Alla convention del Partito democratico di Chicago il presidente Joe Biden ha passato ufficialmente il testimone della candidatura alla sua vice Kamala Harris, ma ha anche cominciato a preparare la sua definitiva uscita di scena. Biden ha quasi 82 anni e gli restano poco più di quattro mesi da presidente (di cui due in cui avrà margini di manovra ridotti), quindi possiamo dire che la sua carriera politica è molto vicina alla fine. Che tipo di presidente è stato? Quanto sarà importante e duratura la sua eredità?

La risposta a queste domande dipenderà in parte da alcune cose che potrebbero succedere nei prossimi mesi – riuscirà, per esempio, a fermare la guerra israeliana nella Striscia di Gaza prima della fine del mandato? – e soprattutto bisogna tenere conto che gli effetti reali di una presidenza si rivelano nel lungo periodo e il giudizio può cambiare con gli anni. Non c’è dubbio però che Biden occuperà un posto particolare nella storia dalla presidenza statunitense, per prima cosa per il percorso che ha fatto per arrivarci.

Biden ha inseguito il sogno di diventare presidente praticamente per tutta la vita, con la convinzione che prima o poi l’avrebbe realizzato grazie a un solido pragmatismo, a quella capacità, sviluppata già durante i suoi primi incarichi politici, di mettere d’accordo persone con idee e ideologie diverse. Una volta alla Casa Bianca sarebbe stato un moderato, un uomo di buonsenso, una figura capace di unire.

Dopo una lunga serie di tentativi falliti, l’approdo alla vicepresidenza sotto Barack Obama, nel 2008, avrebbe potuto mettere fine alle sue ambizioni presidenziali. Verso la fine del mandato il contesto ideologico era radicalmente cambiato e sembrava inconciliabile con il modo di fare politica di Biden: la destra, che si era radicalizzata durante l’amministrazione Obama, si buttava nelle braccia di Donald Trump, mentre l’ala più progressista del Partito democratico, delusa dal primo presidente nero, guadagnava spazio e consensi; la stagione del compromesso era finita e la finestra per Biden sembrava chiusa, anche perché nel 2016 Obama, convinto che fosse arrivato il momento di una donna alla Casa Bianca, decise di appoggiare Hillary Clinton invece che il suo vice (uno sgarbo che Biden non gli ha mai del tutto perdonato).

Alla fine paradossalmente è stata proprio questa apparente debolezza, il sembrare anacronistico, a rilanciare la carriera politica di Biden, alla soglia degli ottant’anni. Dopo quattro anni di Trump, tanti elettori erano spaventati dal suo estremismo, mentre l’ala progressista del Partito democratico faticava ad allagare la sua base di consensi abbastanza da portare un proprio rappresentante alla candidatura presidenziale. Il bisogno di normalità dopo una crisi economica e sanitaria devastante ha fatto tornare di moda il buonsenso, la moderazione e il pragmatismo su cui Biden aveva basato la sua carriera politica.

Biden ha compreso il clima politico e ha usato la sua abilità nel costruire ponti prima per compattare il partito, facendo proprie molte delle proposte della sinistra, e poi per convincere il congresso ad approvare una serie di importanti leggi e riforme, alcune attese da decenni, nonostante la maggioranza molto e la forte polarizzazione politica.

  • Un piano da 1.900 miliardi di dollari per risollevare il paese messo in ginocchio dal covid, che ha posto le basi per il successo dell’economia statunitense. Matthew Desmond, sociologo dell’università di Princeton, l’ha definito “l’intervento più importante del governo federale per le famiglie a basso reddito dai tempi di Lyndon Johnson (anni sessanta)”. Il piano comprendeva il child tax credit, un credito d’imposta per i figli che “ha portato la povertà infantile al tasso più basso della storia degli Stati Uniti” (scaduto nel 2021, il congresso si è rifiutato di prolungarlo).
  • La più importante spesa per rinnovare le infrastrutture (1.200 miliardi di dollari) dai tempi del New Deal degli anni trenta, passata con il sostegno dei repubblicani.
  • L’Inflation reduction act, il più grande investimento in tecnologia verde nella storia degli Stati Uniti (740 miliardi di dollari).
  • Il Chips and science act, un provvedimento da 280 miliardi di dollari pensato per riportare la produzione di semiconduttori negli Stati Uniti ed espandere gli investimenti del paese in ricerca e sviluppo.

Al di là dell’enorme spesa complessiva (che farà crescere il già enorme deficit statunitense), l’aspetto più rilevante del programma è la filosofia che c’è dietro: dopo almeno tre decenni in cui anche i democratici erano diventati allergici agli interventi del governo federale, Biden ha riaffermato l’idea che sia principalmente lo stato a doversi far carico dei problemi dei cittadini. Rientrano in quest’ottica anche gli interventi per dare alle agenzie governative il potere di negoziare i prezzi dei farmaci e per limitare il prezzo dell’insulina, così come i decreti per cancellare decine di miliardi di dollari di debiti universitari (bloccati dalla corte suprema).

Con le leggi pensate per stimolare la produzione di nuove tecnologie, inoltre, il presidente ha rispolverato l’idea novecentesca secondo cui serve un’ambiziosa politica industriale per affermare gli interessi statunitensi nel mondo.

Come tutti i suoi predecessori recenti, Biden non è riuscito a trovare risposte alla crisi migratoria al confine con il Messico. Dopo aver promesso una politica “umana” in risposta a quella crudele di Trump, si è scontrato con l’impossibilità di riformare un sistema disfunzionale e ha finito anche lui per adottare la linea dura.

Il giudizio sulla politica estera sarà inevitabilmente condizionato dal dramma di Gaza, ma allargando lo sguardo si può dire che Biden ha vissuto più dei suoi predecessori le conseguenze del declino globale degli Stati Uniti. Dinamiche geopolitiche che erano sotto traccia durante le amministrazioni di Obama e Trump sono esplose negli ultimi tre anni, dopo il ritiro caotico delle truppe statunitensi dall’Afghanistan, che ha mostrato al mondo la fragilità di Washington e rafforzato il fronte dei paesi che vogliono creare un ordine internazionale alternativo a quello guidato dagli Stati Uniti. C’è stata l’invasione russa dell’Ucraina, la Cina è diventata più aggressiva nei confronti di Taiwan e dei vicini, l’Iran più disinvolto nel colpire gli Stati Uniti e il loro alleati in Medio Oriente, e anche l’incapacità di Washington di condizionare il comportamento di Israele è in fondo un segnale della sua perdita d’influenza nella regione.

Il presidente ha risposto cercando di ricostruire le alleanze tradizionali indebolite da Trump, ma le leve che gli Stati Uniti possono usare per condizionare gli affari internazionali sono più fragili che in passato, e chi prenderà il posto di Biden dovrà confrontarsi con questa realtà.

Nel lungo periodo il giudizio sulla presidenza di Biden dipenderà molto dagli effetti delle sue politiche sul clima. Un articolo molto completo di Vox definisce la sua eredità “enorme, fragile e contraddittoria”.

Enorme per la qualità di soldi e risorse investiti per contrastare gli effetti della crisi climatica. Le leggi sulle infrastrutture, quella sui microprocessori e l’Inflation reduction act stanziano centinaia di miliardi di dollari per produrre energia pulita, realizzare infrastrutture di nuova generazione, sviluppare l’industria di batterie elettriche e rafforzare le catene nazionali di approvvigionamento.

Non solo: Biden ha riportato gli Stati Uniti nell’accordo sul clima di Parigi del 2015, ha partecipato personalmente ai colloqui internazionali sul clima e si è impegnato a raggiungere l’obiettivo ambizioso di dimezzare le emissioni di anidride carbonica entro il 2023 rispetto ai livelli del 2005, e di azzerarle entro il 2050; ha firmato l’Emendamento di Kigali, un trattato internazionale per l’eliminazione graduale di alcuni dei più potenti gas serra; ha emanato nuove norme sul risparmio di carburante per auto e camion per incoraggiare l’elettrificazione dei trasporti; ha fissato limiti rigorosi all’inquinamento atmosferico e all’anidride carbonica prodotta dalle centrali elettriche a combustibili fossili; ha innalzato gli standard di efficienza per stufe e frigoriferi; ha fissato obiettivi ambiziosi di riduzione delle emissioni per gli enti pubblici; ha ampliato le protezioni federali per le terre pubbliche e ha creato un corpo civile per formare i lavoratori alla salvaguardia di quei luoghi.

Fragile perché in questi anni alcuni stati governati dai repubblicani hanno cercato di far bloccare dai tribunali alcune delle misure introdotte dall’amministrazione Biden. E perché se Trump dovesse vincere le elezioni cancellerebbe buona parte di quei provvedimenti. Bisogna anche considerare che la crisi climatica non è una priorità nel paese, almeno per ora. La maggioranza degli americani è favorevole ad affrontare il problema del cambiamento climatico e a usare più energia pulita, ma le persone sono più preoccupate da altre questioni, come l’immigrazione e l’inflazione. Secondo un sondaggio condotto nell’aprile 2024 dallo Yale program on climate change communication, il 37 per cento degli elettori considera il cambiamento climatico “molto importante”.

Contraddittoria perché altre scelte fatte dal presidente rischiano di compromettere in parte i suoi sforzi sul clima. Le dinamiche globali del mercato energetico e la necessità di far scendere i prezzi dopo l’invasione russa dell’Ucraina hanno portato gli Stati Uniti ad aumentare di molto la produzione e l’esportazione di combustibili fossili (ne ho scritto qualche settimana fa).

La già citata politica industriale di Biden, poi, potrebbe aiutare l’economia statunitense ma non il clima. “In base all’Inflation reduction act, le aziende che vogliono attingere ai fondi federali devono produrre negli Stati Uniti e usare catene di approvvigionamento nazionali. Questa disposizione ha fatto arrabbiare gli alleati europei che vogliono vendere prodotti, come pannelli solari ed elettrodomestici efficienti, ai clienti statunitensi. Inoltre Biden ha mantenuto molti dei dazi imposti da Donald Trump sulle merci straniere e ne sta imponendo di nuovi sui veicoli elettrici a basso costo prodotti in Cina.

Questo protezionismo fa aumentare i prezzi per gli acquirenti statunitensi e rende il passaggio all’energia pulita più costoso e più lento del necessario. Se le auto e i pannelli solari più economici entrassero nel mercato statunitense, gli americani potrebbero allontanarsi più rapidamente dal carbone, dal petrolio e dal gas naturale”.

Questo testo è tratto dalla newsletter Americana.

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