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Lo yen fa tremare il Giappone

L’aeroporto Haneda di Tokyo, Giappone, 26 aprile 2024. (Noriko Hayashi, Bloomberg/Getty Images)

Il 29 aprile la valuta giapponese ha registrato un forte rimbalzo dopo aver toccato il punto più basso dal 1990 nei confronti di quella statunitense. Cento yen erano arrivati a costare 63 centesimi di dollaro, prima di risalire a 65 in poco meno di un’ora (il prezzo del dollaro in Giappone quindi è passato da 160 a 154 yen). Una ripresa molto rapida che, secondo gli esperti, può essere stata favorita solo dall’intervento di Tokyo.

Il Financial Times scrive che l’operazione potrebbe aver comportato l’acquisto di yen per un valore compreso tra i venti e i 35 miliardi di dollari. Tuttavia Brad Setser, economista statunitense del Council on foreign relations, ha spiegato che in questa operazione Tokyo ci ha guadagnato, perché ha usato dollari comprati quando costavano molto meno. “A partire del 2000 il governo giapponese”, ha scritto Setser, “ha comprato dollari ed euro per 1.200 miliardi di dollari, una riserva con cui, in teoria, potrebbe incassare uno dei più grandi profitti sul mercato dei cambi nella storia della finanza”.

Il calo del valore dello yen del 29 aprile può essere dovuto alla scarsa richiesta: quel giorno in Giappone si celebrava lo Shōwa no hi, una festività (la prima della cosiddetta Golden week, settimana d’oro) con cui si ricorda la nascita dell’imperatore Hirohito, in carica dal 1926 al 1989. Ma in realtà la valuta è sotto pressione da tempo: dall’inizio del 2024 lo yen ha perso circa l’11 per cento nei confronti del dollaro (è la moneta che ha fatto peggio tra quelle delle grandi economie), mentre dal 2021 ha perso un terzo del valore. La svalutazione dello yen, da sempre considerato un bene rifugio come il dollaro e il franco svizzero, è legata ai problemi di fondo del sistema economico e finanziario giapponese.

Lo scossone è arrivato dopo che il 26 aprile la banca centrale aveva lasciato invariato il costo del denaro. A marzo l’istituto aveva deciso una svolta epocale abbandonando la politica dei tassi negativi, attuata per ben 17 anni nella speranza di mettere fine alla prolungata stagnazione dell’economia nazionale. Oggi, tuttavia, il costo del denaro oscilla ancora tra lo 0 e lo 0,1 per cento.

Questa soglia decisamente bassa ha attirato gli speculatori, in particolare quelli dediti al carry trade, un’operazione che consiste nel prendere in prestito capitali in una valuta dai tassi bassi per investire in strumenti finanziari in altre valute con un rendimento superiore. Il profitto assicurato dal carry trade è pari alla differenza tra il rendimento dell’investimento e il costo del finanziamento: molti investitori, infatti, prendono fondi in prestito in Giappone e li investono soprattutto negli Stati Uniti, dove i tassi d’interesse sono superiori al 5 per cento e difficilmente scenderanno nei prossimi mesi.

Bloomberg scrive che il 2 maggio, subito dopo che la Federal reserve (Fed, la banca centrale degli Stati Uniti) ha ribadito che negli Stati Uniti i tassi sono destinati a rimanere alti, il Giappone ha predisposto un secondo intervento a sostegno dello yen, spendendo altri 28 miliardi di dollari. A questo, osserva la Reuters, bisogna aggiungere una sorta di “loop che si autoavvera” tipico dei mercati finanziari: “In sostanza, lo yen si svaluta perché la gente lo vende, ma la gente vende lo yen perché sa che si sta svalutando”.

La tendenza al ribasso, inoltre, fa sì che gli esportatori giapponesi preferiscano non cambiare in yen i guadagni ottenuti in altri paesi, e allo stesso tempo spinge le istituzioni finanziarie giapponesi a investire all’estero. I giapponesi sono i maggiori detentori stranieri di titoli di stato degli Stati Uniti e hanno investito dappertutto, dal debito pubblico brasiliano alle centrali elettriche europee. Negli ultimi dieci anni hanno speso 54.100 miliardi di yen (più di quattrocento miliardi di dollari) in azioni, che corrispondono a un valore compreso tra l’1 e il 2 per cento dei mercati azionari di Stati Uniti, Paesi Bassi, Singapore e Regno Unito.

Tutto questo, ovviamente, ha effetti diretti sull’economia nazionale. La valuta debole ha fatto crescere i profitti delle aziende esportatrici e ha dato una spinta senza precedenti al turismo: a febbraio il paese è stato visitato dalla quota record di 2,8 milioni di persone, creando tra l’altro non pochi problemi (ne ha scritto Junko Terao, editor di Asia di Internazionale e curatrice della newsletter In Asia). Inoltre, il calo dello yen ha eroso la competitività delle aziende manifatturiere cinesi e sudcoreane.

Ma ci sono anche gli aspetti negativi: dal momento che il Giappone importa molti più beni di quelli che esporta, lo yen debole significa prezzi più alti e quindi un costo della vita più elevato e cittadini che si sentono più poveri. Basti pensare che il prezzo delle merci importate è aumentato del 64 per cento dal 2020 e che il paese asiatico compra all’estero il 90 per cento dell’energia e il 60 per cento dei prodotti alimentari. In questo momento, inoltre, il Giappone fa più fatica ad attirare lavoratori stranieri, di cui ormai ha un gran bisogno per sostenere l’economia. Non a caso il 26 aprile la banca centrale ha ridotto la stima di crescita del pil per il 2025, portandola dall’1 allo 0,8 per cento.

Gli interventi di Tokyo a sostegno dello yen, tuttavia, potrebbero non essere una soluzione definitiva alla svalutazione, né tantomeno ai problemi dell’economia, come la cronica debolezza dei consumi interni, gli effetti dell’invecchiamento della popolazione e l’enorme debito pubblico, che con il 263 per cento rispetto al pil è il più alto del mondo. Tutto dipenderà dalle decisioni del governo e della banca centrale, che sono chiamati a fare scelte molto difficili, tenendo conto che, come spiega l’Economist, “uno yen debole è impopolare tra i consumatori giapponesi e quindi lo è anche tra i politici”.

La banca centrale, in particolare, ha poco spazio di manovra: con un debito così alto all’istituto fanno comodo i tassi vicini allo zero. Un aumento deciso del costo del denaro potrebbe attirare più capitali in Giappone e quindi rafforzare lo yen, ma allo stesso tempo farebbe salire nettamente il costo del debito. Il governatore Kazuo Ueda deve valutare anche altri possibili effetti: secondo alcune stime, per esempio, un rialzo del costo del denaro pari a un punto percentuale potrebbe svalutare le obbligazioni in yen di circa novemila miliardi. Le perdite potenziali corrisponderebbero al 10 per cento del capitale per le grandi banche, ma al 30 per cento per quelle più piccole.

Questo testo è tratto dalla newsletter Economica.

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