Una macchina può fare arte?
Ted Chiang è uno scrittore di fantascienza statunitense ed è anche autore di alcuni articoli non fiction per il magazine The New Yorker. Di recente ha scritto un pezzo che si intitola “Perché l’ia non farà arte”.
La tesi del pezzo oscilla fra due poli solo apparentemente analoghi. Il primo è: “queste macchine non faranno arte”. Il secondo è: “non si può fare arte con queste macchine”. A quanto pare, Chiang abbraccia entrambe le posizioni.
In realtà, la prima versione della faccenda è abbastanza ovvia ma è anche la risposta a una domanda sbagliata: la domanda “una macchina potrà mai fare arte?” è mal posta perché, in questo momento storico, le macchine – anche se le chiamiamo intelligenze artificiali – non hanno agentività. Non sono, cioè, capaci di prendere delle decisioni e di agire intenzionalmente nel contesto sociale in cui operano. In altre parole, oggi le intelligenze artificiali generative non sono in grado di fare qualcosa autonomamente e consapevolmente. Questo significa che non possono nemmeno fare arte, se all’arte vogliamo dare almeno il requisito minimo dell’autonomia e dell’intenzionalità: diversamente, chiameremmo arte anche un fiocco di neve.
Certo, se vogliamo avere uno sguardo proiettato anche al futuro non possiamo escludere a priori che i large language model, nelle loro evoluzioni, diventeranno più autonomi. Non possiamo nemmeno escludere che avranno una propria agentività: sappiamo che già ora, per esempio, si creano modelli proprio di comprensione della realtà che vanno oltre la semplice imitazione del linguaggio umano. Ma ci tocca occuparci anche del presente: al momento le ia generative non sono autonome. Possiamo immaginarle diverse e con una forma determinata, ma dobbiamo essere consapevoli che si tratta di una speculazione quasi fantascientifica – anche un po’ pericolosa, se avalla le narrazioni catastrofiste o quelle iper-ottimistiche – che rischia di fare la fine di quelle previsioni che poi, un secolo dopo o anche meno, fanno sorridere per la loro scarsa visione (tipo: “Nessuno vorrà mai un computer a casa”, o cose del genere).
Ma Chiang va oltre e parla di chi, invece, usa le macchine generative per creare. Affronta questo tema in varie parti dell’articolo, per mettere un discrimine fra i veri artisti e quelli che fanno arte con l’ia. A un certo punto scrive: “I veri dipinti portano il segno di un numero enorme di decisioni. Al confronto, una persona che usa un programma di conversione testo-immagine come Dall-e inserisce un prompt come Un cavaliere in armatura combatte un drago sputafuoco e lascia che il programma faccia il resto”.
L’affermazione può anche sembrare sensata. Ma, prima di tutto, si riferisce a un uso evidentemente amatoriale degli strumenti di intelligenza artificiale generative. L’operazione descritta da Chiang, infatti, può essere svolta da una persona che voglia testare Dall-e o altri strumenti analoghi e che ci si approccia per la prima volta: quella persona, senza competenze specifiche e senza alcun reale desiderio di creare, di fare arte o di usare queste immagini in maniera professionale, starà semplicemente facendo un test con la macchina, la userà nella sua forma più elementare.
Però Chiang sembra trascurare chi, invece, usa i vari Midjourney, Stable Diffusion, Flux e via dicendo per scopi artistici e professionali. In questo caso, il prompt semplice non è mai così poco articolato. E, soprattutto, è il primo di una serie di iterazioni e di sperimentazioni: per ottenere il risultato desiderato – e anche per lasciarsi guidare dalle caratteristiche imprevedibili delle macchine generative esplorandone gli spazi più estremi – ci vogliono ore di lavoro, esperimenti, prove. Non solo: l’immagine può essere poi postprodotta, passata attraverso strumenti di modifica come Photoshop. Può richiedere altro lavoro manuale, che magari si integra con l’immagine originaria e che porta ad altre strade da esplorare. Insomma: ci sono artisti e professionisti che lavorano con la macchina come strumento di potenziamento della propria creatività e delle proprie competenze.
“Siamo tutti prodotti di ciò che ci ha preceduto”, conclude Chiang, “ma è vivendo le nostre vite in interazione con gli altri che portiamo un significato nel mondo. Questa è una cosa che un algoritmo di auto-completamento non potrà mai fare”. Probabilmente ha ragione, ma questo non esclude che una persona possa portare significato nel mondo usando anche un algoritmo di auto-completamento come strumento.
Senza pretese di definirla arte, ho fatto un esperimento con sei diverse intelligenze artificiali generative per creare il teaser di una possibile serie per ragazzi, con due protagonisti generati da zero. Tutto quel che vedrai in questo video è generato: le voci, i suoni, la musica, le immagini. Io, però, ho scritto i testi, la struttura, la sceneggiatura, e poi l’ho montato.
Seguendo questo esempio – o quello delle comunità che usano le ia generative e che condividono volentieri, liberamente e gratuitamente, i propri metodi di lavoro e di creazione –, anche altre persone possono essere abilitate a fare lo stesso e possono usare varie ia generative per creare, per dare alle proprie fantasie creative una forma che altrimenti non avrebbero. Non saprei quantificare quanto mi sarebbe costato in termini di denaro e di tempo fare quel video senza l’uso delle ia, ma parliamo di svariati ordini di grandezza oltre la spesa – un centinaio di euro – e il tempo – una ventina di ore di lavoro, oltre alle mie sperimentazioni, che fanno parte del mio lavoro in varie forme, inclusa la scrittura di pezzi come questo – che ho effettivamente dedicato al progetto.
L’abilitazione a fare, a creare – ma non solo – è un punto cruciale che disinnesca molti degli attacchi alle intelligenze artificiali generative. La pensano così anche dalle parti della Nanowrimo (National Novel Writing Month, un’associazione statunitense che promuove la scrittura creativa nel mondo): “Crediamo che condannare categoricamente le ia”, hanno scritto, “significhi ignorare i confini classisti e abilisti che delimitano l’uso di queste tecnologie e che tutte le questioni relative all’uso delle intelligenze artificiali siano questioni legate al privilegio”.
Perché affermano questo? Perché non tutti gli scrittori hanno la capacità finanziaria di assumere esseri umani per aiutarli in determinate fasi della loro scrittura (dal confronto iniziale all’editing finale). Perché non tutti i cervelli hanno le stesse capacità e non tutti gli scrittori funzionano allo stesso modo, possono accedere al medesimo livello di istruzione o hanno le medesime competenze nelle lingue in cui scrivono. Perché non tutti gli scrittori hanno accesso alle medesime risorse: “Per esempio, alle minoranze sottorappresentate è meno probabile che vengano offerti contratti editoriali tradizionali”. Il discorso che la Nanowrimo lega al mondo della scrittura creativa vale anche per tutti gli altri mondi e ambiti, artistici e non.
Su posizioni diametralmente opposte rispetto a Ted Chiang c’è anche, fra gli altri, l’artista, saggista e teorico della cultura digitale Lev Manovich. “A mio avviso”, scrive Manovich in un saggio breve dove esplora l’idea di un museo infinito, “le opere generate con l’intelligenza artificiale aprono possibilità molto interessanti per reinventare e ampliare la nostra comprensione della storia dell’arte, della cultura visiva e dei media”.
Questo testo è tratto dalla newsletter Artificiale.
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