Donald Trump attacca ormai quotidianamente l’Unione europea, che secondo lui è nata per “fregare gli Stati Uniti”. Tra i suoi bersagli preferiti c’è l’Irlanda, accusata di essersi “impossessata delle case farmaceutiche statunitensi e di sottrarre le entrate fiscali che queste aziende avrebbero dovuto pagare a Washington”.

L’aspirante autocrate si riferisce al fatto che i bassi livelli d’imposizione fiscale dell’Irlanda hanno attirato nel paese varie multinazionali statunitensi, tra cui i colossi farmaceutici Pfizer, Boston Scientific e Eli Lilly. Oggi queste aziende guidano le esportazioni irlandesi negli Stati Uniti (arrivate nel 2024 a settanta miliardi di dollari, il 34 per cento in più rispetto al 2023), pagando tasse a Dublino per farmaci consumati oltreoceano. L’anno scorso, invece, le importazioni dagli Stati Uniti valevano 22,5 miliardi (il 2 per cento in meno rispetto al 2023).

Solo la Cina, il Messico e il Vietnam vantano surplus commerciali più ampi con Washington. Un risultato straordinario per un paese che ha cinque milioni e mezzo di abitanti. Nel 2024 le esportazioni irlandesi di farmaci negli Stati Uniti sono cresciute del 42 per cento, arrivando a cinquanta miliardi di dollari, lo stesso valore delle automobili che in un anno arrivano nel paese dal Messico.

Il tema è stato al centro dell’incontro avvenuto alla Casa Bianca il 12 marzo fra Trump e il primo ministro irlandese Micheál Martin, arrivato negli Stati Uniti per una visita in occasione del St. Patrick’s day.

Nello studio ovale il presidente statunitense ha precisato che non vuole “punire troppo l’Irlanda” (anche perché gli statunitensi di origine irlandese sono una fetta importante del suo elettorato), ma è deciso a riportare indietro la ricchezza “sottratta”, aggiungendo che il suo vero obiettivo è l’Unione europea, che “va a caccia delle nostre aziende” e non compra i prodotti statunitensi.

Trump ha poi accennato al caso della Apple, costretta da una sentenza europea a restituire all’Irlanda tredici miliardi di dollari di tasse non pagate grazie alle agevolazioni ricevute da Dublino. Martin gli ha fatto notare che l’Irlanda si è battuta contro quella decisione e ha aggiunto che aziende irlandesi come la Ryanair e la AerCap comprano dalla statunitense Boeing più aerei di chiunque altro.

Alla fine dell’incontro Trump ha detto di voler collaborare con Dublino per risolvere il problema del deficit commerciale, ma nel frattempo ha confermato che risponderà duramente ai dazi annunciati dall’Unione europea il 12 marzo. Per il momento il presidente statunitense si è limitato a minacciare tariffe sui prodotti farmaceutici in arrivo dall’Irlanda.

Questa via, che è ormai quella adottata di default da Trump nei rapporti con qualunque paese, non è certo la soluzione ottimale, perché il nodo della questione riguarda la normativa fiscale statunitense e le leggi sulla proprietà intellettuale, che permettono alle multinazionali di trasferire i loro brevetti in paesi dove si pagano meno tasse. Alcuni esperti stimano che con un dazio del 25 per cento la produzione farmaceutica irlandese potrebbe contrarsi del 12 per cento. Ma resta il fatto che oggi le grandi aziende farmaceutiche statunitensi non pagano praticamente nessuna imposta negli Stati Uniti anche se nel paese ricavano gran parte delle loro entrate.

L’aspirante autocrate e gli umori della borsa
Donald Trump continua imperterrito nel suo progetto di assicurare una nuova età dell’oro agli statunitensi. Ma si scontra con la realtà e con lo scetticismo dei mercati finanziari.

Come ho avuto modo di scrivere, negli Stati Uniti il settore farmaceutico registra fatturati enormi grazie al fatto che il paese ha i prezzi sono alti: secondo alcune stime superano di circa tre volte quelli praticati nel resto del mondo. Eppure tutto questo non si traduce in utili che generano tasse per il fisco statunitense.

Le aziende sono in perdita: nel 2023 la Pfizer ha chiuso il suo bilancio negli Stati Uniti in rosso per 4,4 miliardi di dollari, la AbbVie per 3,5 miliardi, la Merck per 15,6 miliardi, la Johnson & Johnson per due miliardi. Tra le grandi case farmaceutiche statunitensi solo la Eli Lilly ha registrato utili, per quanto relativamente esigui: novecento milioni di dollari.

Come tutte le multinazionali, anche queste aziende sfruttano le norme (e le lacune) dei regimi fiscali per far comparire i loro utili in paesi dove le tasse sono nettamente più basse o addirittura nulle. Al contrario, un’azienda come la danese Novo Nordisk, diventata ricchissima grazie al farmaco per dimagrire Ozempic, paga le tasse nel suo paese d’origine; le aziende farmaceutiche svizzere le pagano in Svizzera, quelle francesi in Francia. Le statunitensi, invece, possono scegliere di pagarle in Irlanda, in Belgio, alle Bermuda, a Malta o a Singapore.

Trump aveva cercato di risolvere il problema durante il suo primo mandato con la riforma fiscale chiamata Tax cuts and jobs act (Tcja), ma gli effetti sono stati disastrosi. Nel 2017 la Casa Bianca aveva ridotto al 21 per cento l’imposta sugli utili delle grandi aziende e allo stesso tempo aveva deciso un’imposta minima globale (la cosiddetta Global intangible low-taxed income, Gilti) del 10,5 per cento sugli utili realizzati all’estero. Tuttavia le imposte più basse assicurate da altri stati e una serie di agevolazioni sui brevetti avevano in realtà provocato l’effetto opposto: ancora più aziende avevano deciso di spostarsi in paesi come l’Irlanda.

È nata così quella che il premio Nobel Paul Krugman ha definito l’economia del leprecauno (una sorta di gnomo tipico del folclore e della mitologia irlandesi), un’economia dai dati completamente distorti dalle norme fiscali: negli ultimi anni Dublino ha registrato un’impennata senza precedenti del pil e delle entrate fiscali e surplus di bilancio record, a cui hanno contribuito per l’80 per cento le multinazionali. Distorsioni simili sono presenti anche nei dati statunitensi: per esempio, l’Irlanda è il maggior partner commerciale dell’Indiana, lo stato in cui ha sede la Eli Lilly.

Purtroppo, come scrive Brad Setser, economista del Council on foreign relations, “non pare che Trump capisca il problema e voglia correggere la sua riforma fiscale. L’attenzione è dedicata interamente ai dazi, la sua soluzione per tutti i problemi, inclusi quelli di cui è responsabile anche lui”. Il suo predecessore, il democratico Joe Biden, voleva raddoppiare la Gilti facendola passare dal 10,5 al 21 per cento. Ma, come scrive Bloomberg, è difficile che una proposta simile sia approvata da un congresso controllato dai repubblicani.

Per di più Trump ha deciso di far uscire gli Stati Uniti dal progetto per l’imposta minima globale del 15 per cento voluto dall’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo internazionale. Secondo molti esperti sarebbe stata una buona soluzione di compromesso, ma in un comunicato la Casa Bianca ha fatto sapere che questo progetto avrebbe “limitato la capacità degli Stati Uniti di adottare politiche fiscali flessibili, necessarie per servire gli interessi delle aziende e dei lavoratori statunitensi”.

Detto questo, non si può non essere d’accordo con quello che scrive il giornalista irlandese Fintan O’Toole sull’Irish Times: al netto delle colpe, dell’ipocrisia e della follia di Trump, bisogna riconoscere che l’Irlanda “trae profitto da un sistema profondamente ingiusto e immorale. Questa ingiustizia è tra le cause del risentimento e dell’alienazione che Trump sfrutta. Gli irlandesi non sono vittime del movimento Make America great again. Hanno contribuito alla sua nascita, dando allo statunitense medio una buona ragione per pensare che la globalizzazione lo penalizzi”.

Questo testo è tratto dalla newsletter Economica.

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