Per il momento la borsa sembra l’unico soggetto in grado di ricordare al presidente degli Stati Uniti Donald Trump che i suoi grandiosi e retorici progetti per l’instaurazione di “una nuova età dell’oro americana” si scontrano con una realtà completamente diversa da come la immagina l’inquilino della Casa Bianca, e anzi rischiano di provocare danni duraturi all’economia nazionale. Le perdite registrate a Wall street in questi giorni parlano chiaro, anche se Trump non mostra di preoccuparsene, spiegando di tenere grandi mosse in serbo e di guardare al medio e lungo periodo.

Il 10 marzo l’S&p 500, l’indice che segue le cinquecento principali società quotate alla borsa statunitense, ha perso il 2,7 per cento; il Dow Jones è sceso di più del 2 per cento, mentre il Nasdaq è calato del 4 per cento, il dato peggiore degli ultimi tre anni. Quest’indice, in particolare, ha visto la debacle dei titoli dei colossi tecnologici statunitensi, a partire dalla Tesla di Elon Musk, che con il 15 per cento ha registrato il calo più vistoso dal 2020. Le azioni di Apple, Microsoft, Alphabet (la casa madre di Google), Amazon, Nvidia e Meta Platforms (Facebook e Instagram) hanno perso tra il 2,4 e il 5,1 per cento.

I ribassi erano cominciati nei giorni precedenti e si sono aggravati soprattutto dopo che il 9 marzo Trump ha rifiutato di escludere che quest’anno gli Stati Uniti potrebbero finire in recessione. Il presidente ha preferito parlare di un “periodo di transizione, perché quello che stiamo facendo è davvero grande”. Il 6 marzo il segretario del tesoro Scott Bessent aveva già espresso un’opinione simile, sottolineando che “quest’amministrazione è concentrata su main street”, cioè sull’economia reale, non sulla finanza. Certo, come ha ricordato il premio Nobel Paul Krugman, “il mercato azionario non è l’economia. Quello che più colpisce è il fatto che non ci sono notizie reali alla base di questi scossoni. Ma semplicemente succede che gli investitori stanno realizzando in ritardo chi è Trump e chi è sempre stato”.

Il ritorno alla Casa Bianca di Trump aveva scatenato grandi entusiasmi in borsa. Il risultato più eclatante era stata l’ennesima rinascita del bitcoin: il 13 novembre, a poco più di una settimana dal voto per le presidenziali, la famosa criptovaluta lanciata nel 2009 dal misterioso hacker Satoshi Nakamoto aveva raggiunto valori senza precedenti, sfiorando la soglia dei centomila dollari. Ne era uscita bene la Tesla di Elon Musk, che aveva guadagnato più del 40 per cento, aggiungendo trecento miliardi di dollari al valore di borsa. Erano andate bene anche le banche e i colossi dell’energia.

Oggi, a un mese e mezzo dall’insediamento di Trump, la realtà si è rovesciata. Aziende e investitori sono sempre più inquieti, soprattutto a causa dell’imprevedibile politica commerciale di Trump, che continua a infliggere e togliere dazi non solo alla Cina, ma anche ai paesi europei, al Canada e al Messico. Negli Stati Uniti crescono i timori che l’economia possa finire in recessione e che l’inflazione torni ad aggravarsi.

La Commissione europea risponde ai dazi statunitensi sull’acciaio e l’alluminio
Il 12 marzo la Commissione europea ha annunciato dei dazi doganali “significativi ma proporzionati” su una serie di prodotti statunitensi, in risposta ai dazi del 25 per cento imposti da Donald Trump sull’acciaio e l’alluminio.
 

Anzi, visto che l’amministrazione Trump ripete di occuparsi solo dell’economia reale, ora non potrà certo ignorare che i prezzi di alcuni beni di prima necessità continuano a salire in modo preoccupante. Per esempio il prezzo delle uova, salito del 157 per cento rispetto a tre anni fa. La causa principale è l’influenza aviaria, che porta gli allevatori a uccidere milioni di polli e galline per limitare i contagi, causando la riduzione dell’offerta e quindi l’aumento del prezzo. Le uova sono un alimento fonte di proteine generalmente accessibile alla maggior parte delle famiglie statunitensi, compresi molti elettori che hanno creduto in Trump, che in campagna elettorale ha assicurato di poter risolvere rapidamente il problema.

A questo va aggiunto che la variazione dei titoli in borsa sarà pure virtuale, ma gli effetti pratici non mancano, perché a Wall street sono investiti i soldi di migliaia di aziende e risparmiatori individuali. Basti pensare ai fondi pensione: in molti paesi, in particolare negli Stati Uniti, l’erogazione della pensione è legata ai rendimenti degli investimenti fatti con i soldi dei lavoratori.

Il Wall Street Journal racconta che in questi giorni gli esponenti dell’amministrazione Trump sono sommersi di telefonate di amministratori delegati e lobbisti in preda al panico a causa dei disastri provocati dall’imprevedibile politica dei dazi. I manager, racconta il quotidiano, ormai sanno di non poter più dissuadere il presidente dai suoi intenti, ma chiedono che la Casa Bianca agisca almeno con più linearità e chiarezza.

Trump non ha alcuna intenzione di ascoltarli. Il 12 marzo, per esempio, Washington ha imposto dazi del 25 per cento sulle importazioni di acciaio e alluminio. L’Unione europea, la Cina, il Giappone, l’Australia e il Canada sono i paesi più colpiti. In particolare, Bruxelles ha subito reagito, annunciando che dal 1 aprile entrerà in vigore una serie di dazi sulle importazioni statunitensi. E la Casa Bianca ora minaccia dazi del 200 per cento sugli alcolici europei.

Washington continua a parlare di “piccoli disordini”, considerati inevitabili nel percorso che porterà a una meta migliore: Trump ha sempre detto che il suo principale obiettivo di politica economica è ridurre il deficit commerciale degli Stati Uniti potenziando le esportazioni e diminuendo le importazioni. Tutto questo dovrebbe rafforzare la produzione manifatturiera e far tornare fabbriche e posti di lavoro dell’industria sul territorio nazionale. Trump promette un commercio internazionale più equilibrato per gli Stati Uniti, un’amministrazione pubblica più efficiente (con i tagli di Elon Musk, che per ora ha combinato solo disastri) e imprese private più forti e competitive grazie a prezzi dell’energia contenuti, tasse più basse e meno burocrazia.

Nessuno sa bene a cosa punti. Secondo il Financial Times, punta a un accordo simile a quello del Plaza del 22 settembre 1985, quando ministri delle finanze e i banchieri centrali di Francia, Giappone, Regno Unito, Repubblica Federale Tedesca, Stati Uniti e Canada concordarono interventi coordinati sul mercato dei cambi con l’obiettivo di contrastare il persistente apprezzamento del dollaro; tra il 1980 e il 1985 la valuta statunitense si era apprezzata di circa il 50 per cento nei confronti dello yen, del marco tedesco, del franco francese e della sterlina inglese, causando notevoli difficoltà all’industria americana.

Il caos risponde a una tattica precisa più che ai capricci personali. Trump e i suoi collaboratori pensano che la minaccia dei dazi e gli shock provocati al sistema economico possano spingere gli altri paesi a negoziare con Washington, mentre una recessione dovrebbe convincere la Federal reserve (Fed, la banca centrale degli Stati Uniti) a ridurre il costo del denaro. I crolli in borsa inoltre potrebbero contrastare l’eccessiva finanziarizzazione dell’economia statunitense ridando forza all’industria. La Casa Bianca, aggiunge il quotidiano britannico, classificherà i paesi come nemici, amici o comprimari: solo agli amici saranno assicurati protezione militare e l’esenzione dai dazi. Tutto questo per ridisegnare l’ordine della finanza e del commercio globali, giusto a quarant’anni dall’accordo del Plaza.

Resta da vedere se il progetto non naufragherà di fronte a una realtà che è sicuramente diversa da quella del 1985. Trump ripete che i dazi e le guerre commerciali sono un bene, perché tra l’altro porteranno più soldi nella casse dello stato, ma sembra ignorare che in realtà provocano un aumento dei prezzi, rallentano l’innovazione e per di più danneggiano i rapporti con i paesi che sono da sempre i naturali alleati dei Washington. Di sicuro ha già privato gli Stati Uniti di un punto di forza della sua economia: la fiducia degli investitori in un sistema politico affidabile. Il presidente statunitense sembra invece ossessionato dal passato, da un’età dell’oro che quanto meno non c’è più, ammesso che sia mai esistita. E non lo aiuta il fatto che le ricchezze della sua aspirante autocrazia (vedi Elon Musk) siano soggette agli umori della borsa.

Questo testo è tratto dalla newsletter Economica.

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