A prima vista un omicidio a Istanbul, un rapimento a Dubai e una deportazione dall’Austria potrebbero apparire eventi scollegati tra loro. Rientrano però tutti in un inquietante schema di comportamento dei regimi autoritari che usano violenza, intimidazioni e tecnologia per mettere a tacere il dissenso all’estero. Come emerge da un rapporto del centro studi Freedom house, la “repressione transnazionale” è diventata più diffusa. Nel rapporto viene rilevato come dal 2014 almeno 31 stati abbiano aggredito fisicamente i loro cittadini che vivono in paesi stranieri. Tra i peggiori ci sono Cina, Russia e Ruanda. Solo la Cina è responsabile di 214 delle 608 aggressioni registrate. Milioni di altre persone sono state intimidite con persecuzioni, sorveglianza digitale e campagne di diffamazione.

I regimi differiscono nei modi in cui scelgono i loro obiettivi. La Cina perseguita una grande varietà di vittime: minoranze religiose ed etniche come gli uiguri, dissidenti politici, attivisti per i diritti civili, giornalisti e figli di vecchi funzionari di partito. La Russia prende di mira politici troppo in vista ed ex appartenenti al regime che potrebbero divulgare i segreti del presidente Vladimir Putin. Il Cremlino di solito non perseguita i comuni cittadini russi all’estero. Lo fa invece il regime ceceno: i ceceni che sono fuggiti in Europa occidentale vengono regolarmente spiati, minacciati e a volte uccisi. Iran e Arabia Saudita prendono di mira gli esiliati più in vista. La Turchia dà la caccia ai gulenisti, seguaci del gruppo di Fethullah Gülen accusato dal presidente Recep Tayyip Erdoğan di un tentato colpo di stato nel 2016.

Gli attacchi fisici, come gli omicidi, le aggressioni, le detenzioni e le deportazioni illegali, sono il metodo più diretto per schiacciare i nemici all’estero. Secondo Freedom house, i casi sono più numerosi di quanto sia stato possibile registrare. Omicidi lampanti, come quello del giornalista saudita ed editorialista del Washington Post Jamal Khashoggi nel consolato del suo paese a Istanbul, sono molto rari. Le deportazioni illegali e le estradizioni forzate, le tattiche preferite di Iran e Turchia, sono più discrete. I dissidenti possono essere fatti rientrare a forza nel loro paese, torturati e a volte uccisi lontano dallo sguardo di stranieri critici.

Grazie alla tecnologia è più facile per gli stati esercitare la repressione a distanza

Catturare delle persone in territorio straniero contando sulle proprie forze può essere difficile, perciò molti paesi si rivolgono a potenze straniere amiche o fanno addirittura appello ad accordi internazionali formali. L’Organizzazione di cooperazione di Shanghai, un patto sulla sicurezza tra Cina, India, Russia e cinque “super fan” asiatici, dispone di una lista nera condivisa di dissidenti. L’Arabia Saudita usa il Consiglio di cooperazione del Golfo per tenere sotto controllo esiliati non affidabili.

Le democrazie possono essere complici inconsapevoli. A marzo del 2020 l’Austria ha assecondato la richiesta di deportare l’attivista Hizbullo Shovalizoda in Tagikistan, il suo paese. La Corte suprema austriaca ha in seguito invalidato la sua estradizione, ma ormai Shovalizoda sta scontando una pena di vent’anni con l’accusa di estremismo. Regimi autoritari hanno per lungo tempo manipolato le “note rosse” dell’Interpol, la polizia internazionale, per far cadere in trappola i loro oppositori (la Russia ha emesso più del 40 per cento del totale delle richieste di arresti in attesa di estradizione attualmente in circolazione). E la “guerra al terrore” degli Stati Uniti ha offerto ai regimi sia un modello per le estradizioni sia un’etichetta politica da affibbiare a quelli che volevano perseguitare: il 58 per cento delle vittime individuate da Freedom house sono state accusate di terrorismo.

I governi possono rendere difficili le vite dei dissidenti anche in modi più sottili. Tra le tattiche più comuni ci sono il sequestro dei documenti di viaggio, la negazione dei servizi consolari e le minacce ai parenti rimasti nel loro paese. Per esempio, nel tentativo di far chiudere il sito web di un gruppo della minoranza degli ahmadi negli Stati Uniti, il Pakistan ha ricordato agli esiliati che gli ahmadi rimasti in patria possono essere accusati di blasfemia per essersi definiti musulmani. Poiché potrebbero avere parenti in Pakistan, dove la blasfemia è punibile con la morte, questa è una minaccia molto forte.

Grazie alla tecnologia è più facile per gli stati esercitare la repressione a distanza. Internet e i social network, che inizialmente hanno messo in contatto e rafforzato i dissidenti, oggi possono farli cadere in trappola, come spiega il ricercatore Marcus Michaelsen, esperto di politiche autoritarie. La primavera araba dieci anni fa ha rappresentato una svolta. Oggi gli stati possono tracciare i movimenti di chiunque sia in possesso di uno smartphone o un computer portatile a migliaia di chilometri di distanza, attraverso l’uso di software di sorveglianza e malware per monitorarli e perseguitarli. Alcuni dispongono persino di “accessi illegali” a piattaforme social. L’Arabia Saudita ha corrotto un programmatore saudita a Twitter per farsi passare le informazioni sulla posizione di alcuni utenti di Twitter problematici. Si ritiene che la Cina eserciti il suo controllo attraverso WeChat, un vero e proprio salvagente per i cinesi all’estero. Queste tecnologie rendono più facile non solo scoprire dove si trovano le persone, ma anche minacciarle, o peggio.

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La tecnologia rende inoltre i regimi repressivi più consapevoli delle critiche di dissidenti lontani. Una volta non avevano idea di cosa la diaspora dicesse dei tiranni in patria. Adesso possono monitorare i social e ascoltare ogni parola non criptata e potenzialmente sediziosa. In questo modo gli esiliati appaiono come una minaccia più grave e i regimi repressivi avvertono più forte la necessità di perseguitarli.

La tecnologia e le tattiche di repressione extraterritoriale hanno inoltre per chi le utilizza il vantaggio di essere poco costose. “Un numero crescente di stati si stanno rendendo conto che utilizzarle è facile e abbastanza economico”, afferma Gerasimos Tsourapas dell’Università di Birmingham. Il Ruanda, un paese africano piccolo e piuttosto povero, è un esempio impressionante. Deciso a mettere a tacere chi sfida la sua immagine di “cocco dello sviluppo” in Africa – e a reprimere chi mette in dubbio la sua versione della storia cruenta del paese – il governo estende la sua portata repressiva molto oltre i suoi confini. L’anno scorso Paul Rusesabagina, l’ex direttore d’albergo il cui eroismo nel salvare i tutsi durante il genocidio è stato raccontato nel film Hotel Rwanda, è stato rapito a Dubai e riportato in patria, dove è stato accusato di terrorismo. Sono in molti a sospettare che il suo vero reato sia stato l’aperta opposizione al presidente autocratico del Ruanda Paul Kagame. Come la Cina, il Ruanda cerca di controllare i suoi cittadini all’estero attraverso gli spyware, un esercito di troll sui social network e una rete coercitiva di ambasciate e organizzazioni di espatriati. I più importanti appartenenti al regime che disertano sono quelli che devono temere di più. Un ex capo dei servizi segreti, per esempio, è stato strangolato in una stanza di albergo in Sudafrica. Secondo Freedom house però “tutti i ruandesi sono a rischio di repressione transnazionale”.

Gli stati canaglia che perseguitano i loro esiliati la fanno franca anche perché le democrazie spesso scelgono di guardare dall’altra parte. In alcuni casi, spiega Tsourapas, acconsentendo alle richieste di estradizione e alle “note rosse” dell’Interpol e ampliando la definizione di terrorismo, si sono persino rese complici.

La repressione extraterritoriale non è una novità: Lev Trotsky era a Città del Messico, a più di diecimila chilometri da Mosca, quando Stalin lo ha fatto assassinare con un punteruolo da ghiaccio. La novità sta nella semplicità con cui è possibile spiare i dissidenti da lontano. Questo, assieme all’ascesa globale dei regimi autoritari e al disincanto della precedente amministrazione statunitense nel campo della difesa dei diritti umani, ha permesso a un numero crescente di despoti di seminare il terrore in tutto il mondo. Come sostiene Freedom house, per ostacolarli sarà necessario riaffermare normative internazionali e punire i criminali peggiori.

(Traduzione di Giusy Muzzopappa)

L’originale di questo articolo è stato pubblicato dall’Economist.

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