Il 29 maggio l’australiana Bhp, il più grande gruppo minerario del mondo, ha annunciato che non farà una nuova offerta per acquisire il controllo della rivale britannica Anglo American. Alle 17 orario di Londra scadeva il termine fissato per la chiusura delle trattative. L’annuncio mette fine, per almeno sei mesi, al tentativo di realizzare una delle operazioni del settore minerario più costose di sempre. Se l’offerta da 49 miliardi della Bhp fosse andata in porto, avrebbe dato vita al maggiore produttore mondiale di rame: nel 2023 la Bhp ha prodotto 1,2 milioni di tonnellate del metallo e la Anglo American, grazie alle sue miniere in Sudamerica, 826mila; insieme le due aziende avrebbero coperto il 10 per cento dell’offerta mineraria globale.

Tutto era cominciato il 24 aprile, quando la Bhp aveva presentato la prima offerta, subito respinta dalla Anglo American, che l’aveva giudicata “altamente insufficiente” e “opportunistica”, oltre che dannosa per i propri azionisti. Erano arrivate altre due proposte: anche queste erano state respinte, ma la Anglo American aveva accettato di aprire delle trattative da chiudere entro il 29 maggio 2024, lo stesso giorno in cui il Sudafrica è andato al voto per rinnovare la camera bassa del parlamento nazionale e le assemblee legislative delle nove province (chi vuole approfondire il tema delle elezioni sudafricane può leggere quest’articolo di Francesca Sibani, editor di Africa).

La coincidenza tra i due eventi non era casuale: il Sudafrica aveva un ruolo centrale nelle trattative, perché in tutte le proposte avanzate la Bhp chiedeva che la Anglo American si separasse dalle sue miniere nel paese – in particolare, la Anglo American Platinum e la Kumba Iron Ore – sostanzialmente per potersi concentrare sul rame. Ma la Anglo American, nata nel 1999 dalla fusione tra la Anglo American Corporation of South Africa e le attività estere di quest’ultima raggruppate nella lussemburghese Minorco, ha profondi legami con il Sudafrica e temeva che il governo di Pretoria (il secondo azionista del gruppo attraverso un fondo pensione pubblico) imponesse costi elevati in cambio dell’approvazione dell’operazione, soprattutto in forma di garanzie per le migliaia di lavoratori sudafricani. Costi che non intende far ricadere per intero sulle due aziende scorporate.

Il tentativo della Bhp, per quanto non riuscito, è un’ulteriore dimostrazione dell’inarrestabile ascesa del rame, metallo indispensabile alla transizione energetica e all’alta tecnologia e considerato ormai da molti governi una materia prima strategica. Il rame è il secondo miglior conduttore di elettricità dopo l’argento, rispetto al quale però è molto meno costoso. Come scrive il Wall Street Journal, in tutto il mondo è in corso una grande corsa al metallo che vede coinvolte in prima fila le superpotenze Stati Uniti e Cina. “Dopo la crisi che ha colpito la canadese First Quantum Minerals, uno dei principali produttori di rame, l’amministrazione statunitense guidata da Joe Biden si è inserita nel tentativo di acquisire il controllo delle sue miniere di rame in Zambia, investendo tre miliardi di dollari. Le aziende statunitensi devono affrontare la concorrenza degli Emirati Arabi Uniti, del Giappone e dell’Arabia Saudita.

L’obiettivo della Casa Bianca è tenere lontana la Cina e impedirle di rafforzare la sua posizione nel mercato dei metalli e dei minerali. Gli Stati Uniti, spiega il quotidiano finanziario, non hanno un ministero delle risorse minerarie né un fondo sovrano, né possono, come fa la Cina, spingere qualche azienda di stato a investire pesantemente nel settore. Devono lavorare con le aziende private nazionali e straniere o con i fondi sovrani di paesi alleati.

Nel 2023, per esempio, gli Stati Uniti e l’Arabia Saudita hanno discusso un accordo per investire nella Repubblica Democratica del Congo. In Zambia Washington si è alleata con gli Emirati Arabi Uniti per investire nella Mopani Copper Mines, mentre l’International development finance, un’agenzia federale che agevola gli investimenti all’estero, sta lavorando a un finanziamento per un giacimento di rame in Pakistan che, quando entrerà in funzione nel 2028, diventerà uno dei più importanti del mondo. Intanto la Cina, conclude il Wall Street Journal, nel 2023 ha speso più di 19 miliardi di dollari in metalli e miniere, il 158 per cento in più rispetto al 2022.

Ormai il rame è il metallo più ricercato sul mercato delle materie prime. A metà maggio alla London metal exchange il suo prezzo ha superato quota undicimila dollari alla tonnellata, battendo il record precedente di 10.850 dollari, registrato nel 2022. A New York le quotazioni sono arrivate anche più in alto. E con le aziende minerarie che annunciano un calo della produzione, gli esperti prevedono che quest’anno si possa arrivare a dodicimila dollari, se non tredicimila, scrive Bloomberg. Tuttavia, fa notare Javier Blas, esperto di materie prime di Bloomberg, come in tutti i movimenti speculatori che si scatenano intorno a una merce così preziosa la storia contiene un fondo di verità ma anche tanta aria fritta che mal si concilia con la realtà.

Innanzitutto perché la domanda si sta indebolendo, soprattutto in Cina, dove gli acquirenti cominciano a ricevere sconti che non si vedevano da anni. Ma è il futuro che deve far riflette più di tutto: le previsioni più rosee sostengono che entro dieci anni la domanda di rame raddoppierà, passando dalle attuali 25 tonnellate all’anno a cinquanta. L’offerta potrebbe non essere in grado di soddisfare subito una domanda così forte, mandando in “corto circuito” la transizione energetica. Ma queste previsioni sono state fatte presupponendo che molti paesi tengano fede al loro impegno di azzerare le emissioni entro il 2050.

“Il problema”, sottolinea Blas, “è che il mondo non si sta muovendo compatto verso l’obiettivo”. A questo va aggiunto che in genere i prezzi alti spingono le aziende a investire su soluzioni alternative meno costose (una potrebbe essere l’alluminio), su tecnologie che prevedano un impiego minore di rame e su un riciclo più efficiente dei metalli usati. Infine, non è remota la possibilità che le crisi politiche e commerciali in giro per il mondo rallentino la crescita economica e quindi anche la domanda di rame, provocando l’esplosione di una bolla finanziaria.

Questo testo è tratto dalla newsletter Economica

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