“Quando si parla di doveri siamo tutti di serie A. Quando si parla di diritti, i nostri retrocedono”. C’è amarezza ma non rassegnazione nelle parole del professor Foad Aodi, presidente dell’Associazione medici di origine straniera in Italia (Amsi), quando ci riceve nel centro medico che dirige nel quartiere di Monte Sacro a Roma.
Secondo le stime dell’Amsi in Italia ci sono circa “77.500 professionisti della sanità di origine straniera”: 22mila medici e 38mila infermieri; e poi fisioterapisti, farmacisti, odontoiatri. Tra loro solo il 10 per cento riesce a lavorare nel Servizio sanitario nazionale. La maggior parte, circa il 65 per cento, non ha la cittadinanza italiana.
“Io ce l’ho, ma continuo a combattere perché la questione va risolta. Ricevetti la prima risposta negativa sui concorsi per medici e infermieri di origine straniera 15 anni fa dall’allora ministro dell’interno Giuliano Amato”, ricorda Aodi, fisiatra palestinese arrivato in Italia nel 1982.
Deroghe mai rispettate
Con il decreto legge “cura Italia” del marzo 2020 si è cercato di affrontare l’emergenza sanitaria dovuta al covid-19 consentendo l’assunzione “per l’esercizio di professioni sanitarie e per la qualifica di operatore sociosanitario di tutti i cittadini di paesi non appartenenti all’Unione europea, titolari di un permesso di soggiorno che consente di lavorare, fermo ogni altro limite di legge”. L’articolo 13 del decreto deroga al testo unico sul pubblico impiego (decreto legislativo 165/2001) che esclude l’accesso nella pubblica amministrazione ai cittadini non europei privi di un permesso di soggiorno di lungo periodo.
Tuttavia, a un anno di distanza, molte amministrazioni ospedaliere e aziende sanitarie locali continuano a ignorare l’articolo 13 del decreto, pubblicando bandi che per i medici esigono il requisito della “cittadinanza italiana o di paesi dell’Unione europea”, e per reclutare infermieri, operatori sociosanitari e socioassistenziali applicano i requisiti previsti dal testo unico del pubblico impiego, senza deroghe per i cittadini non europei.
“Diversi bandi emanati in piena emergenza covid non hanno tenuto conto del decreto cura Italia”, spiega Paola Fierro, avvocata e referente del servizio antidiscriminazione dell’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (Asgi). “Un’azienda sanitaria locale di Roma ha indetto di recente una manifestazione di interesse inserendo tra i requisiti la cittadinanza italiana o di paesi dell’Unione europea. Anche in questo caso nessun riferimento all’articolo 13 del decreto”.
Emblematico il caso della regione Piemonte che durante la pandemia, tra appelli alle organizzazioni non governative e ringraziamenti ufficiali per il personale sanitario cubano che aveva prestato servizio durante la prima ondata, ha emanato più bandi vietati agli stranieri, corretti solo in un secondo momento e dopo le indicazioni di Asgi e Amsi.
La questione interessa anche altre regioni: Campania e Puglia, per citarne solo due. “Non so spiegarmi il perché di così tanti bandi illegittimi, ma un’ipotesi è che ci sia un problema di mancata comunicazione da parte del ministero della salute con le aziende sanitarie locali e le regioni. Ci dovrebbe essere un obbligo di aggiornamento continuo delle amministrazioni locali”, auspica Fierro. E per quanto riguarda le segnalazioni “Asgi ne riceve davvero poche dalle persone interessate, siamo noi con il lavoro di monitoraggio a trovare i bandi che non tengono conto di questa deroga”.
Un esempio positivo arriva invece dalla regione Emilia-Romagna che, al contrario di altre amministrazioni locali, ha colto l’opportunità offerta dal decreto “cura Italia” con “un bando per reclutare operatori sanitari da destinare subito e temporaneamente alle strutture ospedaliere di tutto il territorio regionale”.
Soluzioni provvisorie
Gli ostacoli per i professionisti della sanità di origine straniera non cominciano con l’emergenza covid. Artes Memelli, dottoressa di nazionalità albanese in Italia da cinque anni, subito dopo la laurea conseguita all’università di Tor Vergata, a Roma, si è scontrata con la burocrazia per iscriversi all’ordine dei medici: “Serviva un permesso di lavoro e il mio era di studio. Da alcuni funzionari del mio ordine professionale mi venne anche suggerito di fare la cameriera per ottenerlo, sotterfugio per me inaccettabile visti i sacrifici fatti per diventare medico”. La battaglia per iscriversi all’ordine l’ha vinta dopo cinque mesi e l’ha fatta entrare in contatto con l’Amsi, dove ora ricopre il ruolo di coordinatrice dei giovani medici stranieri in Italia.
Memelli, 28 anni, ha trascorso l’ultimo anno lavorando come medico d’emergenza territoriale per il 118, nelle corsie di vari ospedali del Veneto, da Rovigo a Venezia, e in un centro covid. A differenza di molti colleghi italiani l’ha fatto da libero professionista, con contratti precari e lavorando in cooperative. Rimane la delusione per le promesse disattese dopo il “cura Italia”: “Pensavamo che il limite della cittadinanza sarebbe stato superato, ma contratti rinnovabili ogni tre o sei mesi non garantiscono alcuna stabilità e rappresentano solo delle soluzioni provvisorie”.
Memelli cita come modello da seguire quello della Francia, dove nei mesi scorsi è stata data la cittadinanza a settecento lavoratori stranieri (non solo personale sanitario, anche netturbini e cassieri) in prima linea durante la pandemia. Una decisione politica che va nella direzione opposta rispetto alle scelte adottate finora in Italia, dove secondo l’Unione medica euromediterranea solo il 35 per cento di medici, infermieri e personale sanitario di origine straniera ha la cittadinanza italiana, mentre agli altri nessuno pensa di dargliela, nonostante molti possano vantare carriere anche decennali.
Carenze
Secondo le stime del sindacato dei medici ospedalieri (Anaao Assomed) in Italia mancano all’appello circa cinquemila specialisti: la metà anestesisti e altrettanti tra infettivologi e pneumologi. La Federazione nazionale degli ordini delle professioni infermieristiche (Fnopi) segnala inoltre la necessità di almeno ventimila infermieri per affrontare l’emergenza, tra terapie intensive e assistenza sul territorio.
Richieste di personale sono arrivate anche ad Aodi: “Un anno fa, all’inizio dell’emergenza epidemiologica, ospedali pubblici e privati hanno chiesto alla nostra associazione duemila professionisti di origine straniera, medici, infermieri e fisioterapisti. Il 30 per cento in più rispetto ai due anni precedenti”.
In uno scenario già incerto e precario il cambio di governo ha complicato ulteriormente le cose. “Sulle questioni che riguardano i bandi e l’articolo 13 del cura Italia avevamo scritto alla fine del 2020 una lettera indirizzata all’allora sottosegretaria alla salute Sandra Zampa, senza però ricevere alcuna risposta. Adesso dovremo riprendere i contatti con il ministero per ottenere un riscontro a livello nazionale”, dice Fierro.
La strada appare in salita ma Aodi, dopo essersi rivolto anche al presidente della repubblica, rimane fiducioso: “Continuo ad avere contatti con parlamentari di tutte le forze politiche e incontrerò anche esponenti del governo Draghi”. Aodi e l’Amsi chiedono per i professionisti della sanità che lavorano in Italia da almeno cinque anni la possibilità di accedere ai concorsi pubblici e cominciare un percorso verso la cittadinanza, anche in nome della cosiddetta immigrazione di qualità che la politica dice di volere ma nei fatti scoraggia, continuando a non applicare provvedimenti come il “cura Italia”.
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