Se vi piacciono i film sulla scuola e l’università statunitensi potreste averne visto qualcuno in cui ci sono studenti che si sfidano in gare di dibattito. Ultimamente ho visto The great debaters. Il potere della parola, uno dei primi film da regista di Denzel Washington: racconta la storia di alcuni ragazzi di un college per neri del Texas che arrivano a sfidare le più importanti università del paese, facendosi strada in un mondo tradizionalmente dominato dai bianchi (consiglio di vederlo su YouTube, perché su Amazon Prime c’è solo la versione in italiano e il doppiaggio è pessimo). Ma ce ne sono molti altri, tra cui Rocket science (ambientato in un liceo del New Jersey), Candy jar (una commedia, su Netflix) e A sort of homecoming.

È una tradizione, quella delle discussioni accese su argomenti di varia natura, che è anche più antica degli Stati Uniti stessi. Fu introdotta nelle università dai coloni britannici, all’inizio come esercizi in classe in cui gli studenti dovevano presentare ai compagni argomenti sulla retorica. In seguito la natura di questi dibattiti cambiò, spostandosi su conversazioni filosofiche e sull’attualità politica e gli studenti dovevano essere in grado di sostenere potenzialmente qualsiasi tipo di posizione su un determinato argomento.

L’idea di fondo è che l’abitudine a discutere permetta agli studenti di perfezionare e approfondire il loro pensiero e anche di metterlo in discussione. Una volta usciti dall’università, oltre a essere più preparati e consapevoli, dovrebbero avere anche più strumenti per affrontare la competizione nel mondo del lavoro, per esempio in una redazione, in un’aula di tribunale o in un’istituzione economica.

A partire dalla fine dell’ottocento i gruppi di dibattito delle varie università cominciarono a competere tra loro in campionati locali e nazionali. Oggi esistono molte associazioni di dibattito, tra cui la Cross examination debate association (Ceda) e il National debate tournament (Ndt). Negli ultimi anni anche questo mondo, come ogni aspetto della vita culturale e politica degli Stati Uniti, è stato trasformato dallo scontro ideologico sempre più aspro tra destra e sinistra.

Come ha scritto l’Atlantic in un articolo di qualche anno fa, di recente il mondo dei dibattiti, tradizionalmente dominato dalle università d’élite frequentate soprattutto da bianchi provenienti da famiglie benestanti, si è trasformato sotto la pressione degli studenti delle minoranze, che vogliono introdurre nel dibattito (nell’accezione più ampia del termine) punti di vista in passato ignorati. Gli studenti afroamericani si sono guadagnati il loro spazio (riuscendo a vincere molti premi), ma facendolo hanno cambiato l’impostazione dei dibattiti in un modo che ha fatto storcere il naso a molti. È capitato che premi importanti fossero assegnati agli studenti che avevano ignorato completamente il tema della discussione e si erano lanciati invece in arringhe molto aggressive e ideologiche, basate sulle esperienze personali anziché su dati, numeri e riferimenti bibliografici.

Il fatto che il piano si sia spostato dagli argomenti che servono a vincere un dibattito al dibattito in sé – come impostarlo, quali argomentazioni sono accettabili, chi ha diritto di parlare – è molto indicativo delle dinamiche in corso negli Stati Uniti. E non è un caso se le università, i luoghi intorno ai quali si costruisce una parte importante del dibattito culturale del paese, sono in prima linea in questo conflitto ideologico.

Dopo che sono cominciate la proteste a favore del popolo palestinese in decine di università, alcuni commentatori hanno fatto notare che il radicalismo dei manifestanti, oltre che dalla giusta indignazione per quello che succede nella Striscia di Gaza, è stato alimentato anche dalle dinamiche che da tempo impediscono una discussione costruttiva negli atenei. Una delle questioni su cui il dibattito è particolarmente difficile è proprio quella dei rapporti tra israeliani e palestinesi che, come ha scritto Zadie Smith in un articolo di cui si è parlato molto in settimana, è dominata dagli shibboleth, cioè espressioni che non si possono usare o, al contrario, espressioni che si devono usare.

Eccezioni

Anche in questo clima esistono delle eccezioni, luoghi in cui studenti con idee molto diverse sul conflitto in Medio Oriente si confrontano apertamente, traendone grandi benefici. Il Chronicle of Higher Education ha dedicato un lungo articolo al corso che Steven David, docente di relazioni internazionali, tiene alla Johns Hopkins university di Baltimora. Il corso, che si intitola “Israele ha un futuro?”, si svolge ogni anno dal 2016, ma nell’ultimo anno, dopo l’attacco di Hamas contro Israele e la guerra israeliana nella Striscia di Gaza, è diventato più urgente e per certi versi più utile.

“In un mercoledì di metà aprile sedici studenti siedono intorno a un lungo tavolo, con David a capo, e si tuffano nella discussione. Il corso è strutturato in ordine cronologico: si parte dalla storia antica per arrivare alla nascita di Israele, al conseguente esodo di centinaia di migliaia di palestinesi, ai negoziati per una soluzione a due stati, all’alleanza tra Stati Uniti e Israele, alla minaccia nucleare iraniana e a molto altro ancora”.

Ogni lezione comincia con due studenti che discutono a partire da una dichiarazione. Per esempio: la responsabilità principale del problema dei rifugiati palestinesi è da attribuire alla creazione di Israele; gli insediamenti israeliani in Cisgiordania sono illegali, immorali e rendono impossibile una pace duratura con i palestinesi; gli sforzi internazionali per delegittimare Israele sono ingiusti e antisemiti. All’inizio del semestre gli studenti scelgono un argomento e una parte, di solito quella che rispecchia il loro pensiero. Poi David li invita a sostenere la tesi opposta.

“Oggi, nella penultima lezione del semestre, l’argomento è la risposta di Israele agli attacchi del 7 ottobre 2023. Due studenti snocciolano le loro argomentazioni in monologhi di cinque minuti. In seguito David tiene una breve lezione sulla storia di Gaza; spiega quanti israeliani sono stati uccisi o presi in ostaggio il 7 ottobre, il motivo per cui Hamas può aver attaccato quando lo ha fatto, le conseguenze per Hamas, Gaza e Israele e ciò che ci aspetta. Poi torna a porre la domanda al gruppo: Israele era giustificato a rispondere come ha fatto? A quel punto gli studenti intervengono di nuovo: parlano in modo diretto e competente, collegando gli eventi attuali a quelli del passato, esplorando le varie questioni in gioco”.

David di tanto in tanto sottolinea le parole di uno studente dicendo “buona osservazione” o facendo un chiarimento. Ma se da un lato il suo atteggiamento è incoraggiante, dall’altro non tarda a chiedere agli studenti se sono disposti ad accettare le conseguenze delle loro argomentazioni. A uno studente secondo cui Israele deve entrare a Rafah per distruggere Hamas perché Hamas non smetterà mai di cercare di distruggere Israele, David chiede: “È giustificato uccidere migliaia di persone se questo è il prezzo da pagare?”.

A un altro studente, secondo cui Israele dovrebbe accettare un cessate il fuoco permanente in cambio del rilascio degli ostaggi, chiede: “Ti andrebbe bene se Hamas celebrasse la vittoria?”. Questa tattica richiede agli studenti di estendere il loro pensiero. “Gli dico sempre che non è una questione di giusto e sbagliato, ma di argomenti buoni e argomenti cattivi. E mi aspetto che sostengano le loro affermazioni con letture e discussioni per rafforzare i loro punti di vista”.

Alla fine di questo processo gli studenti rimangono spiazzati, e si vedono costretti a integrare il loro punto di vista con altri elementi che hanno scoperto durante il corso. Di conseguenza diventano meno polemici e gli scambi con persone che la pensano diversamente si fanno meno intensi. L’articolo riporta i pareri di alcuni studenti. Min-Sea Kim, che aveva cominciato il corso su posizioni solidamente filoisraeliane, dice: “La mia opinione generale su questo conflitto si è decisamente evoluta. È diventata più sfumata e, onestamente, confusa. Nessuna parte in causa può vantare una superiorità morale. Si diventa un po’ più insofferenti e preoccupati verso gli integralisti di entrambe le parti, che pensano: ‘La mia parte è quella intrinsecamente virtuosa dal punto di vista morale. E quindi l’altra parte è il cattivo malvagio che sta cercando di opprimere e distruggere’”.

Gli studenti comunque sono consapevoli di essere in un contesto particolare. Alla John Hopkins c’è un ambiente relativamente tranquillo rispetto ad altri campus. Uno studente ebreo (che ha preferito restare anonimo) dice: “Penso che se il professor David tenesse questo corso alla Columbia (l’ateneo dove è cominciata l’attuale mobilitazione) le persone al di fuori del corso protesterebbero. Ci sarebbe una rottura”. Yael Klucznik, una laureata in ingegneria biomedica ed ebrea, aggiunge: “Ciò che contribuisce al clima del campus sono le persone che fanno sentire la loro voce e tendono ad avere opinioni molto estreme. Sono le stesse persone che non partecipano a questo corso. Nella nostra classe non c’era nessuno con opinioni estreme”.

Questo testo è tratto dalla newsletter Americana.

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it