“Dobbiamo agire in modo audace e determinato”, ha dichiarato a inizio marzo Ursula von der Leyen. La presidente della Commissione europea si riferiva alla risposta dell’Unione europea al presidente statunitense Donald Trump, che rinnega “impegni inviolabili” e minaccia “i valori europei”. “In tempi straordinari bisogna adottare misure straordinarie”, ha aggiunto von der Leyen. Finora però la risposta europea a Trump è stata tutto tranne che straordinaria. Il 12 marzo, quando Washington ha imposto dazi del 25 per cento sulle importazioni di acciaio e alluminio, l’Ue ha minacciato di rispondere con tariffe su otto miliardi di euro di importazioni statunitensi a partire dal 1 aprile, più altre da metà aprile.
Nonostante la retorica belligerante di von der Leyen, è evidente che l’Europa non vuole un’escalation della guerra commerciale con gli Stati Uniti e spera ancora che gli istinti più aggressivi di Trump possano essere smorzati. Se però lo scontro dovesse intensificarsi, il vecchio continente può contare su un numero sorprendentemente alto di strumenti per fare pressione sull’imprevedibile alleato.
I dazi
La risorsa geopolitica più preziosa dell’Ue è sicuramente il suo vasto mercato. Includendo anche Regno Unito, Norvegia e Svizzera, il pil europeo raggiunge i 24.500 miliardi di dollari, una cifra che si avvicina al pil degli Stati Uniti (29mila miliardi). Evidentemente le aziende statunitensi, dai produttori di birra alle banche, vorrebbero continuare a fare affari con gli europei. Questa è la premessa dei dazi “vendicativi” programmati dall’Europa, che inizialmente colpiranno beni facilmente sostituibili come le moto Harley Davidson e il whisky.
Il problema è che i dazi e le restrizioni sulle importazioni provenienti dall’altra sponda dell’Atlantico, oltre a colpire gli esportatori statunitensi, colpirebbero anche i consumatori europei. Un caso emblematico è quello dell’energia, in cima alla lista delle importazioni europee dagli Stati Uniti. L’anno scorso l’Europa ha comprato il 35 per cento delle esportazioni americane di greggio e petrolio raffinato, oltre alla maggior parte del gas naturale liquefatto.
La domanda proveniente dall’Europa, che secondo le previsioni dovrebbe continuare ad aumentare anche nel prossimo decennio, è una premessa fondamentale di buona parte dei progetti multimiliardari statunitensi basati sull’esportazione del gas. Quindi se l’Europa limitasse l’acquisto di gas naturale liquefatto, molte aziende energetiche statunitensi finirebbero nei guai. Ma per gli europei sarebbe quasi impossibile fare un passo simile senza assestare un colpo devastante alla propria economia già in crisi o diventare nuovamente dipendenti dalla Russia, una morsa da cui il continente si è appena sottratto.
Il settore tecnologico
Un bersaglio più plausibile, anche se per il momento del tutto ipotetico, sono le grandi aziende statunitensi del settore tecnologico. È molto probabile che l’Europa possa sopravvivere senza Instagram, mentre la Meta subirebbe un colpo durissimo dalla perdita degli introiti europei. Anche senza ricorrere al bando dai mercati europei, il continente ha diversi strumenti per complicare la vita delle aziende della Silicon valley, comprese la tassazione e le norme sulla concorrenza. Questa varietà permetterebbe all’Unione di calibrare la sua risposta.
Il fatto che i giganti della tecnologia paghino pochissime tasse in Europa è stato uno dei punti cruciali del burrascoso rapporto transatlantico negli ultimi anni. In parte la colpa degli scarsi introiti fiscali ricade sull’Unione, che ha permesso all’Irlanda e ad altri paesi di comportarsi come paradisi fiscali. La risposta degli stati europei è arrivata sotto forma di tasse sulla pubblicità online e su altri servizi digitali, che hanno permesso ai governi nazionali di mettere le mani su una parte dei ricavi colossali di quelle aziende.
Le società finanziarie
Il tentativo di trovare un accordo generale su queste imposte è attualmente sospeso, perché Trump non ha intenzione di proseguire su questa strada. A questo punto i singoli paesi potrebbero alzare le tasse, o in alternativa l’Unione potrebbe rilanciare l’idea di un’imposta complessiva, al momento accantonata. L’introduzione di una tassa a livello europeo richiederebbe l’unanimità tra gli stati, un risultato solitamente difficile da raggiungere, ma che potrebbe essere possibile se la situazione diplomatica dovesse complicarsi.
La Commissione europea ha un enorme potere normativo nei confronti delle aziende tecnologiche statunitensi. Bruxelles può sanzionare la concorrenza sleale, ordinare la rimozione di contenuti inappropriati e imporre il rispetto delle leggi sulla privacy. Anche se le autorità europee si preoccupano di rispettare lo stato di diritto e non vogliono lanciare un attacco politicamente motivato, una posizione più inflessibile rispetto alle norme esistenti sarebbe sufficiente a ottenere l’effetto desiderato.
Anche le società finanziarie americane potrebbero essere colpite dalle istituzioni europee. In questo caso alcuni degli strumenti a disposizione dell’Ue sono talmente potenti che con ogni probabilità non saranno mai usati. Per esempio il sistema centrale dei pagamenti è gestito dalla Società per la telecomunicazione finanziaria interbancaria mondiale (Swift), che ha sede in Belgio e ogni anno trasmette circa otto miliardi di messaggi elettronici tra undicimila istituzioni finanziarie. Gli enti di controllo europei esercitano una forte influenza sulle operazioni della Swift, ma resta il fatto che interferire con l’accesso delle banche statunitensi al sistema significherebbe scatenare un caos finanziario, che danneggerebbe sia le banche europee sia quelle americane.
Le regole sulla concorrenza sono uno strumento meno rischioso per fare pressione sulle società finanziarie statunitensi. In quest’ottica le istituzioni di controllo dell’Unione e del Regno Unito stanno già indagando sulla posizione dominante di Mastercard e Visa all’interno del mercato dei pagamenti europeo. L’introduzione di norme cautelari è un altro strumento per fare leva sulle aziende statunitensi. Per esempio le banche e i fondi d’investimento stranieri potrebbero essere costretti a investire più capitali per finanziare le loro operazioni in Europa. Un rapporto che sarà pubblicato a breve dal centro studi European council on foreign relations sottolinea che un rafforzamento delle leggi sulla conservazione dei dati sensibili e altre norme simili potrebbero rivelarsi utili.
Anche se gli statunitensi potrebbero rispondere con la stessa moneta, una guerra sui servizi penalizzerebbe più loro che l’Europa. Gli Stati Uniti esportano in Europa più servizi di quelli che importano (con un surplus di cento miliardi di euro). Una situazione diversa rispetto al commercio di beni, in cui l’Europa ha un surplus di almeno duecento miliardi di euro l’anno.
Le dimensioni del mercato non sono l’unica risorsa in mano all’Europa per esercitare una pressione economica. Il continente potrebbe anche limitare l’accesso degli statunitensi a beni e servizi in cui mantiene una posizione dominante. Un recente rapporto del centro studi francese Cepii individua una serie di categorie di beni che sono prodotti soprattutto in Europa e che gli Stati Uniti importano in grandi quantità, a cominciare da quelli farmaceutici e dai composti chimici.
Detto questo, l’Unione non metterà mai in ginocchio gli americani limitando le vendite di Wegovy, un farmaco per la perdita di peso prodotto dall’azienda danese Novo Nordisk. Ma c’è un ambito strategico su cui l’Unione ha un controllo pressoché totale: quello delle macchine usate per produrre i microchip più sofisticati.
I microchip
L’Asml, azienda con sede nei Paesi Bassi, è l’unica al mondo in grado di costruire macchinari per produrre chip di grandezza pari o inferiore a sette nanometri, quelli usati dall’intelligenza artificiale più avanzata. L’Asml inoltre controlla il 90 per cento del mercato delle macchine che producono chip leggermente più grandi (14 nanometri).
Una limitazione delle esportazioni della Asml non sarebbe un gesto senza precedenti: nel 2023 i Paesi Bassi hanno vietato all’azienda di vendere i suoi sistemi più avanzati alla Cina. Ma l’Europa potrebbe decidere di imporre agli Stati Uniti lo stesso trattamento solo se i rapporti dovessero diventare estremamente conflittuali. Inoltre, esattamente come nel caso della Swift, la modifica della filiera di distribuzione dei chip potrebbe avere conseguenze disastrose e imprevedibili che colpirebbero duramente anche l’Europa.
Le materie prime
Un altro strumento di pressione deriva dal domino europeo nel mercato globale delle materie prime. L’Europa non è un esportatore di materie prime paragonabile agli Stati Uniti, ma è un intermediario indispensabile nel contesto mondiale. La scarsità di risorse naturali, la posizione centrale e la lunga tradizione di un mercato relativamente aperto hanno permesso all’Europa di controllare buona parte delle attività legate al movimento dei prodotti, come le spedizioni marittime e le coperture assicurative.
Una pesante frattura con l’Europa renderebbe molto più difficile per gli Stati Uniti la vendita delle materie prime, non solo nel continente ma anche in altre zone del mondo. L’Europa è la patria delle più grandi aziende di commercio di materie prime del mondo. Solo la Svizzera ne conta circa novecento, compresi giganti come la Glencore, la Gunvor, la Mercuria e la Vitol. Anche il Regno Unito e i Paesi Bassi sono snodi importanti nel commercio delle materie prime.
Nel corso dei decenni le aziende europee hanno creato una vasta rete di fornitori, meccanismi di stoccaggio, infrastrutture per i trasporti e rapporti con le banche che gli consente di mettere in contatto i produttori con i consumatori in ogni punto del pianeta. Collegare miniere e aziende agricole remote a città e fabbriche distanti migliaia di chilometri è un’attività estremamente complessa che non sarebbe facile replicare.
Le più grandi aziende che gestiscono le navi da carico – come la Maersk, la Msc e la Cma Ggm – sono europee. La Oldendorff, prima azienda mondiale nel campo delle spedizioni a bordo di portarinfuse – navi usate per trasportare carichi come cereali, carbone, minerale grezzo, cemento – è tedesca. Gli armatori greci controllano più del 30 per cento delle petroliere e più di un quinto (per capienza) della flotta che trasporta gas naturale liquefatto. L’industria dei trasporti marittimi è molto sviluppata anche in Asia, ma in questo campo l’Europa sorpassa di gran lunga la quota di mercato degli Stati Uniti.
Inoltre, le società finanziarie europee, diversamente da quelle statunitensi, hanno un ruolo di primo piano nel commercio delle materie prime. Londra, con la sua rete di broker e assicurazioni, assicura più del 40 per cento delle attività energetiche off-shore del mondo. I dodici club che si occupano delle assicurazioni P&I (Protection and Indemnity) e formano il British international group coprono la grande maggioranza delle petroliere a livello globale. Le banche europee sono molto presenti negli aspetti finanziari del commercio delle materie prime, mentre gli istituti di credito statunitensi sono sostanzialmente assenti.
Di recente l’Europa ha cercato di sfruttare la sua influenza per colpire la Russia dopo l’invasione dell’Ucraina, vietando alle aziende che commerciano in materie prime, alle banche, alle navi e alle assicurazioni europee di fare affari con il petrolio russo, a meno che non fosse venduto per meno di sessanta dollari al barile. Anche se Mosca ha trovato il modo di aggirare questo tetto, la stretta imposta dall’Europa ha provocato un aumento dei costi per le aziende russe e dunque ha ridotto gli introiti per la Russia in questo settore.
Questo non significa che l’Europa oserebbe ricorrere a tattiche simili contro gli Stati Uniti, ma sarebbe possibile immaginare un sistema di rincari o imposte meno aggressivo rispetto alle sanzioni russe che possa comunque far lievitare i costi del commercio internazionale per le aziende statunitensi. In ogni caso si tratterebbe di una decisione aggressiva e ostile, concepibile solo nel contesto di una rottura dei rapporti. È chiaro che anche davanti a un Trump senza freni, l’Europa non tratterebbe mai gli Stati Uniti come ha fatto con la Russia, a prescindere da quanto possa diventare violenta una battaglia commerciale.
La difesa
Il campo in cui il rapporto transatlantico è più squilibrato è senz’altro quello della difesa. L’Europa dipende molto dal sostegno militare di Washington, quindi avrebbe molto da perdere nel caso in cui gli accordi dovessero saltare. Come ha dichiarato Trump di recente, gli Stati Uniti sono protetti “da un grande e bellissimo oceano”. Ma questa protezione non è assoluta, e il fatto che l’Europa sia in posizione subordinata non significa che non abbia voce in capitolo.
Cominciamo da quel grande e bellissimo oceano, che gli Stati Uniti non possono proteggere senza l’aiuto degli europei. I sottomarini russi che entrano nell’Atlantico dalle loro basi artiche devono attraversare una serie di restringimenti conosciuti come Giuk gap (dai nomi di Regno Unito, Groenlandia e Islanda). Per decenni gli Stati Uniti e i loro alleati hanno monitorato insieme la zona attraverso una serie di sensori sottomarini collegati a strutture sulla terra ferma, oltre che con radar posizionati a bordo delle fregate e degli aerei di pattugliamento marittimo che decollano dal Regno Unito, dall’Islanda e dalla Norvegia.
Gran parte dei dati raccolti in queste missioni è probabilmente elaborata nel quartier generale della Nato, nella periferia di Londra. Se questo meccanismo dovesse interrompersi, per Washington sarebbe molto più difficile seguire il percorso dei sottomarini russi. Gli Stati Uniti avrebbero molte meno probabilità di rilevare la presenza dei sottomarini diretti verso le loro coste e questo permetterebbe alla Russia di piazzare una grande quantità di missili in posizioni abbastanza vicine da colpire bersagli statunitensi. Anche se Trump riuscisse in qualche modo ad annettere la Groenlandia agli Stati Uniti, le forze statunitensi non potrebbero comunque coprire interamente il gap. E se le navi della marina americana fossero inviate nel Pacifico per gestire una crisi o una guerra, la dipendenza degli Stati Uniti dalla collaborazione con l’Europa potrebbe crescere ulteriormente.
Il Giuk gap è solo un esempio di un fenomeno più grande: la potenza militare degli Stati Uniti deriva anche dall’accesso al territorio europeo. Per esempio nella base aerea di Qaanaaq, in Groenlandia, la United States space force mantiene una stazione radar per rilevare la presenza di missili russi in avvicinamento verso il Nordamerica . Senza un accesso a quel radar, gli Stati Uniti perderebbero la possibilità di ricevere un allarme su una minaccia missilistica imminente. Sul fianco meridionale della Nato, nel Mediterraneo, l’aeronautica statunitense sta valutando la possibilità di espandere una base a Cipro, che ha avuto una grande importanza per le operazioni statunitensi in Medio Oriente, a cominciare dalla consegna di aiuti a Gaza.
Forse il più importante snodo degli Stati Uniti in Europa è la Germania, dove Washington ha più di cinquantamila soldati. Il comando europeo e africano del Pentagono, che gestisce ogni soldato, carro armato, aereo da guerra e nave nella regione, si trova a Stoccarda. Il quartier generale dell’esercito americano in Europa è a Wiesbaden. La Germania ospita cinque delle sette guarnigioni europee del Pentagono, compresa Grafenwöhr, la più grande base delle forze armate americane all’estero.
Ramstein, una grande base dell’aeronautica, è stata per anni uno snodo per la gestione degli attacchi dei droni in Afghanistan, Pakistan, Somalia e Yemen. L’ospedale militare di Landstuhl ha curato 95mila soldati americani feriti in Iraq e Afganistan. Almeno il 40 per cento delle attività statunitensi in Germania serve a sostenere operazioni in altre parti del mondo. Le forze speciali che hanno ucciso Osama bin Laden in Pakistan nel 2011, per esempio, erano partite da Ramstein.
Il potere che ha l’Europa nei confronti degli Stati Uniti non deriva solo dall’accesso al suo territorio. Le aziende europee sono infatti profondamente integrate nella filiera di distribuzione della difesa degli Stati Uniti. Un quarto dei componenti dei caccia F-35 è prodotto in Europa, mentre il Regno Unito fornisce competenze di alto livello per il programma nucleare di Washington.
Poi c’è l’intelligence. Il Regno Unito fa parte dell’alleanza Five eyes (insieme a Stati Uniti, Australia, Regno Unito, Canada e Nuova Zelanda), creata per raccogliere e condividere informazioni riservate. Gli Stati Uniti generano il 75-80 per cento di queste informazioni, quindi guidano l’alleanza, ma il restante 20-25 per cento ha un grande valore e permette agli statunitensi di essere più efficienti, di condurre le loro operazioni e di agire in luoghi che altrimenti sarebbero inaccessibili, come le basi britanniche a Cipro.
I servizi di sicurezza statunitensi collaborano anche con altri paesi europei. All’inizio del decennio scorso, per esempio, l’Agenzia per la sicurezza nazionale statunitense (Nsa) ha cooperato con la Danimarca per spiare alcuni importanti politici europei attraverso i cavi di fibra ottica che attraversano il territorio danese. Nel 2015 sono stati i servizi d’intelligence olandesi ad allertare gli Stati Uniti sui tentativi degli hacker russi di influenzare il risultato delle imminenti elezioni. Naturalmente gran parte di questa collaborazione sopravviverebbe anche a un grave scontro transatlantico. In ambiti come l’antiterrorismo, per esempio, i servizi di sicurezza lavorano con tutti, anche con quelli di paesi rivali.
Tuttavia, l’Europa potrebbe far pesare la sua influenza sugli Stati Uniti anche senza interrompere del tutto i legami transatlantici. Lo ha già fatto in passato. Nel 1973 il Regno Unito si rifiutò di permettere agli statunitensi di far decollare gli aerei U2 dalle basi britanniche e cipriote durante la guerra dello Yom Kippur, mentre nel 1986 Francia, Spagna e Italia hanno vietato il passaggio nei loro cieli o l’uso delle loro basi aeree durante i bombardamenti sulla Libia, costringendo gli statunitensi a seguire un percorso più lungo e tortuoso. Nel 2003 la Turchia ha vietato a Washington di usare il suo territorio per lanciare un’invasione dell’Iraq, impedendogli di attaccare Baghdad da nord.
Queste schermaglie sono abbastanza normali in un’alleanza, ma se gli europei dovessero decidere di tenere testa a Trump, i veti potrebbero creare una frizione considerevole negli ingranaggi del potere americano.
Come in ambito economico, anche nel contesto militare è difficile che l’Europa eserciti il suo potere a pieno. Quasi tutte le misure che potrebbe adottare, infatti, avrebbero ripercussioni negative per il continente, anche se il danno per gli Stati Uniti sarebbe sicuramente maggiore. Questo è uno dei motivi per cui è difficile immaginare che i leader europei, non esattamente inclini a trovare un accordo tra loro anche nei momenti migliori, possano concordare una risposta comune all’aggressività di Trump. Ma se davvero decidessero di reagire, gli strumenti per farlo non mancherebbero.
(Traduzione di Andrea Sparacino)
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