L’energia è un’ossessione della politica statunitense da più di cinquant’anni. Dopo le crisi petrolifere degli anni settanta, nella società americana cominciò a diffondersi la paura che un improvviso calo nelle forniture di petrolio dall’estero potesse mettere a repentaglio la crescita economica e il tenore di vita conquistato dopo la seconda guerra mondiale. Così il tema dell’indipendenza energetica finì al centro del dibattito e ci è rimasto da allora.
A partire dalle campagne elettorali dei primi anni duemila i candidati hanno cominciato a usare un’espressione – all of the above – riferendosi alla necessità di usare, e far crescere, tutte le fonti di energia. L’idea di fondo è che l’abbondanza di energia permette di creare posti di lavoro, di mantenere bassi i prezzi per i consumatori e di garantire al paese una stabilità nel lungo periodo. Negli ultimi trent’anni all of the above è stato lo slogan di politici molto distanti tra loro, spesso agli antipodi: per i repubblicani, tra cui l’ex governatrice dell’Alaska Sarah Palin, voleva dire continuare a sfruttare il più possibile i combustibili fossili in un momento in cui stavano crescendo le rinnovabili; per Barack Obama significava incrementare la produzione di energia pulita, in modo che con il tempo affiancasse e poi superasse le fonti tradizionali (durante il suo mandato aumentò molto la produzione di petrolio e gas naturale).
Gli Stati Uniti sono riusciti a raggiungere l’indipendenza energetica. È successo un po’ alla volta – nel 2011 sono diventati esportatori netti di carburante, nel 2018 il primo produttore mondiale di petrolio, nel 2023 primo esportatore mondiale di gas – ma è stato sotto Joe Biden che lo slogan all of the above è stato effettivamente messo in pratica.
L’Inflation reduction act e la legge per rinnovare le infrastrutture, i due provvedimenti più importanti approvati dal congresso sotto la spinta della Casa Bianca, hanno stanziato centinaia di miliardi di dollari per far crescere la produzione di energia dall’eolico, dal solare e dal geotermico, per incentivare la produzione di batterie e di auto elettriche e per sostituire i vecchi reattori nucleari con impianti più piccoli e più sicuri.
Si prevede che nei prossimi due anni l’energia prodotta dal solare aumenterà del 75 per cento rispetto ai livelli del 2023, mentre quella derivata dall’eolico dovrebbe crescere di più del 10 per cento entro la fine del 2025. Entrambe le fonti stanno colmando il divario con il gas naturale, la principale fonte di energia elettrica degli Stati Uniti.
Questa crescita, consentita anche dagli enormi sviluppi tecnologici degli ultimi anni, è in linea con le promesse fatte da Biden durante la campagna elettorale del 2020, che prevedevano un giro di vite contro l’industria del petrolio e del gas. La sua amministrazione ha anche introdotto una serie di norme ambientali che vanno dalla protezione delle specie in via di estinzione a regole più severe sulle fughe di metano alle restrizioni per le trivellazioni in mare aperto. Il primo giorno di mandato, a gennaio del 2021, Biden ha lanciato un segnale fortissimo revocando l’autorizzazione per costruire l’oleodotto Keystone Xl, un progetto da 8 miliardi di dollari che era stato pensato per trasportare il petrolio dalla provincia dell’Alberta, in Canada, alle raffinerie del Golfo del Messico.
I conservatori hanno contestato tutte queste misure e con l’avvicinarsi della campagna elettorale hanno cercato di descrivere Biden come il presidente che sta uccidendo il settore dei combustibili fossili. In realtà questa retorica nasconde una verità scomoda sia per i repubblicani sia per lo stesso Biden: durante il suo mandato l’industria americana del petrolio e del gas ha spiccato il volo. Con più di 13 milioni di barili al giorno, la produzione ha raggiunto livelli record, le esportazioni di idrocarburi statunitensi sono aumentate, le aziende hanno fatto profitti senza precedenti, il settore nel complesso è cresciuto ulteriormente, con una serie di fusioni e acquisizioni tra le più importanti degli ultimi decenni.
La direzione dell’amministrazione Biden sul tema è cambiata dopo l’invasione russa dell’Ucraina, a febbraio 2022. Vista l’impennata dei prezzi della benzina, e temendo una sconfitta alle elezioni di metà mandato di quell’anno, il presidente ha chiesto alle compagnie di aumentare la produzione di petrolio. Inoltre, mentre l’Europa si interrogava su come mettere fine alla sua dipendenza dal gas russo, la Casa Bianca ha incoraggiato le esportazioni di gas naturale liquefatto verso il continente. Cresciuti per qualche mese dopo l’invasione russa dell’Ucraina, i prezzi del carburante e dell’energia negli Stati Uniti sono tornati a livelli rassicuranti nel giro di pochi mesi.
Spinto dalle necessità di tenere bassi i prezzi e di recuperare consensi in vista delle elezioni, Biden si è mosso su una linea molto sottile
A causa dell’aumento dei prezzi, il 2022 è stato l’anno più redditizio per le compagnie petrolifere statunitensi quotate in borsa. Il Financial Times ha scritto che “nei primi tre anni dell’amministrazione Biden, le prime dieci aziende statunitensi quotate in borsa hanno accumulato un utile netto combinato di 313 miliardi di dollari, quasi il triplo rispetto allo stesso periodo sotto Trump. La produzione di petrolio e gas negli Stati Uniti ha raggiunto livelli record nel 2023”.
Va detto che la crescita del settore petrolifero americano è solo in parte frutto delle decisioni di Biden. Gli analisti del settore spiegano che sono molto più determinanti le forze di mercato, al di fuori del controllo della politica. In questi due anni, per esempio, ha influito la decisione dei paesi dell’Opec (l’organizzazione dei paesi esportatori di petrolio), in particolare dell’Arabia Saudita, di ridurre le quote di produzione di petrolio per mantenere alto il prezzo del barile di greggio. Uno sforzo vanificato dall’aumento della produzione di altri paesi che non fanno parte dell’Opec, come Brasile e Guyana.
Spinto dalle necessità di tenere bassi i prezzi per i consumatori e di recuperare consensi in vista delle elezioni, Biden ha continuato a muoversi su una linea molto sottile, con politiche di segno opposto: con grande delusione della sua base elettorale progressista, ha dato il via libera al ConocoPhillips Willow project, un progetto di estrazione da 8 miliardi di dollari in Alaska; allo stesso tempo ha introdotto nuove norme per contenere la produzione di petrolio e gas oltre un certo limite, per esempio sospendendo le nuove licenze per i terminali di gas naturale liquefatto, bloccando le trivellazioni in altre zone e approvando norme severe sulle emissioni dei gas di scarico per spingere gli americani verso i veicoli elettrici.
Dal punto di vista dell’approvvigionamento energetico gli Stati Uniti non sono mai stati così solidi. Ma si fa fatica a trovare qualcuno che sia contento. I repubblicani sono arrabbiati per le centinaia di miliardi di dollari stanziati da Biden per la transizione energetica e per la decisione di porre un limite temporaneo alla crescita delle esportazioni di gas naturale. Questo anche se gli stati governati dai conservatori sono tra i principali beneficiari delle leggi approvate per stimolare le rinnovabili. Il Financial Times ha pubblicato un reportage molto interessante dal Texas, in cui dirigenti dell’industria petrolifera e politici locali accusano il presidente di essere nemico del petrolio e della crescita economica. In realtà il Texas è lo stato che più di tutti trae vantaggio da un approccio basato sull’all of the above: è il più grande produttore di petrolio e gas naturale del paese, è anche in cima alle classifiche per produzione di energia eolica e ospita la sede della Tesla, la maggiore azienda del settore delle auto elettriche.
D’altro canto i politici di sinistra e gli attivisti per l’ambiente sostengono che la spinta data da Biden all’industria petrolifera stia vanificando i passi fatti per completare la transizione energetica, demoralizzando i giovani elettori di cui ha bisogno per essere rieletto. Secondo gli obiettivi fissati dall’amministrazione Biden, gli Stati Uniti dovrebbero ridurre le emissioni del 50-52 per cento rispetto al 2005 entro il 2030. Il dato è coerente con gli auspici degli scienziati e delle Nazioni Unite, che chiedono tagli del 43 per cento entro il 2030 e un azzeramento delle emissioni nette entro il 2050. Ma ai livelli di produzione attuali di petrolio e gas, negli Stati Uniti e in altri paesi sviluppati le emissioni continueranno a crescere invece di ridursi, come previsto anche dal dipartimento dell’energia statunitense. Su questo gli Stati Uniti, come altri paesi occidentali, si scontrano con lo scoglio più grande della transizione energetica: il passaggio dal petrolio alle rinnovabili implica un ripensamento profondo delle abitudini sociali e delle infrastrutture, in particolare nel settore dei trasporti.
È prevedibile che l’energia e l’ambiente saranno tra i temi più delicati per Biden in campagna elettorale. Donald Trump cavalcherà il malcontento del settore petrolifero per raccogliere donazioni per la campagna elettorale e per recuperare consensi tra gli elettori meno convinti dalle politiche per la transizione energetica. Ma il suo estremismo spaventa le aziende, spiega il Financial Times. “Molti dirigenti, soprattutto quelli che guidano compagnie con attività all’estero, temono che in un secondo mandato Trump possa prendere decisioni che destabilizzino il settore, per esempio una nuova guerra sui dazi che potrebbe danneggiare il commercio e far crollare la domanda di gas e petrolio”.
Se Trump, come promesso, dovesse decidere di cancellare l’Inflation reduction act, colossi come Exxon, Chevron e Occidental Petroleum non sarebbero contenti, perché grazie a quella legge usufruiscono di agevolazioni fiscali per l’idrogeno e la cattura dell’anidride carbonica. “Quella promessa potrebbe allarmare anche i repubblicani candidati in distretti elettorali che hanno beneficiato dei miliardi investiti nell’energia pulita”.
Questo testo è tratto dalla newsletter Americana.
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