L’ospedale Recep Tayyip Erdoğan di Mogadiscio, la capitale della Somalia, porta il nome del presidente della Turchia. Ha 47 letti di terapia intensiva, più di qualsiasi altro nel paese, ma non cura i pazienti affetti da covid-19. “Se lo facessimo, dovremmo isolarli”, spiega Asir Eraslan, il direttore, “e non avremmo abbastanza spazio per occuparci delle vittime delle bombe”. Queste ultime continuano a esplodere, a causa di un’insurrezione di al Shabab, un gruppo affiliato ad al Qaeda, e degli scontri tra clan rivali.
Lungo una delle strade principali di Mogadiscio, piena di veicoli blindati e tuk-tuk rossi (risciò a motore), la gente del posto indica i punti in cui le bombe hanno squarciato la folla. Durante la mia visita, le forze di sicurezza erano alla ricerca di due attentatori suicidi.
Data la violenza e il rischio di rapimenti, Mogadiscio attira pochi stranieri. Pochi a parte i turchi. Un’azienda turca ha ristrutturato e gestisce il porto. Un’altra gestisce un albergo e l’aeroporto internazionale, da cui la Turkish Airlines vola quotidianamente a Istanbul. Aziende turche hanno riparato le strade principali della città e il palazzo del parlamento, con finanziamenti dell’agenzia di sviluppo della Turchia. In quella che è la sua più grande base militare all’estero, gli ufficiali turchi hanno addestrato ed equipaggiato più di cinquemila soldati somali e membri armati della polizia.
La svolta degli ultimi vent’anni
Più significativo ancora della forte presenza della Turchia in Somalia è forse il suo approccio sul campo, favorito dalla comunanza religiosa. “In Somalia uno dei vantaggi di essere turco è che preghi nelle stesse moschee di tutti gli altri”, dice Kadir Mohamud, un imprenditore somalo. Le aziende e le ambasciate non turche tendono a operare dalla “zona verde” sorvegliata intorno all’aeroporto. “Siamo gli unici sul campo”, dice Mehmet Yılmaz, l’ambasciatore turco. Con il suo branco di antilopi nane e una vista mozzafiato sull’oceano Indiano, la sua ambasciata è anche la più estesa della Turchia in tutto il mondo.
La Somalia è un esempio chiaro della più generale spinta di Erdoğan in Africa, nella sua ricerca di mercati, risorse e influenza diplomatica. Solo vent’anni fa Ankara era poco interessata all’Africa a sud del Sahara. Guardava invece a ovest e sognava di entrare nell’Unione europea. Ma a mano a mano che le relazioni con l’occidente si sono raffreddate, la Turchia si è girata verso sud. Il punto di svolta è stato il 2011, quando Erdoğan, affiancato da imprenditori turchi, funzionari umanitari e associazioni di beneficenza musulmane, ha visitato la Somalia, allora in preda alla siccità e alla guerra civile. La sua visita, la prima di un leader non africano in circa due decenni, ha segnato l’inizio non solo del coinvolgimento della Turchia nel Corno d’Africa, ma di legami più profondi in tutto il continente.
Nell’edilizia le aziende turche stanno scalzando quelle cinesi e la presenza di Ankara aumenta anche nel settore degli aiuti
Nel 2009 la Turchia aveva solo una decina di missioni diplomatiche in Africa. Oggi ne ha 43. Questo lavoro diplomatico ha aiutato le aziende a espandersi. La Turkish Airlines, che nel 2004 volava solo in quattro città africane, oggi ne raggiunge più di quaranta. Il commercio con il continente è cresciuto enormemente, toccando nel 2021 i 29 miliardi di dollari, di cui 11 miliardi con l’Africa subsahariana, un aumento di quasi otto volte rispetto al 2003. Lo stesso vale per l’edilizia, settore in cui le imprese turche stanno scalzando quelle cinesi, aiutate senza dubbio da un calo del denaro prestato dalla Cina. I funzionari turchi calcolano che le imprese turche abbiano completato progetti in Africa per un valore di circa 78 miliardi di dollari, e tra questi ci sono aeroporti, stadi e moschee. Nel 2021 la Tanzania ha assegnato a un’azienda turca un contratto da 1,9 miliardi di dollari per costruire una moderna linea ferroviaria.
Il peso della Turchia sta crescendo anche grazie agli aiuti, in precedenza distribuiti soprattutto attraverso agenzie internazionali come l’Onu, come nel 2003 quando circa il 60 per cento era stato convogliato in questo modo. Nel 2019 la quota era scesa al 2 per cento. Ormai le bandiere turche sono presenti su pacchi di cibo, scuole e pozzi. “La Turchia è nota per offrire assegni in bianco, in particolare quando si ha un disperato bisogno di aiuti economici o militari”, dice Abel Abate Demissie, che lavora per il centro studi britannico Chatham House, ad Addis Abeba, capitale dell’Etiopia.
Sfida militare
Ma c’è anche un impegno meno pacifico. Erdoğan, che non ha esitato a inviare il suo esercito nella complessa guerra civile in Siria, ha anche cominciato a mostrare i suoi muscoli in Africa. Ha inviato, per esempio, soldati turchi e mercenari siriani in Libia per combattere contro Khalifa al Haftar, un signore della guerra sostenuto da Egitto, Francia, Russia ed Emirati Arabi Uniti.
Turchia e Francia, dopo aver litigato in Libia, si sono scontrate anche in Africa occidentale, nel Sahel e nel Maghreb, dove Erdoğan ha sfidato l’influenza francese giocando sull’immagine della Francia come oppressore coloniale. In Somalia, Erdoğan ha affrontato l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti, quando il loro battibecco con il Qatar, che è amico del governo turco, è sfociato in una lotta per procura nel Corno d’Africa.
I droni turchi, che hanno contribuito a ribaltare le sorti della guerra civile in Etiopia, avrebbero ucciso decine di civili
La Turchia ha anche firmato patti militari con diversi paesi africani, più recentemente con Nigeria, Senegal e Togo. Molti desiderano approfittare dell’esperienza della Turchia nell’attività di controinsurrezione. È interessante notare che sempre più ambasciatori africani nominati in Turchia sono generali attivi o in pensione.
L’obiettivo della Turchia non è quello di farsi coinvolgere nelle guerre, ma piuttosto di vendere armi. Non è allo stesso livello di paesi come la Russia, che ha fornito il 30 per cento di tutte le armi vendute all’Africa subsahariana tra il 2016 e il 2020, o della Cina (20 per cento), secondo lo Stockholm international peace research institute. Ma l’anno scorso le vendite della Turchia sono aumentate di sette volte, toccando i 328 milioni di dollari. Nei primi due mesi del 2022 si sono avvicinate ai 140 milioni di dollari.
I prodotti di punta della Turchia sono i droni come quelli che attualmente bombardano i carri armati russi in Ucraina. Sono stati visti in Etiopia, Libia, Marocco e Tunisia. Altri paesi, tra cui Angola, Nigeria e Ruanda, stanno pensando di acquistarli. “Ovunque siamo andati, ci hanno chiesto droni disarmati e armati”, ha detto Erdoğan dopo una visita in Africa l’anno scorso. Anche la Somalia vorrebbe più armi, ma non può ottenerle a causa di un embargo dell’Onu. “La Turchia ci sta dando tutto quello che può”, dice Abdulkadir Mohamed Nur, ministro della difesa somalo. “Ma al momento possono fornirci solo armi piccole”.
A differenza degli Stati Uniti, il quarto fornitore di armi dell’Africa, che non vende ai paesi africani che le usano per commettere crimini di guerra, la Turchia sembra non preoccuparsi di come sono usate le sue esportazioni. I suoi droni, che hanno contribuito a ribaltare le sorti della guerra civile in Etiopia, avrebbero ucciso decine di civili. A causa del silenzio della Turchia sull’argomento, l’Etiopia la vede come uno dei suoi pochi alleati fidati. Il presidente della Somalia, Mohamed Abdullahi Mohamed, noto al suo popolo come Farmaajo, ha usato soldati addestrati dalla Turchia contro i suoi rivali, per restare al potere dopo che il suo mandato è scaduto più di un anno fa, dice Matt Bryden di Sahan research, un centro studi con sede a Nairobi. “Noi non diamo ordini e non diciamo a nessuno cosa fare”, dice un funzionario di Ankara, la capitale della Turchia.
Un interesse ricambiato
Come la Cina e la Russia, che hanno ampliato il loro raggio d’azione in Africa negli ultimi anni, la Turchia vanta la sua politica di non interferenza come punto di vendita. Erdoğan presenta la Turchia come una potenza nascente e come campione di un ordine mondiale più giusto. “La Turchia si presenta senza alcun bagaglio coloniale”, dice Wamkele Mene, segretario generale dell’African continental free trade area (Afcfta). “Ed è un vantaggio”. Erdoğan si spinge oltre, quando sostiene senza fondamento che il colonialismo persiste. “Gli inglesi, i francesi e i colonizzatori occidentali”, ha detto all’inizio di quest’anno, “continuano a saccheggiare i diamanti dell’Africa, il suo oro e le sue miniere”.
In verità la Turchia non è estranea alle maniere forti a cui ricorrono i governi africani. Nel 2021 i suoi agenti di sicurezza in Kenya hanno rapito il nipote di Fethullah Gülen, accusato da Ankara di aver orchestrato il fallito colpo di stato del 2016. È stato rapito proprio fuori della sede della polizia, con la connivenza di funzionari del Kenya, e portato in Turchia, ignorando un ordine del tribunale che impediva la sua deportazione. La Turchia ha anche fatto pressione sui paesi africani per chiudere le scuole fondate dal movimento islamista di Gülen.
L’interesse della Turchia per l’Africa è ricambiato. Il numero di ambasciate africane in Turchia è triplicato in due decenni, arrivando a 37. Almeno 14mila studenti africani hanno ricevuto borse di studio per studiare in Turchia negli ultimi dieci anni. Gli africani stanno anche comprando proprietà in Turchia, anche perché pagare 250mila dollari per una casa permette di avere un passaporto turco. Ankara è emersa come un centro della diaspora somala. Le serie televisive turche, che stanno conquistando pubblico in tutto il continente, stanno alimentando il potere di convincimento di Ankara.
Anche se il coinvolgimento turco in Africa è cresciuto velocemente, portando occasionalmente a uno scontro con altre potenze non africane, la sua portata economica, militare e diplomatica è ancora lontana da quella di Stati Uniti, Cina e delle ex potenze coloniali del continente. Il governo cinese calcola che i suoi scambi commerciali con l’Africa siano stati di circa 254 miliardi di dollari nel 2021, superando i 29 miliardi di dollari della Turchia. L’aiuto militare della Turchia non ha nulla a che vedere con quello delle potenze occidentali. Gli Stati Uniti hanno circa seimila soldati e civili di supporto schierati in Africa, dove combattono al Shabab in Somalia e i jihadisti nel Sahel, e addestrano le forze antiterroristiche africane in tutto il continente. Anche la Francia schiera circa cinquemila soldati, molti dei quali nel Sahel.
Tutto questo si riflette nell’opinione pubblica. In un sondaggio condotto per The Economist a marzo da Premise, una società che si occupa di dati, il 72 per cento dei keniani e il 58 per cento dei nigeriani ha indicato negli Stati Uniti il partner militare più affidabile.
Eppure la Turchia sembra pronta a giocare una partita di lunga durata. Il suo recente lancio di Trt Français, un’edizione in lingua francese del suo canale di propaganda statale, ha chiaramente come obiettivo un pubblico africano. E fornendo aiuti e assistenza militare, la Turchia spera con il tempo di raccogliere frutti duraturi. “In questo momento, siamo noi ad avere bisogno”, dice Nur, ministro della difesa somalo, parlando della Turchia. “Ma quando ci sarà un’opportunità, daremo ai nostri amici una possibilità che altri non possono avere, perché ci hanno aiutato quando ci serviva di più”.
(Traduzione di Federico Ferrone)
Questo articolo è uscito sul settimanale britannico The Economist. Internazionale ha una newsletter settimanale che racconta cosa succede in Africa. Ci si iscrive qui.
Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it