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I rischi della deflazione cinese

Haian, Cina, 17 gennaio 2024. (Zhou Qiang, VCG/Getty Images)

La Cina sprofonda nella deflazione man mano che la domanda di beni e servizi s’indebolisce, scrive il Wall Street Journal. Con molte persone preoccupate dalle prospettive economiche e quindi meno inclini a spendere, a dicembre nel paese asiatico i prezzi al consumo sono scesi per il terzo mese consecutivo, mentre quelli applicati dalle aziende manifatturiere sono arretrati per il quindicesimo mese di fila. In tutto il 2023 le esportazioni sono diminuite del 4,6 per cento e, per la prima volta dal 2019, sono calati anche i carichi marittimi diretti verso gli Stati Uniti, un chiaro segnale che la domanda di prodotti cinesi arretra su alcuni grandi mercati. Gli economisti della banca statunitense Morgan Stanley parlano della “più lunga e profonda” deflazione in Cina dalla crisi finanziaria asiatica del 1998, quando i paesi dell’area entrarono in recessione e impiegarono vari anni per riprendersi.

La deflazione, cioè la diminuzione generalizzata dei prezzi, è un fenomeno che deriva da un contesto di crescita negativa o in forte rallentamento, in cui la domanda di beni e servizi si contrae, spingendo le aziende ad applicare dei ribassi per stimolare i consumatori. Insomma, è il sintomo di un’economia che tende pericolosamente al collasso. Spesso la conseguenza principale è un calo del fatturato, che costringe le imprese a tagliare i costi per le materie prime e i servizi, a ridurre il personale e a rinunciare a nuovi investimenti. Il più delle volte s’innesca un circolo vizioso che porta a un’ulteriore contrazione della domanda.

Il governo cinese è atterrito da questa prospettiva e sta moltiplicando gli sforzi per contrastare la riduzione dei prezzi e rilanciare l’economia, evitando una spirale simile a quella in cui cadde il Giappone all’inizio degli anni novanta. Pechino contava su un’inversione di tendenza liberando il paese dalle severe restrizioni contro il covid-19, ma non ci sono stati gli effetti sperati: nel 2023 il pil nazionale è cresciuto del 5,2 per cento, il dato più basso dal 1990 (a parte il periodo della pandemia).

I dati sono rimasti deludenti, perché il sistema economico cinese ha bisogno di riforme radicali che risolvano i problemi strutturali: il modello basato sul basso costo del lavoro, sull’adozione delle tecnologie occidentali e sulle esportazioni non funziona più come un tempo. L’esplosione di un’enorme bolla nel settore immobiliare, un comparto vitale per l’economia nazionale, è solo una delle conseguenze di un eccesso di investimenti (e di debiti) pubblici in opere nel migliore dei casi improduttive e superflue, fatte per tenere in piedi il pil, l’occupazione e il settore delle banche di stato. Il paese, inoltre, continua a registrare un preoccupante calo demografico: dopo essere diminuita nel 2022 per la prima volta in sessant’anni, e questa tendenza è continuata nel 2023.

Il problema è capire se Pechino è pronta a riformare il sistema. Molti economisti sono convinti che una soluzione per rilanciare l’economia potrebbe essere stimolare i consumi interni, finora troppo bassi. Il modo migliore sarebbe realizzare un vero ed efficiente sistema di welfare, finora praticamente assente nel paese. I cinesi, infatti, tendono a risparmiare il più possibile, perché sono costretti a pagare di tasca propria molti servizi essenziali, come la scuola per i figli, l’assistenza sanitaria e i contributi per la pensione.

Il governo non ha mai mostrato entusiasmo per una soluzione simile, neanche di fronte alla prospettiva che nel 2024 la situazione possa peggiorare, in un mondo frammentato dalle tensioni politiche, in cui molti paesi cercano soluzioni alternative alla Cina per le loro produzioni manifatturiere. Come ha scritto George Magnus, economista dell’Oxford university’s China centre, sul quotidiano britannico The Guardian, “chi si aspetta stimoli macroeconomici e riforme resterà ancora una volta deluso. Ci saranno qualche taglio alle tasse e più aiuti per il settore immobiliare, ma con il solo obiettivo di stabilizzare l’economia. Le politiche monetarie e di bilancio continueranno a essere prudenti. Niente lascia pensare che Pechino adotti misure serie per incentivare i consumi e i redditi delle famiglie. A quanto pare, invece, l’idea è rafforzare la propaganda economica e di orientamento dell’opinione pubblica, oltre a promuovere una narrazione positiva della Cina”.

Un problema mondiale

La deflazione non è un problema che mette a rischio esclusivamente l’economia cinese, né interessa solo le aziende occidentali che hanno investito nel paese asiatico o in qualche modo dipendono dalla sua economia. Ci potrebbero essere conseguenze negative per il resto del mondo perché, come scrive ancora Magnus, pone le basi per una guerra commerciale di ampia portata. “Anni di politica industriale basata sulla proliferazione del settore manifatturiero, sostenuta dagli aiuti di stato e dall’accesso alla tecnologia straniera, hanno prodotto un’enorme sovrapproduzione in settori come la siderurgia e le rinnovabili. Un effetto evidente in questi giorni è l’ondata di auto elettriche e di batterie cinesi che si sta riversando sul resto del mondo. La Cina insisterà su questa strada, incentivando ancora di più la manifattura e le esportazioni”. Non è affatto certo però che l’Europa e gli Stati Uniti accetteranno di importare più prodotti cinesi, rischiando un’ulteriore deindustrializzazione.

“Le banche di stato cinesi stanno incanalando capitali verso il settore industriale”, scrive l’Economist. “Alle aziende esportatrici è stato ordinato di aumentare la produzione. Durante i primi undici mesi del 2023 gli investimenti nella metallurgia, nel settore automobilistico e in quello dell’elettronica sono aumentati rispettivamente del 10, del 18 e del 34 per cento rispetto allo stesso periodo del 2022”. Tutto questo succede in un paese noto per i generosi sussidi concessi alle aziende esportatrici e in un contesto globale in cui l’occidente ed economie emergenti come l’India non sono disposti a tollerare politiche simili.

Come ha spiegato di recente Michael Pettis, economista statunitense che insegna al Carnegie endowment for international peace, “se nei prossimi dieci anni la Cina dovesse crescere in media del 5 per cento all’anno mantenendo l’attuale dipendenza dagli investimenti, la sua quota di pil globale dovrebbe arrivare al 21 per cento e quella degli investimenti al 37 per cento. Ma se ipotizziamo che investire un dollaro ha senso se produce almeno tre dollari di consumi, dovremmo concludere che il resto del mondo dovrebbe ridurre la propria quota di investimenti e consumare più prodotti provenienti dalla Cina. Questo scenario è del tutto improbabile, visto che gli Stati Uniti, l’Unione europea, l’India e altri grandi paesi stanno cercando di espandere gli investimenti nelle loro economie”.

A quel punto un aggravamento delle tensioni commerciali sarebbe inevitabile. “Considerando le numerose sfide che l’attendono”, conclude l’Economist, “a Pechino non converrebbe alienarsi le simpatie dei principali partner commerciali, scatenando una guerra intorno ai suoi sussidi. Purtroppo l’alternativa – un altro anno senza niente che compensi il crollo immobiliare e il calo della domanda – sembra molto meno attraente”.

Questo testo è tratto dalla newsletter Economica.

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