I messaggi sono cominciati ad arrivare in un sabato tranquillo.

“È il tuo murale!”.
“È una tua opera!”.
“Sbaglio o è una tua opera?”.

Alcuni conoscenti dell’artista Gelila Mesfin si erano accorti che un suo disegno era apparso su un palazzo di Chicago, e volevano congratularsi con lei. Sembrava che l’immagine – in cui Michelle Obama è rappresentata come una regina dell’antico Egitto – fosse stata staccata dal profilo Instagram di Mesfin, ingigantita e stampata sull’edificio di mattoni.

All’inizio la ragazza era esaltata. “Ho pensato, ‘Wow, che figata’”, mi ha detto. “Dev’essere piaciuta a qualcuno che poi l’ha messa sul muro”.

Poi però ha visto la firma. C’era un nome sull’angolo in basso a destra del murale. E non era il suo. Come se non bastasse l’artista e urbanista che aveva firmato il murale, Chris Devins, in un’intervista raccontava che l’idea era solo sua: “Volevo mostrare Michelle Obama per come la immagino io”, ha raccontato Devins a DNAInfo Chicago. “Per questo è vestita come una regina egiziana”.

Mesfin era a pezzi. E furiosa.

“È sotto gli occhi di tutti. Il murale è identico al mio disegno, a parte la firma. Sono sconvolta. Qualcuno si è appropriato del mio lavoro”.

Chris Devins, dal canto suo, non crede di aver rubato nulla. “Lo guardo e penso davvero che sia il frutto della collaborazione tra un urbanista e un’artista”, mi ha detto.

Gelila Mesfin aveva condiviso il suo disegno su Instagram a ottobre dell’anno scorso. Poi, il mese successivo, aveva pubblicato un piccolo video che mostrava come era stato realizzato il disegno (il fotografo che ha scattato la foto originale di Michelle Obama, Collier Schorr, ha fatto sapere che non vuole commentare la vicenda).

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Più o meno nello stesso periodo in cui Gelila Mesfin aveva condiviso il suo video, Devins aveva lanciato una campagna di crowdfunding: voleva raccogliere fondi per realizzare un grande murale che avrebbe ritratto Michelle Obama a Chicago nella zona di South Side, dov’è cresciuta. L’obiettivo era “dare ai bambini un modello a cui guardare”, aveva scritto Devins sul sito della raccolta fondi. All’epoca non aveva ancora visto l’opera di Gelila Mesfin, mi ha detto. Alla fine ha raccolto 11.735 dollari e ha realizzato il murale (nella foto in alto).

Come un dj
Chris Devins mi ha detto che capisce lo stato d’animo di Mesfin, ma respinge le sue accuse, che trova fuorvianti e all’antica. “Ho lavorato da urbanista”, racconta. “È ovvio che se avessi sostenuto di essere un artista, e poi avessi preso l’opera di qualcun altro su internet dicendo che era mia, l’autore ci sarebbe rimasto male, e lo capirei. Ma non rivendico la paternità dell’opera”.

Devins non mi ha detto esattamente come ha trasformato l’immagine di Mesfin in un murale, ha solo confermato di aver usato della vernice e di aver lavorato a partire da una riproduzione dell’immagine originale, che sostiene di aver trovato su Pinterest, senza che fosse indicato il nome dell’autore. Devins ha detto di essere disposto a pagare a Mesfin una somma di circa mille dollari ora che conosce la sua identità (ha chiesto a un avvocato di occuparsene).

Ma durante la nostra conversazione definiva il murale a volte come un’opera di urbanismo, a volte come un’opera d’arte.

“Questa potrebbe essere, di per sé, una nuova forma d’arte”, ha detto Devins. “È come essere una specie di dj delle immagini. Rispetto agli artisti che si limitano a scarabocchiare, a me piace pensare fuori degli schemi. In fin dei conti, ho preso una cosa e l’ho resa veramente bella. Mesfin non avrebbe saputo trasportare il suo disegno sul muro”.

“A volte mi muovo velocemente. Ma è come se fosse campionamento. Sono un musicista. Ed è solo un campionamento di cui non sono stato in grado di chiarire in tempo i diritti d’autore”.

I dibattiti sul confine, talvolta labile, tra omaggio e plagio sono vecchi quanto l’arte e le nuove tecnologie hanno peggiorato le cose. “Nel mondo in cui viviamo è possibile realizzare una copia digitale e poi copiarla un miliardo di volte”, racconta Devins. “La domanda è quale posizione assumere rispetto a questa realtà. Gli artisti che scarabocchiano, i doodler artist, sono spaventati perché capiscono quale sarà il futuro”.

Devins sembrava usare il termine “artisti che scarabocchiano” in tono dispregiativo, ma è anche un modo efficace per descrivere uno dei tanti modi con cui internet ha portato nuovi titoli professionali nei settori creativi, un fenomeno che complica ulteriormente i concetti di proprietà dell’opera.

Gli strumenti con cui gli artisti condividono con gli altri le loro idee sono gli stessi che aumentano le possibilità che siano copiate

Non serve più una tipografia per essere giornalisti. Non serve un museo per essere un artista. Le piattaforme web permettono a chiunque di distribuire qualsiasi cosa in rete. E hanno anche ridotto la distanza tra la creazione di una cosa e il suo remix, tra il rielaborare un’opera e semplicemente copiarla.

Gli stessi strumenti che permettono agli artisti di condividere con gli altri la loro opera aumentano le possibilità che il loro lavoro sia copiato. Questi incidenti sono particolarmente irritanti se si pensa che spesso chi ne trae beneficio già gode di grandi privilegi e poteri. “Non mi viene in mente una persona non bianca che abbia creato qualcosa di virale, sfruttandolo poi economicamente”, ha detto a Wired all’inizio dell’anno April Reign, caporedattore di Broadway Back. Ma il denaro non è la sola cosa che distingue una collaborazione dal plagio.

Disegni all’uncinetto
La cultura dei meme esalta il remix come un valore centrale. Eppure molti meme famosi hanno alla base una qualche forma di sfruttamento. Questo perché dietro ai meme ci sono fondamentalmente delle “persone che si appropriano di qualcosa a proprio vantaggio”, come ha detto l’artista Matt Furie al mio collega Adam Serwer. “È solo un prodotto di internet”. Furie ha disegnato una rana oggi nota come Pepe. All’origine doveva essere un personaggio simpatico e buono. Invece è diventato un simbolo dei suprematisti bianchi.

È quasi impossibile non imbattersi in Pepe online, mentre altre forme di riappropriazione visiva sono più difficili da identificare. Eppure i social network e le altre piattaforme di publicazione – quegli stessi luoghi dove proliferano le opere rubate – aiutano gli artisti a capire se il loro lavoro è stato copiato. È stato sui social media che Mesfin ha trovato il murale di Devins, per esempio. Ed è stato in rete che Craig Robinson, un artista che vive a Berlino, ha scoperto che un altro artista aveva apparentemente copiato le sue creazioni. Robinson è noto per aver creato i Minipops, piccole rappresentazioni pixellate di una vasta gamma di figure della cultura pop (nel 2004 ha pubblicato un libro sui Minipop).

È rimasto quindi di stucco quando qualcuno gli ha spedito via email un link a un articolo del New York Times che parlava di un’altra artista, Elsa Hansen Oldham, che aveva cucito all’uncinetto dei disegni identici a quelli di Robinson, senza mai citarlo.

“Le ho scritto un’email”, ha scritto Robinson su un blog. “Mi ha risposto e ha ammesso di essere stata influenzata dal mio lavoro e di averne parlato al Times… Ma poi ha aggiunto che lei fa parte della ‘scuola di pensiero secondo la quale l’arte non può essere creata o distrutta, ma solo remixata’. Una spiegazione comoda, no? È molto comodo avere una scuola di pensiero che ti permette di copiare la mia idea, la mia opera e le mie migliaia di ore di lavoro e ottenere in cambio un articolo sul New York Times e delle mostre a New York”.

Elsa Hansen Oldham descrive tutta la vicenda un po’ come “un episodio di trolling su internet” contro di lei. Così mi ha scritto in un’email. Aggiungendo che Robinson ha ignorato le email che lei gli ha scritto in seguito.

“Quando ho cominciato a dedicarmi all’uncinetto come hobby, ho cucito alcune delle figure di Craig. Poi ho cominciato a crearne direttamente io di nuove e da allora ho sempre fatto così. Queste sue immagini fatte all’uncinetto sono finite nella mia prima trapunta. Ho anche cucito un’immagine di Robinson su questa trapunta, perché ho sempre dichiarato apertamente che quelle immagini sono le sue. È un omaggio alla sua opera”.

Robinson non è d’accordo.

“Non mi va bene”, ha scritto sul suo blog. “Mi sembra che questa persona si sia creata una carriera sfruttando il mio lavoro. Può darsi che abbia smesso di copiare la mia opera, ma continua a plagiare lo stile. Non sarebbe mai arrivata dove è ora se non avesse cominciato copiando il mio lavoro. Non è giusto”.

L’artista Richard Prince ha creato un’installazione con le foto di altre persone prese su Instagram

Il dibattito sull’appropriazione artistica cambia con la tecnologia. In che modo un trasferimento di forma – dai pixel all’uncinetto o dai pixel al mattone – influenza la paternità o maternità dell’opera? E cosa succede quando l’artista dell’opera originale è morto e non può dare il suo consenso?

Si discute molto su quale sia un uso equo dei campionamenti audio nelle canzoni. Gli eredi di un musicista noto come Messy Mya, per esempio, hanno fatto causa a Beyoncé per avere usato delle campionature della sua voce nella sua canzone Formation. La registrazione si trovava su YouTube, dove era stata pubblicata da Messy Mya prima della sua morte, nel 2010. Questo elemento potrebbe essere importante perché stabilire un caso di plagio, sia dal punto di vista legale sia da quello culturale, dipende ancora in buona parte dal mezzo in questione. Quando si tratta di testo, le cose sono spesso più chiare che con la musica.

Secondo Sharon Sandeen, direttrice dell’Istituto per la proprietà intellettuale della facoltà di diritto Mitchell Hamline, “è curioso notare che per la musica non sembrano valere gli stessi standard. È una questione molto controversa”.

I giudici tendono a concentrarsi sul “grado e la natura della trasformazione” da un’opera all’altra. Nel caso della foto di Michelle Obama, ci sono state almeno due trasformazioni. La prima è stata dalla fotografia di Schorr al disegno di Mesfin. Ma secondo Sandeen in questo caso c’è stata trasformazione: “L’immagine originale è stata completamente trasformata”. La seconda è stata dal disegno di Mesfin al murale di Devins.

L’artista Jeff Koons è ricorso senza successo a una logica simile in un tribunale francese, che ha recentemente deciso che la sua scultura in porcellana del 1988, che ritrae due bambini nudi, è stata copiata da una cartolina del 1975 contenente una fotografia di Jean-François Bauret. I giudici hanno ordinato a Koons e al centro Pompidou, che ha esposto una fotografia della scultura di Koons, di pagare l’equivalente di circa cinquantamila dollari di risarcimento.

Negli Stati Uniti l’artista Richard Prince ha creato un’installazione composta dalle fotografie delle persone su Instagram, stampate e ingrandite, con accanto i suoi commenti sulle foto. “L’unica cosa che Prince ha aggiunto alle immagini”, ha scritto Lizzie Plaugic nel 2015 per The Verge, “sono i suoi commenti viscidi sotto le foto. Sotto una che ritrae la musicista Sky Ferreira in un’automobile rossa, c’è scritto: ‘Bel giro oggi. Rifacciamolo. Richard’ ”.

“È affascinante”, mi ha detto Sandeen. “Ero al museo Broad a Los Angeles e c’erano alcune sue opere. Nella didascalia sottolineavano che Richard Prince mette in discussione le idee tradizionali di diritto della proprietà intellettuale. L’ho trovato divertente: è davvero questo l’obiettivo della sua arte? Creare precedenti giuridici? O era solo pigro?”.

“Penso che, come società, abbiamo strani sentimenti nei confronti degli artisti”, ha detto Robinson, il creatore dei Minipops. “Molte persone dicono che vorrebbero saper disegnare, e un sacco di persone s’indignano quando scoprono quanto è stato pagato un logo”.

Solo in fotografia
Almeno 18 artisti hanno denunciato il fatto che l’azienda d’abbigliamento Zara abbia rubato le loro creazioni. Gli artisti Tuesday Bassen e Adam J.Kurtz hanno creato un sito web che cataloga i presunti furti. La risposta di Zara, dice Kurtz sul sito, è stata “particolarmente offensiva”.

È “molto difficile immaginare che una parte della popolazione possa ricollegare queste immagini a Tuesday Bassen”, ha scritto Zara in una lettera indirizzata a Bassen e diffusa in rete. “Gli avvocati di Zara stanno dicendo che la mia rivendicazione non ha nessun fondamento perché io sono un artista indipendente e loro una grossa azienda”, ha scritto Bassen in un tweet.

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Mesfin, l’artista della foto di Michelle Obama, ha chiesto ai suoi avvocati di occuparsi della causa contro Devins, perché vuole tornare a occuparsi dei suoi studi di marketing della moda al Lim college di New York. Il caso del murale di Chicago non è il primo in cui i suoi disegni sono state usati senza il suo permesso.

“A volte qualcuno mi scrive dicendo di aver visto una mia opera in un museo. Non è giusto, ma so che queste cose succedono. Ormai tutto è disponibile e circola liberamente. Tutto è digitale”.

Tutto è digitale, in realtà, finché non lo è più. I Minipops di Robinson sono stati trasformati in trapunta. Qualcuno ha messo il ritratto di Michelle Obama come regina egiziana di Mesfin su un paio di calzini. E spesso, anche quando il digitale diventa fisico, poi fa di nuovo il cammino opposto e rientra nel mondo digitale. Le persone vanno a Chicago a fare un selfie davanti al murale, per poi mandarlo a Mesfin: lei è originaria dell’Etiopia e non è mai stata a Chicago. “L’ho vista solo in fotografia”.

Come atto di sfida, Robinson ha ritrasformato la versione in uncinetto del suo stesso autoritratto, fatta da Oldham, in una versione in pixel. Non ha avuto bisogno di spiegare che quel che voleva dire è che questa è un’opera d’arte. E l’autore è lui.

(Traduzione di Federico Ferrone)

Questo articolo è uscito su The Atlantic.

This article was originally published on The Atlantic. Click here to view the original. © 2017. All rights reserved. Distributed by Tribune Content Agency.

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