È davvero uno strano destino quello dei cosiddetti giganti di Mont’e prama, splendide statue dalle fattezze colossali, tratti orientali e grandi occhi rotondi e immobili, e tuttavia profondamente vivi. Dopo millenni di oblio, cinquant’anni fa riemersero avventurosamente dalle viscere della storia, dissepolti per caso nelle campagne di Cabras, in Sardegna, e subito si annunciarono come una delle scoperte archeologiche più importanti del novecento. A molti sembrò infatti che la storia del Mediterraneo antico dovesse essere almeno in parte riscritta. E tuttavia cinque decenni dopo quelle statue restano ancora segregate fuori dalla nostra storia, a causa di una assurda serie di vicissitudini che le hanno sprofondate in un nuovo oblio.

Era il marzo 1974 quando – secondo la versione più diffusa, ma non l’unica, di questa storia – un contadino, Sisinnio Poddi, arando un campo scoprì i primi frammenti di quello che, una volta ricomposto, si rivelò essere un complesso scultoreo risalente al periodo compreso tra la seconda metà del nono secolo avanti cristo e la prima metà dell’ottavo, datazione che colloca queste statue tra le sculture più antiche del Mediterraneo. Nelle successive campagne di scavo sono stati riportati alla luce migliaia di frammenti che hanno consentito la ricomposizione di una quarantina di sculture, tra guerrieri, arcieri, i cosiddetti pugilatori, modelli di nuraghe e betili, ovvero pietre lavorate in forma troncoconica con funzione sacra. Infine, sono emerse anche una strada e una necropoli con alcune decine di tombe, con corpi inumati in posizione assisa. Non un caso unico in Sardegna, ma è comunque un rituale funerario che ha pochi paragoni.

Non ha invece paragoni l’intero complesso, riconducibile alla fase finale della civiltà nuragica. Molto ancora va capito su chi l’abbia realizzato, con quale funzione e perché proprio qui, sul fianco di un’altura conosciuta con il nome di Mont’e prama, monte delle palme nane: una cinquantina di metri sul livello del mare, poco più di un’ondulazione che spicca sul piatto mescolarsi di lagune, mare e pianure in questa parte del Sinis. Le statue “sono certamente opera dei sardi, ma c’è un evidente influsso di altre culture”, spiega Raimondo Zucca, coautore del recente I giganti di Mont’e prama-Cabras, Oristano (Carlo Delfino editore 2022) e tra gli archeologi che più si sono dedicati allo scavo e allo studio di questo patrimonio.

Nelle opere si nota un’influenza orientale, riconducibile all’area che corrisponde al nord della Siria. D’altra parte, dice l’archeologo, “non c’è da stupirsene. I giganti ci raccontano la storia di un Mediterraneo che si apre. Abbiamo trovato testimonianze sarde in molti luoghi sulla rotta orientale che più di mille anni prima di Cristo attraversava il Mediterraneo. Minet el Beida, porto dell’antichissima città di Ugarit, per esempio ha restituito un frammento di ceramica sarda dello stesso tipo che è stato trovato anche a Cipro e a Creta. I sardi erano lì. E devono avere appreso tante cose viaggiando e costruendo relazioni con altre culture”.

“Ma il sito va studiato ancora”, aggiunge Zucca. E servirebbero anche analisi più complete sui corpi rinvenuti nelle tombe. “Quelle condotte fino a oggi”, spiega, “ci dicono che quei morti sono sardi, per lo più maschi che non hanno rapporti familiari tra loro e che provengono da varie parti dell’isola”. Ma cosa abbia riunito quelle persone in quel posto e perché siano morti tutti in giovane età è ancora un mistero. È comunque probabile che i giganti esprimano una cultura che in un momento di forte e sofferto cambiamento prova a legittimare se stessa ricorrendo al passato.

L’intero complesso potrebbe dunque essere stato eretto per celebrare un evento importante del tempo antico. O, forse, a celebrarsi fu l’élite del periodo. Oppure potrebbe trattarsi di un herôon, un santuario monumentale che in omaggio agli antichi, che li trasformava in eroi. Di recente l’archeologo francese Michel Gras ha affermato che “le statue si spiegano partendo dai sepolcri”, e che quello di Mont’e prama potrebbe essere un sacrario che ricorda uno scontro tra sardi e fenici avvenuto proprio in quel luogo, e che vide la vittoria dei sardi.

Fu però distrutto già in epoca antica, e per ragioni che ancora non sono state del tutto comprese, forse dai cartaginesi nel periodo in cui stavano ampliando il proprio dominio in quella parte di Sardegna, forse dalla vicina città sardofenicia di Tharros. Comunque sia, il sito diventò un deposito di frammenti. E, con il tempo, le statue ormai frantumate e sepolte furono del tutto dimenticate. Questo, almeno, fino a quel giorno del 1974 quando, dopo millenni di silenzio, tornarono per caso alla luce. E tuttavia molto presto l’oblio le inghiottì di nuovo.

Dopo la scoperta, infatti, le statue rimasero precluse alla vista di tutti o quasi per i successivi quarant’anni. “Anche se si dice che furono esposte”, spiega Anthony Muroni, presidente della fondazione Mont’e prama, “la realtà è che fino al 2014 rimasero di fatto in un deposito. E non furono abbastanza indagate”. All’epoca, aggiunge, “forse non si era capita l’importanza del ritrovamento”.

Certo, ci fu chi, come Giovanni Lilliu, uno dei padri nobili dell’archeologia sarda, “aveva immaginato che quella scoperta avrebbe potuto cambiare la storia del periodo tardo nuragico, ma Lilliu non fu seguito, forse perché”, osserva Muroni, “non era più popolare come al tempo della scoperta di Su nuraxi, a Barumini”, che è un altro documento archeologico importante, dichiarato patrimonio dell’umanità dall’Unesco nel 1997.

Sala dei giganti, museo civico Giovanni Marongiu di Cabras (Oristano), 29 ottobre 2024.
(Alessandro Calvi)

“La leggenda nera del nascondimento delle statute in un magazzino sotto il museo di Cagliari è, appunto, una leggenda nera”, osserva Zucca. E poi spiega che, però, “dopo la scoperta furono chiesti al governo nazionale i fondi per il restauro, ma per molto tempo si è rimediato sempre un rifiuto. Poi per un’intuizione dell’allora presidente della Sardegna Renato Soru si è arrivati finalmente al restauro nel centro di Li Punti”, nel sassarese. “Con il restauro e la loro ricomposizione”, spiega il sindaco di Cabras Andrea Abis, “finalmente le statue, che di fatto fino a quel momento non esistevano, hanno cominciato a esistere”. “La storia”, dice ancora Abis, “è fatta di questi salti. Dal 1974 c’è stato un lungo medioevo, un percorso di gestazione che ha portato alla consapevolezza di oggi”.

Sembrò allora che finalmente, dopo quarant’anni dal ritrovamento, quelle statue potessero essere esposte in un museo e quindi essere accessibili in modo regolare. Ma ancora una volta fu poco più che un’illusione. Proprio allora cominciò infatti un’infinita sequenza di beghe burocratiche e di bisticci sulla gestione degli scavi, su chi si dovesse occupare delle statue e perfino su come si dovesse chiamarle che, se non venisse in soccorso la testimonianza delle cronache, si crederebbe a uno scherzo, o a una storia scritta a quattro mani da Kafka e Pirandello.

Si arrivò addirittura ad autorizzare un privato a impiantare una vigna nei pressi degli scavi, dove forse sarebbe stato più utile indagare il sottosuolo. E soprattutto si accese uno scontro su chi avrebbe dovuto ospitare le statue: se Cabras, ovvero il luogo in cui furono erette e ritrovate, o se Cagliari, per ragioni che sembrano rispondere di più a esigenze politiche e turistiche che alla scienza. Il risultato fu che si decise di smembrare il complesso per distribuirlo tra i musei delle due città, situazione che si è insensatamente mantenuta fino a oggi.

Da questo stato di cose si è ritenuto infine di poter uscire dando vita, nel 2021, a una fondazione con soci il ministero della cultura, il comune di Cabras e la regione Sardegna. “L’intento”, spiega il presidente Muroni, “era di creare un luogo in cui le parti che fino a quel momento si erano contrastate trovassero un terreno comune sulla gestione degli scavi, il restauro e la conservazione del complesso di Mont’e prama”. Con l’obiettivo dichiarato della riunificazione delle statue nel museo di Cabras.

Menhir nel parco archeologico di Pranu Muttedu, Goni, nel sud della Sardegna, 26 ottobre 2024.

“Non espropriare al territorio i propri punti di forza è un grande salto culturale”, dice oggi il sindaco Abis. La riunificazione, aggiunge, “ha un forte fondamento scientifico e culturale. I beni culturali non sono strumenti geopolitici da spostare ma devono definire un racconto, e per questo i giganti devono restare insieme, come sono stati pensati fin dall’origine”. E, aggiunge la soprintendente all’archeologia di Cagliari e Oristano, Monica Stochino, “la collocazione definitiva delle statue riuscirà anche a comunicare meglio tutto ciò che gli archeologi stanno capendo del rapporto tra paesaggio e statue”.

Con la nascita della fondazione sono anche cominciati alcuni nuovi progetti di ricerca, come per esempio l’esplorazione del fondale della laguna di Cabras, iniziata nell’ottobre scorso in collaborazione con le università di Sassari, Lecce, Padova e Cagliari, insieme al politecnico di Torino e con la collaborazione della cooperativa dei pescatori di Cabras. “Il lavoro che archeologi e sommozzatori stanno facendo”, spiega Giorgio Murru, responsabile dell’area scientifica della fondazione Mont’e prama, “è di scandagliare alcune zone della laguna, e in particolare quella di fronte allo scavo archeologico, quella del canale scolmatore e quella di Conca Illonis, per cogliere le relazioni tra la storia fisica della laguna, che nel tempo si è modificata, e la terraferma. Vogliamo capire se per esempio ci fossero approdi antichi, e come la laguna veniva utilizzata”.

Qualcosa, insomma, dopo cinquant’anni dalla scoperta delle statue di Mont’e prama forse comincia a muoversi. E tuttavia la loro effettiva entrata nel mondo contemporaneo le ha incredibilmente esposte al rischio molto concreto di essere ridotte immediatamente a strumento di marketing territoriale, senza neanche avere avuto il tempo di affermarsi nell’immaginario collettivo come la fondamentale testimonianza storica che sono, cosa che rischia di sterilizzarne ancora una volta la portata culturale. Lo spiega l’archeologa e giornalista Valentina Porcheddu, secondo cui “non si insiste ancora abbastanza sulla ricerca. Per esempio, non si spiega con chiarezza che la ricomposizione delle statue avvenuta con il restauro è solo un’ipotesi. E intanto i giganti sono considerati come un feticcio identitario e finiscono sulle etichette dei vini o sulle cassette della frutta. Infine, una comunicazione culturale che spesso sconfina nel fantasy tende a scollegarle dal contesto al quale appartengono, in nome di un’archeologia emozionale che è sempre meno associata alla conoscenza, e per questo non produce cultura ma fenomeni effimeri”.

D’altra parte, come Porcheddu ha scritto anche a proposito dei marmi Torlonia e dei bronzi di San Casciano, “l’archeologia del terzo millennio è uno showroom di pezzi unici ed esotici, decontestualizzati e piazzati sul mercato delle mostre e delle fiere internazionali. La storia, in questo revival, è un orpello che svanisce dietro gli interessi politico-economici e le attraenti sagome del sensazionalismo”. Ed è quanto succederebbe per esempio con i viaggi dei quali è stato protagonista uno dei giganti in questi ultimi mesi, e che lo hanno portato in musei come il Man di Madrid, in Spagna, o il Metropolitan di New York, negli Stati Uniti. Su questo tema Porcheddu torna anche nel suo Notizie dal passato (Mimesis editore 2023).

“Ma questi viaggi”, ribatte il presidente della fondazione Mont’e prama, “avvengono all’interno di un contesto di carattere scientifico. Certo, poi presentiamo anche il sistema imprenditoriale del territorio, ma non mi pare che così stiamo mercificando le sculture”. “La fondazione ha fatto molta promozione”, dice ancora Muroni, “e ha fatto viaggiare le statue che sono finite anche sulle pagine di Topolino. Ma i percorsi culturali si creano passo dopo passo. E oggi finalmente a Mont’e prama c’è un sito con un piccolo centro servizi: per quasi cinquant’anni non c’è mai stata neanche l’energia elettrica”. In ogni caso, aggiunge, “lo statuto stabilisce che la fondazione debba lavorare per la crescita culturale e tutte le nostre azioni cercano di soddisfare questa esigenza. Non ci interessa attrarre più turisti, ma visitatori consapevoli che dopo aver visto i giganti cerchino anche altro”.

“La conservazione”, spiega la soprintendente Stochino, “non può coincidere con il marketing ma deve accompagnare una crescita che è prima culturale, quindi sociale e infine anche economica. In questo ordine”. In ogni caso, rassicura, “il complesso di Mont’e prama è noto e studiato, oltre che tutelato”.

Se è così, allora si può sperare che le tante domande sulla storia antichissima di queste statue trovino finalmente risposta. Restano invece ancora inevase quelle sulle ragioni profonde che hanno segnato la loro storia moderna. E sono ragioni che hanno molto a che fare con le scelte fatte in passato da burocrazie culturali e politiche spesso rinchiuse in una dimensione identitaria, addirittura etnocentrica, in cui il centro a volte può corrispondere perfino al perimetro della propria scrivania. Così, se l’interesse degli archeologi per i giganti fu vivo fin dal giorno della scoperta, “ciò che mancò”, spiega Raimondo Zucca, “fu la responsabilità della politica. E tutto questo è molto amaro e ci dice che la Sardegna non ha più nessun peso politico, non conta più niente”. La storia moderna dei giganti, insomma, “è anche la storia della marginalità della Sardegna”.

“Noi sardi”, spiega Abis, “siamo in cerca di una dimensione storica che ci arriva da racconti mitologici, ma di cui manca il racconto, come se a un certo punto si fosse interrotto. E abbiamo la necessità di recuperare la consapevolezza di questa storia”. D’altra parte, come spiega Emanuelle Lilliu, presidente della fondazione nata per gestire il prezioso sito archeologico di Barumini, “tutto il periodo della civiltà nuragica non è mai stato raccontato. Si è cominciato a parlarne con le scoperte archeologiche avvenute proprio a Barumini a metà del novecento, che hanno ridato dignità a un popolo quasi sconosciuto. Ma per lungo tempo è mancata la considerazione anche da parte della politica per questo patrimonio”.

“La Sardegna”, conferma Raimondo Zucca, “ha dovuto aspettare molto perché si riconoscesse il valore universale della cultura nuragica”. “Negli anni cinquanta del secolo scorso”, aggiunge, “Massimo Pallottino affermò che sul piano monumentale la Sardegna dell’età del bronzo supera ogni altra realtà dell’Italia continentale ed europea, inclusa la Grecia micenea. Credo che avesse ragione”.

A testimoniarlo ci sono i santuari nuragici, i pozzi sacri, le cosiddette tombe dei giganti, e naturalmente le migliaia di nuraghi, alcuni davvero straordinari, come il Losa ad Abbasanta, l’Arrubiu a Orroli, il Palmavera ad Alghero o il Santu Antine a Torralba. Ma ci sono anche le tantissime testimonianze prenuragiche, a partire dalle tante tombe conosciute come domus de janas, le cosiddette case delle fate, come Sa domu ‘e s’orcu, isolata nelle campagne di Setzu, nei pressi della giara di Gesturi, o quelle della necropoli di Montessu a Villaperuccio, di Sant’Andrea Priu a Bonorva e della necropoli di Anghelu Ruju ad Alghero.

O, ancora, i tantissimi dolmen e menhir che in alcuni luoghi, come succede nell’area di Pranu mutteddu alle porte di Goni, assumono carattere di assoluta eccezionalità per la quantità, la bellezza e il rapporto con il paesaggio. E c’è soprattutto l’altare preistorico di Monte d’accoddi, un sito monumentale immerso nelle campagne sassaresi, costituito da una sorta di piramide tronca lunga un’ottantina di metri, inclusa la rampa d’accesso, risalente a un periodo antichissimo, forse addirittura al 4000 avanti cristo e che, per quanto manomesso in epoca moderna, rappresenta un caso unico nel bacino del Mediterraneo, tanto che spesso è un po’ incautamente accostato alle ziqqurat mesopotamiche.

Questo immenso patrimonio è collocato in un contesto naturale e paesaggistico per lo più ancora intatto, cosa che crea un’esperienza molto intensa, come altrove è difficile sperimentare. Per tutti, valga l’esempio del menhir di monte Corru tundu, un monumento risalente a circa il 3000 avanti cristo e che ancora si innalza per quasi sei metri, isolato al centro di una piccola radura nelle campagne di Villa Sant’Antonio, più o meno a metà strada fra Oristano e la Barbagia di Seulo.

“La Sardegna”, spiega Stochino, “conserva intatte le tracce di paesaggi naturali arcaici, senza che il senso di quel paesaggio sia stato manomesso. E noi possiamo osservare i reperti in un contesto spesso non troppo diverso da quello in cui vivevano gli antichi abitanti dell’isola”. Per questo, aggiunge, “tuteliamo questo modello di archeologia diffusa, e ci conforta il fatto che tutto questo patrimonio sia profondamente rispettato”.

Eppure, per quanto molti in Sardegna sembrino non accorgersene, l’immenso patrimonio archeologico sardo è rimasto quasi semisconosciuto al di fuori dei confini dell’isola, nonostante sia fondamentale per la comprensione della storia antica dei popoli che vissero sulle sponde del Mediterraneo prima dell’avvento di Roma. Le statue di Mont’e prama, con le loro rocambolesche vicende novecentesche, sono in un certo senso simboli di questo stato di marginalità del patrimonio culturale sardo. E a dimostrarlo c’è il confronto con altre statue che furono scoperte proprio negli stessi anni dei giganti, ma che ebbero fin da subito ben altro destino: i bronzi di Riace.

Altare preistorico di Monte d’Accoddi (Sassari), 31 ottobre 2024.
(Alessandro Calvi)

Tutti gli italiani infatti si riconobbero immediatamente nei due bronzi, come in uno specchio. Il loro volto era quello di ciascuno di noi. La loro cultura la nostra. Sconcertanti invece apparvero lo sguardo dei giganti e quei loro occhi tondi e ipnotici, come anche la loro forza arcaica. E tuttavia anche loro ci rappresentano, ma in un tempo che precede la storia dei bronzi. Una storia dimenticata, che spesso non s’insegna neanche a scuola, e più antica di quella che per tradizione consideriamo come il frutto delle nostre radici, facendo coincidere con la nascita di Cristo l’inizio della nostra cultura, se non addirittura della nostra stessa civiltà, tanto da consegnare all’oblio tutto ciò che negli stessi luoghi c’era stato prima.

Da questo punto di vista, quello sulle statue di Mont’e prama diventa allora anche un discorso sul potere, e su come il potere utilizza i simboli per autolegittimarsi. Basti pensare a come il racconto di una cultura che precede quella che trova in Roma e nella cristianità il proprio fondamento, smaschera facilmente la narrazione retorica sulle nostre radici cristiane, alla quale anche in Italia alcuni politici a volte ricorrono magari solo per chiudere una frontiera o limitare un diritto. Per non dire, poi, dell’investimento ideologico sulla centralità di Roma fatto durante il fascismo, al quale molte pose culturali sembrano ancora oggi inconsapevolmente debitrici. I giganti insomma risultano sconcertanti non tanto per i loro occhi, ma soprattutto perché la loro stessa esistenza sottopone a critica molte certezze fortemente consolidate, raccontandoci che la radice della nostra cultura non si sviluppò solo sull’asse tra Atene e Roma, ma in antico percorse molte delle coste dell’oriente mediterraneo, risultando più articolata e profonda di quanto immaginiamo, nonché debitrice di molte culture diverse.

Ecco che allora non stupisce più di tanto se i giganti, come molte testimonianze della storia preromana, siano stati a lungo relegati al di fuori dalla nostra stessa storia, forse per insipienza, forse per un qualche sussulto ideologico. E per questo non può sorprendere neanche il fatto che, mentre i bronzi di Riace erano esposti al Quirinale e diventavano delle star, i giganti siano rimasti per più di quarant’anni segregati dal mondo, e semisconosciuti all’immaginario collettivo, nonostante tutte le storie che in questi anni avrebbero potuto raccontare su noi stessi.

“Non sappiamo ancora tante cose”, ragiona Zucca, “e dobbiamo continuare a fare ricerca, indagando questo benedetto Mediterraneo anche al di là delle sue sponde, risalendo verso il deserto, lungo i grandi fiumi come il Nilo, e fino a quelli mesopotamici. E dobbiamo farlo senza trasformare la conoscenza in ideologia identitaria”.

Non dobbiamo insomma avere paura della nostra storia più antica, che si dipanò per secoli in un mondo che Zucca definisce “policentrico” e “fatto di scontri, sì, ma anche di incontri”, e di scambi di conoscenza e di cultura. Il che, peraltro, visto quel che accade di questi tempi sulle sponde di questo nostro caro e vecchio mare, è decisamente anche un bellissimo augurio per tutti.

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