Sono bastate poche ore, tra il pomeriggio di domenica e la mattina di lunedì, perché il piano della politica americana ruotasse di 180 gradi.

Oggi l’informazione segue un ritmo così veloce che anche notizie potenzialmente (o apparentemente) epocali vengono digerite e superate nel giro di pochissimo – creando un pericoloso appiattimento della realtà – quindi vale la pena fare un piccolo passo indietro, a quando Donald Trump e i repubblicani sembravano inesorabilmente lanciati verso la vittoria, prima che Joe Biden si ritirasse dalla corsa e Kamala Harris si prendesse la scena.

Il dibattito televisivo del 27 giugno è stato devastante per i democratici perché poteva cristallizzare nell’elettorato il messaggio principale, in fondo l’unico, del trumpismo (“io sono forte, i miei avversari sono deboli”) e metteva Donald Trump in una posizione in cui non si era mai trovato prima nella sua carriera politica: lontano dai riflettori. Per una volta le debolezze caratteriali e politiche al centro del dibattito non erano le sue.

L’attentato in cui ha rischiato la vita, il 13 luglio, non ha solo ingigantito ulteriormente la percezione pubblica della sua forza (con l’istinto da uomo di marketing, Trump ha colto il momento giusto per assumere la posa dell’eroe); ha soprattutto smontato l’argomento su cui i democratici avevano costruito buona parte della loro campagna elettorale, cioè che Trump e i suoi sostenitori fossero una minaccia per la democrazia. Nei giorni successivi, mentre Trump veniva incoronato alla convention repubblicana, i democratici sembravano i primi a considerare inevitabile la sua vittoria a novembre.

Un politico normale si sarebbe limitato a cavalcare le difficoltà degli avversari, avrebbe abbassato i toni, avrebbe cercato di allargare il suo consenso invece di continuare a parlare ai sostenitori più fedeli e radicali. Trump invece ha fatto capire subito di non avere nessun interesse a “unire” il paese, già nel discorso di accettazione della convention, e forse in questo modo ha rimesso in gioco i suoi avversari. All’improvviso i democratici si sono ricordati che il loro avversario è uno dei politici più impopolari della storia statunitense e che mancavano ancora più di tre mesi alle elezioni. In questo contesto i leader democratici (a cominciare dall’ex speaker Nancy Pelosi, forse ancora la più influente persona nel partito) hanno dato l’ultima spinta per convincere Biden a ritirarsi.

La velocità con cui il partito si è compattato intorno a Harris e l’entusiasmo con cui gli elettori democratici sembrano aver accolto la sua candidatura dimostrano con che velocità possono cambiare la narrazione e le dinamiche di una campagna elettorale negli Stati Uniti. Tra i democratici il disfattismo ha lasciato spazio a un senso di possibilità. In tre giorni hanno raccolto più di 120 milioni di dollari in donazioni, numeri mai visti, e migliaia di persone fanno la fila per prestare servizio nella campagna elettorale come volontarie. Se prima andavano nel panico ogni volta che Biden si presentava in pubblico, ora pensano di avere una candidata che è per tanti versi un’incognita, ma può trasmettere il messaggio del partito in modo energico ed efficace, può parlare di futuro contro passato, speranza contro odio: come passare da uno sceneggiato in bianco e nero a una serie Netflix. Ora sono i repubblicani a dover resettare la loro strategia.

Quindi Harris può veramente vincere le elezioni? Per cominciare a rispondere a questa domanda bisognerà pazientare un po’, aspettare che dopo quattro settimane folli si calmino le acque e tutti – commentatori, strateghi politici, elettori – possano valutare la stato della corsa in modo più lucido (i sondaggi che si vedono in questi giorni non servono a molto, perché risentono della visibilità e dell’entusiasmo di cui Harris ha beneficiato dopo essere entrata in corsa).

Ma i primi passi di Harris come candidata aiutano già a capire come i democratici cercheranno di colmare il distacco da Trump.

Prima di tutto facendo notare il più possibile il contrasto tra i due candidati. Harris ha vent’anni meno di Trump, funziona bene sui social network e soprattutto dà il suo meglio quando può andare all’attacco, una dote che Biden non aveva nemmeno quando era più lucido e in forma, e che è fondamentale in una campagna elettorale condotta da una posizione di svantaggio. Il passato da procuratrice non l’aiutò alle primarie democratiche di cinque anni fa, in un periodo in cui una buona parte dell’elettorato di sinistra era preoccupata per le violenze della polizia e chiedeva la riforma del sistema penale. Oggi le condizioni sono molto diverse e più favorevoli: Harris non deve sgomitare con decine di candidati per emergere (tutto il partito la sostiene compattamente), il suo rivale è un uomo condannato in un processo penale e imputato in altri procedimenti e molti elettori sono preoccupati della criminalità e della sicurezza nelle città.

La parte che è circolata di più, dal suo primo comizio a Milwaukee, in Wisconsin, è stata questa:

Come procuratrice in California ho affrontato criminali di ogni tipo: predatori che hanno abusato di donne, truffatori che hanno derubato i consumatori, imbroglioni che hanno infranto le regole per il proprio tornaconto. Quindi credetemi quando dico che conosco il tipo di Donald Trump.

Ma questo non basterà ai democratici per vincere le elezioni. Le condizioni di salute di Biden hanno spostato l’attenzione sul messaggero, ma era anche il messaggio a essere sbagliato. Ostinarsi a ripetere che le cose vanno bene e che invece il paese andrebbe a rotoli se dovesse vincere Trump non è una ricetta vincente. Le elezioni presidenziali non sono un referendum sul futuro della democrazia ma una scelta tra due persone che devono convincere gli elettori di avere il progetto migliore per il paese.

Chi sono quindi le persone che potrebbero portare Harris alla Casa Bianca come presidente?

In questi giorni alcuni commentatori hanno fatto un parallelo tra la sua campagna elettorale e quella di Barack Obama del 2008. Un elemento in comune è il modo in cui hanno gestito il bagaglio razziale e culturale. Obama, anche se consapevole della portata storica della sua candidatura, non parlava mai del fatto che sarebbe diventato il primo presidente afroamericano. Sapeva che se fosse stato inquadrato negli schemi dell’identità razziale, la sua candidatura sarebbe diventata più divisiva e la portata del suo messaggio sarebbe stata più limitata (alla radice di questa dinamica c’è una delle più grandi e antiche ipocrisie statunitensi: un nero può vincere un’elezione nazionale solo se non parla troppo del suo essere nero e di cosa vorrebbe fare per i neri. Ma una parte dei suoi avversari non smetterà mai comunque di prenderlo di mira in quanto nero, e lo accuserà sempre di voler dividere il paese).

Shyamala Gopalan (a sinistra), la madre di Kamala Harris, a Berkeley negli anni sessanta. (Kamala Harris campaign)

Allo stesso modo, in passato Harris ha cercato di non farsi definire dall’identità razziale e di genere, e i suoi primi passi da candidata presidenziale fanno pensare che gestirà nello stesso modo questa campagna elettorale. Il fatto di essere donna e di essere nera potrebbe aiutarla a consolidare il consenso delle minoranze e dell’elettorato femminile, gruppi centrali nella coalizione democratica, ma Harris vuole che il suo messaggio – soprattutto quello che riguarda i diritti e le libertà messe in pericolo da un’eventuale amministrazione Trump – sia il più ampio possibile.

Ma Harris non è Obama, che aveva un’abilità unica nel rivolgersi contemporaneamente a elettori molto diversi tra loro. Sapeva usare la sua storia personale – la madre era nata in Kansas, uno stato bianco e rurale – per connettersi con quegli elettori che in un primo momento potevano essere ostili. Harris viene dalla California, uno stato che nelle zone più conservatrici è visto come una sorta di distopia progressista, e in passato, per andare incontro alla nuova linea del Partito democratico, ha sposato posizioni radicali che ora sicuramente le saranno rinfacciate e che potrebbero metterla in difficoltà.

Uno dei principali timori sulla sua candidatura riguarda proprio il possibile scetticismo degli elettori bianchi più anziani e con un basso livello di istruzione, che nel 2016 avevano voltato le spalle a Hillary Clinton e quattro anni dopo invece si sono spostati verso Biden, risultando decisivi per la sua vittoria. Queste preoccupazioni spiegano perché si specula molto su chi sia il candidato ideale alla vicepresidenza. Si dà per scontato che Harris sceglierà un uomo bianco proveniente da uno degli stati decisivi del nordest. Il favorito sembra essere Josh Shapiro, governatore giovane (51 anni) e popolare della Pennsylvania, uno stato fondamentale per i democratici, che nel 2020 andò a Biden per soli 81mila voti.

Sull’Atlantic Ronald Brownstein ha scritto che Harris dovrà probabilmente compensare i limiti tra gli elettori delle zone rurali ampliando il vantaggio tra le donne bianche più istruite, insistendo sul tema delle libertà, in particolare del diritto all’aborto.

Cosa aspettarsi invece da Trump? Il giornalista Tim Alberta, che segue la sua campagna elettorale, ha raccontato che i repubblicani sono stati colti di sorpresa dal ritiro di Biden. Avevano messo in conto la possibilità che Harris prendesse il suo posto, ma dopo tre settimane trionfali – in cui i mezzi d’informazione avevano parlato solo dell’ostinazione di Biden nel restare aggrappato alla candidatura, delle spaccature tra i democratici e dell’inevitabilità della vittoria di Trump – si erano convinti che a quel punto l’obiettivo fosse stravincere. Lo dimostrava la scelta del candidato alla vicepresidenza, J.D. Vance, che è di fatto una copia più giovane di Trump e difficilmente può aiutarlo a conquistare gli elettori indecisi in un’elezione testa a testa.

Secondo Alberta, i repubblicani cercheranno di indebolire la figura pubblica di Harris collegandola ai presunti fallimenti dell’amministrazione Biden. “Questa è l’essenza della campagna di Trump: ogni democratico che prenderà la bandiera del partito erediterà il bagaglio che ha reso Biden ineleggibile. I repubblicani parleranno dell’inflazione storica, dei milioni di attraversamenti di migranti senza documenti alla frontiera con il Messico e del caos geopolitico in Europa e in Medio Oriente, sostenendo che l’intero Partito democratico ha fallito”.

Questa strategia ha dei limiti. Per prima cosa, Harris avrà del margine di manovra per prendere le distanze da alcune politiche della sua amministrazione, cosa che Biden naturalmente non poteva fare. Seconda, e più importante: ciò che ha reso Biden impresentabile agli occhi della gran parte dell’elettorato non è il giudizio sulle sue decisioni politiche, ma semplicemente il fatto di essere troppo vecchio. Con Biden fuori dalla corsa, i riflettori torneranno a essere su Trump, che in questa condizione tende a fare cose autodistruttive. L’ex presidente ha sempre riservato i suoi attacchi più volgari alle donne, solitamente definendole “stupide”, “incompetenti”, “spregevoli”. La sfida contro una donna molto più giovane di lui, nera e di personalità – il cui tema della campagna elettorale è “la procuratrice contro il criminale” – potrebbe far venire fuori i suoi istinti peggiori e fargli perdere voti tra le elettrici moderate. Venerdì, durante un discorso in Florida, Trump ha continuato a lamentarsi del ritiro di Biden (definendolo un colpo di stato) e ha chiamato Harris “barbona”.

Questo testo è tratto dalla newsletter Americana.

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