Sei avvocati dello studio Irell & Manella hanno depositato presso la corte suprema della California un documento di 46 pagine: è la causa che Elon Musk, uno degli uomini più ricchi del mondo secondo la classifica Forbes, ha intentato contro la OpenAi.
La lettura del documento è un’immersione nella storia recente delle aziende che si occupano di intelligenze artificiali, ma anche uno spaccato del mondo in cui vivono i grandi nomi della Silicon Valley e un viaggio in uno di quei legal drama che, dagli Stati Uniti, hanno invaso l’immaginario culturale occidentale attraverso film e serie tv.
Per essere precisi, Musk ha fatto causa a: Sam Altman e Greg Brockman, rispettivamente amministratore delegato e presidente della OpenAi; otto diverse aziende, tutte parte della complessa struttura di governance della OpenAi o in qualche modo associate a essa; a chiunque altro abbia interessi in merito (nel legalese americano, si dice Does 1 through 100).
Il documento ricostruisce la versione di Musk. Il miliardario afferma, attraverso i suoi legali, di aver voluto sostenere la OpenAi, di cui è cofondatore, per contrapporsi allo strapotere della Alphabet nello sviluppo delle intelligenze artificiali. La OpenAi, il cui nome sarebbe stato suggerito proprio da Musk, avrebbe dovuto rimanere non profit e avrebbe dovuto agire condividendo pubblicamente tutte le proprie scoperte tecnologiche secondo una logica open source.
In effetti, così è stato finché la OpenAi non ha chiuso un accordo miliardario e in esclusiva con la Microsoft. Secondo Musk questa sarebbe una violazione degli accordi iniziali.
La OpenAi ha risposto, per ora, attraverso un post sul proprio blog aziendale che mostra anche scambi di mail fra Musk, Altman, Brockman e altre persone. Da queste mail si evincerebbe che Musk fosse consapevole dell’impossibilità di portare avanti la missione della OpenAi senza cambiare la natura non profit del progetto. Il miliardario avrebbe anche provato a comprare la OpenAi con la sua azienda Tesla.
La paura più grande di Musk sarebbe l’artificial general intelligence (agi), cioè un’intelligenza artificiale che simula perfettamente il modo in cui pensano le persone: è una paura esistenziale, condivisa da alcune persone in vista nella Silicon Valley e non solo. Secondo i critici di queste posizioni si tratterebbe di una distrazione rispetto ai reali problemi posti dalle intelligenze artificiali.
Insistere sull’agi ha anche un altro scopo: l’accordo fra la OpenAi e la Microsoft, infatti, riguarda tutto ciò che non è definibile come agi. Nel caso in cui l’azienda di Altman dovesse sviluppare un’intelligenza artificiale generale, allora questo sviluppo ricadrebbe nella missione della componente non profit.
Siamo di fronte a una serie di paradossi. Musk, un multimiliardario che approfitta di ogni vantaggio della sua posizione e del sistema capitalistico per arricchirsi sempre di più, chiede che un’azienda che gioca al suo stesso gioco condivida pubblicamente tutte le proprie scoperte rinunciando al profitto. La OpenAi ha tutti gli interessi a magnificare il proprio prodotto di punta, ChatGpt, per raccogliere più finanziamenti. Ma allo stesso tempo deve sostenere che non è ancora così avanzato da essere un’agi, altrimenti dovrebbe rinunciare alla componente for profit.
In tutto questo, Musk prosegue con il suo atteggiamento da troll provocatore di internet, trovando sponda e omologhi in molte persone del settore. Sul suo profilo X (già Twitter), Musk ha scritto che lascerà perdere la causa se OpenAi cambierà nome in ClosedAi; Stephen Heidel, che lavora per la OpenAi, gli ha risposto per le rime ironizzando sul nome di uno dei figli di Musk, che si chiama X Æ A-12.
Invece di temere le macchine, forse, dovremmo chiederci come facciamo a fidarci di queste persone.
Questo testo è tratto dalla newsletter Artificiale.
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