale va avanti: gli studenti studiano, i turisti viaggiano, le aziende fanno affari”.

Tuttavia il costo principale potrebbe non riguardare problemi immediati, bensì i mancati benefici futuri. La tensione con la Cina potrebbe vanificare iniziative volte a dare al Regno Unito un vantaggio competitivo su altri paesi europei. Il disaccordo potrebbe impedire i legami tra le borse di Londra e Shanghai e lo sviluppo di settori emergenti, come l’emissione di obbligazioni verdi a Londra da parte di aziende cinesi. Pochi parlamentari se ne accorgerebbero. Ma molti temono che i vantaggi per i si stiano moltiplicando. “Abbiamo avuto la pandemia, stiamo facendo la Brexit: è proprio necessario cominciare a litigare con la Cina?”, si chiede un ex ministro dell’“età dell’oro”. La risposta sarà presto chiara.

(Traduzione di Federico Ferrone)

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