Di recente tra le varie classifiche stilate dal Fondo monetario internazionale quella dei paesi con il più alto pil pro capite a parità di potere d’acquisto nel 2024 si è fatta notare per una nuova entrata: al decimo posto ha fatto capolino il piccolo stato sudamericano della Guyana, un paese petrolifero in forte ascesa. È in compagnia di colossi energetici come gli Stati Uniti, la Norvegia e il Qatar e di paradisi fiscali del calibro del Lussemburgo (primo in classifica con 143.743 dollari per abitante), dell’Irlanda, del Liechtenstein, del principato di Monaco e delle isole Cayman.
Un risultato eccezionale per un paese di ottocentomila abitanti che fino a poco tempo fa era uno dei più poveri del Sudamerica. Il merito è dei suoi ricchissimi giacimenti di petrolio: nel 2015 un consorzio di aziende guidato dalle statunitensi ExxonMobil e Hess e dalla cinese China National Offshore Oil Corporation (Cnooc) cominciò a fare scoperte significative al largo delle coste. Negli anni successivi sono stati individuati più di trenta giacimenti, che secondo le stime dovrebbero contenere almeno undici miliardi di barili di greggio, quanto le riserve dell’Ecuador, dell’Argentina e della Colombia messe insieme. Finora le aziende petrolifere hanno investito in Guyana 55 miliardi di dollari, ma in futuro lo sforzo dovrebbe moltiplicarsi.
Il petrolio ha trasformato profondamente il paese, che nel 2023 ha incassato grazie al greggio 1,6 miliardi di dollari. Negli ultimi cinque anni, scrive Bloomberg, l’economia nazionale è quadruplicata, diventando per due anni consecutivi quella con il più alto tasso di crescita al mondo (nel 2022 è stato addirittura del 62 per cento). “I giacimenti sono così ricchi in rapporto alla popolazione che, secondo alcune previsioni, la Guyana supererà il Kuwait come principale produttore di greggio pro capite”. Tanta ricchezza fa gola anche ai vicini: non è un caso che di recente il Venezuela abbia ammassato truppe al confine, vantando diritti sulla regione dell’Essequibo.
Intorno alla Guyana si concentrano gli interessi dei colossi globali del petrolio. Quest’anno si è scatenato un duro scontro tra le statunitensi Exxon e Chevron. Tutto è cominciato il 26 febbraio 2024, quando la Chevron ha dichiarato che l’accordo da 53 miliardi di dollari con cui nell’ottobre del 2023 aveva annunciato l’acquisizione della Hess (una delle protagoniste della scoperta dei giacimenti della Guyana) sarebbe potuto saltare. Il motivo era l’opposizione di due concorrenti, la Exxon e la Cnooc, che sostengono di vantare un diritto di veto sull’operazione, in particolare sulla parte che riguarda i giacimenti della Guyana, in cui attualmente la Hess ha una quota del 30 per cento, la Exxon del 45 per cento e la Cnooc del 25 per cento. La Chevron sta trattando per arrivare a un accordo che soddisfi tutte le parti. Non è chiaro se la Exxon o la Cnooc abbiano intenzione di fare una controfferta per comprare la Hess.
A questo punto resta da capire se dalla lotta per il greggio uscirà vincitrice anche la Guyana. L’ex colonia britannica ha sì rafforzato la sua economia come mai in passato, ma non è detto che tutto questo benessere finirà per migliorare le condizioni della popolazione. Innanzitutto, il paese sudamericano rischia di incorrere nella maledizione delle risorse, cioè di diventare eccessivamente dipendente dalle sue materie prime senza sviluppare altri settori, anzi trascurando quelli già esistenti. Una situazione già vista in molti altri paesi petroliferi. In Guyana il settore energetico crea nuovi posti di lavoro (la Exxon ha seimila dipendenti nel paese), ma gran parte della popolazione soffre a causa dell’aumento del costo della vita, che non è compensato dalla crescita dei salari: nel 2016, quando l’economia nazionale era la peggiore del Sudamerica, l’inflazione era allo 0,8 per cento, mentre nel 2023 era balzata al 6,6 per cento.
Una pessima notizia per un paese dove, secondo la Banca mondiale, il 48 per cento della popolazione ha un reddito giornaliero di meno di 5,5 dollari, e solo una piccola élite vede aumentare il proprio benessere. Negli ultimi mesi la situazione ha provocato lunghi scioperi dei sindacati degli insegnanti e dei dipendenti pubblici, terrorizzati dall’erosione del potere d’acquisto. “Nella speranza di sfuggire alla maledizione delle risorse”, racconta Bloomberg, “il governo ha creato un fondo per finanziare la costruzione di ponti, strade e scuole e dare sussidi ai cittadini più svantaggiati”. Finora sono stati investiti quasi 1,8 miliardi di euro. Ma i tentativi di distribuire la ricchezza prodotta dal petrolio “stanno aggravando anche i contrasti etnici e politici”.
Il governo, racconta il settimanale tedesco Die Zeit, è accusato inoltre di aver firmato un accordo sulle entrate del petrolio che fa troppe concessioni alla Exxon. “Il Fondo monetario internazionale l’ha definito ‘sleale’. Il colosso statunitense, per esempio, non è obbligato a pagare le tasse nel paese, ma solo un’imposta del 2 per cento sul permesso di estrazione. La Exxon, inoltre, può trattenere fino al 75 per cento delle entrate annuali per coprire i costi della sua attività”. Alcuni gruppi ambientalisti sono allarmati dal fatto che l’azienda statunitense non sarebbe costretta ad assumersi da sola gli effetti di un eventuale disastro ambientale: un incidente simile a quello accaduto nel 2010 nel golfo del Messico, che costò settanta miliardi di dollari alla Bp, potrebbe pesare sui bilanci del gruppo statunitense al massimo per due miliardi di dollari. Un gruppo di cittadini ha denunciato il governo e un anno fa il tribunale gli ha dato ragione, anche se ora si attende l’esito dell’appello.
Insomma, l’ultimo grande stato petrolifero, come l’ha definito il Financial Times, sta nascendo tra i timori e le proteste di ambientalisti, sindacati, militanti per i diritti civili in un mondo che si è impegnato a lasciarsi alle spalle le fonti fossili. La storia dimostra che l’arrivo dei petrodollari spesso ha prodotto inflazione, ha distrutto l’industria locale e ha generato divisioni sociali e corruzione. Basti pensare a quello che è successo in Guinea Equatoriale, dove il petrolio viene estratto da quasi trent’anni, ma la maggior parte della popolazione è ancora poverissima, o in Venezuela, un modello di cattiva gestione economica, corruzione e autoritarismo. Come ha dichiarato al Financial Times l’esperto di America Latina Schreiner Parker, della società di ricerche Rystad Energy, la Guyana è “il banco di prova per la maledizione delle risorse nel ventunesimo secolo”.
Questo testo è tratto dalla newsletter Economica.
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