Che cosa faranno le intelligenze artificiali al mondo del lavoro? Che cosa stanno già facendo? Entrambe le domande sono importanti e ci ricordano che dovremmo essere capaci di valutare gli impatti di nuove tecnologie nel presente e provare a immaginare quelli del futuro, per prevenire danni e conseguenze indesiderate. Non significa vestire i panni del veggente ma fare considerazioni sulla base di quel che sappiamo, della nostra storia come esseri umani, della storia delle tecnologie, del modello di società che abbiamo costruito.

Per evitare di cadere in trappole logiche, però, è meglio partire dal passato e dal modo in cui si è consolidato nel presente: questo approccio sembra sempre il più assente dalle conversazioni pubbliche, dal discorso politico e persino da quello giornalistico, in questa infinita corsa all’istante e alla novità che perseguiamo.

Il dettaglio tecnologico che ci aiuta a ragionare sono le batterie che alimentano lo smartphone – o, più raramente, il computer – con cui stai leggendo Artificiale. Questi strumenti, che probabilmente usi quotidianamente come me, hanno bisogno di alcuni minerali come il cobalto per funzionare. È una componente fondamentale proprio delle loro batterie. Le intelligenze artificiali hanno bisogno dei data center che necessitano di molti altri minerali, fra cui il rame. Anche i data center usano il cobalto, anche se in misura minore rispetto ad altri minerali. Naturalmente, per usare le intelligenze artificiali dobbiamo farlo attraverso smartphone e computer.

Le miniere di rame e di cobalto spesso si trovano nel medesimo luogo per vari motivi (hanno, fra l’altro, origini geologiche comuni). È il caso della miniera Shabara nella Repubblica del Congo.

Un’inchiesta del Washington Post del 2023 racconta le condizioni di lavoro in quella miniera. L’articolo lega l’estrazione di minerali ai veicoli elettrici, perché anche le batterie dei veicoli elettrici hanno bisogno del cobalto. Ironicamente, dunque, le intelligenze artificiali competono con l’industria delle macchine elettriche per l’approvvigionamento di materie prime, come fa notare questo pezzo di Politico.

Che sia per gli smartphone, per i data center o per le auto elettriche che si presume potrebbero guidare la transizione ecologica – tutto da dimostrare – quel che non cambia è che chi lavora nelle miniere lo fa in condizioni inumane, spesso estraendo il materiale a mano, come avviene a Shabara. Ma, allo stesso tempo, chiudere le miniere significherebbe, nel caso specifico, togliere il sostentamento a oltre duecentomila minatori e alle loro famiglie.

Per aumentare la complessità, l’uso delle intelligenze artificiali potrebbe migliorare le attività minerarie diminuendo i rischi per le persone. Ma anche togliendo loro quel lavoro pericolosissimo ma, nella contingenza, indispensabile per il loro sostentamento.

Le intelligenze artificiali hanno anche bisogno di dati per funzionare. E hanno bisogno di esseri umani che annotano questi dati, che li rendano comprensibili alle macchine. Sono lavoratrici e lavoratori sfruttati. Dalle aziende cinesi in Cina così come dalle aziende statunitensi che hanno preferito attingere a manodopera nel sud globale. Quelle stesse aziende, poi, hanno iniziato a licenziare persone una volta che, semplicemente, non ne avevano più bisogno.

Queste dinamiche accadono oggi e potremmo attribuirle, se fossimo semplicemente parte di quelle persone anti-ia – sì, ci sono – allo sviluppo di questa specifica tecnologia. Ma come dimostrano le interconnessioni di cui stiamo parlando non è così. Queste dinamiche fanno parte del mercato del lavoro, della logica di sfruttamento, di estrazione di valore, di ricerca di massimizzazione del profitto a ogni costo.

Come possiamo preoccuparci, allora, dei presunti effetti che le intelligenze artificiali avranno sul lavoro del futuro se non siamo stati capaci, fin qui, di occuparci di quello che le varie industrie stanno facendo da anni alle persone, ai territori che vengono letteralmente depredati e al tempo stesso resi dipendenti dai predatori?

Poi c’è il problema della sostituzione: non c’è dubbio che alcuni posti di lavoro spariranno e verranno sostituiti dalle macchine, ne abbiamo parlato a proposito del reddito di base universale.

E poi c’è l’adozione delle intelligenze artificiali in azienda nel mondo occidentale. Stiamo assistendo a un percorso paradossale, l’ennesimo della cosiddetta transizione digitale: assetate di novità, le dirigenze di molte aziende vogliono assolutamente adottare le ia. Però, spesso, vogliono farlo senza partire dalle basi: ci vuole formazione. Ci vogliono competenze.

E così, cominciano a emergere analisi e studi che raccontano gli effetti indesiderati. In questa assurda corsa competitiva a cui sembriamo rassegnati, il 96 per cento dei manager pensa che le ia aumenteranno la produttività di chi lavora. E chi lavora ammette che le macchine fanno di più e che, proprio per questo, aumenta anche la pressione sulle persone. E quindi, di conseguenza, aumenta il rischio di non sapere come soddisfare le aspettative, di stare male, di burnout.

Non è un fenomeno nuovo: lo ha raccontato molto bene Judy Wajcman nel suo libro La tirannia del tempo – L’accelerazione della vita nel capitalismo digitale (Treccani Libri 2020). Gli strumenti tecnologici hanno un potente valore emancipatorio e numerosi studi hanno dimostrato che, dagli anni sessanta a oggi, il tempo libero nel mondo occidentale è aumentato, non diminuito. Eppure siamo sotto pressione perché quegli stessi strumenti hanno alzato il livello delle pretese. Come è successo con la lavatrice per chi si occupa dei lavori domestici. In teoria la lavatrice ha liberato il tempo. In pratica, quel tempo è stato nuovamente messo a valore dai meccanismi gerarchici e capitalistici.

Ancora una volta, ragionare sulle intelligenze artificiali ci costringe a ripensare a noi, al mondo che abbiamo, al mondo che vorremmo.

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