Con la riapertura delle scuole si chiude la lunga, per alcuni genitori interminabile, stagione dei campi estivi. Abbiamo imparato che ce ne sono ovunque, e di tutti i tipi: campi per giocare, campi dedicati al teatro, a uno sport, all’apprendimento di una lingua. Un fine settimana di giugno ne è stato organizzato uno a McKellar, un paesino sperduto 250 chilometri a nord di Toronto, in Canada. I partecipanti, un centinaio di bambini e adolescenti, hanno fatto le classiche cose che si fanno con gli amici quando si è in mezzo alla natura: si sono rotolati giù per le colline, arrampicati, tuffati nel lago, hanno improvvisato un concerto con le posate durante il pranzo, finto che il terreno fosse ricoperto di lava, abbrustolito marshmallow sul fuoco. Hanno scoperto solo a un certo punto che tutti, compresi i volontari che li accompagnavano, erano lì perché stavano affrontando un lutto.
Camp Erin è il più grande programma del Nordamerica rivolto ai bambini e agli adolescenti che hanno visto morire un genitore, una sorella o un fratello. È nato circa vent’anni fa ed è attivo in tutte le città che hanno una squadra nella Major league, il campionato professionistico di baseball di Canada e Stati Uniti (uno dei fondatori, Jamie Moyer, ha giocato nel campionato). Il nome è un omaggio a Erin Metcalf, una ragazza morta nel 2002 a diciassette anni per un cancro ai polmoni. Quando Erin fu ricoverata perché la malattia era ormai in fase avanzata, la tormentava il pensiero che i giovani pazienti come lei e le loro famiglie, specialmente i fratelli e le sorelle, non avessero il supporto necessario. La sua riflessione ispirò l’idea di un campo del lutto, che prevedesse attività focalizzate sulle emozioni senza sacrificare però il divertimento e il gioco, che fosse gratuito e che durasse un fine settimana. Solo l’anno scorso, sono stati organizzati 45 di questi weekend in 34 luoghi diversi, coinvolgendo quasi 1.900 bambini e bambine e 1.300 volontari.
Il giornalista Mitchell Consky ha partecipato come volontario al campo di giugno a McKellar e descrive la sua esperienza sulla rivista canadese The Walrus. Qualche settimana prima della partenza lui e gli altri supervisori hanno seguito un corso di formazione tenuto da educatrici e psicologhe, in parte online e in parte in presenza. Un elemento su cui le insegnanti hanno insistito era di avere un dialogo onesto e non nascondere le proprie fragilità. Questo, hanno detto, avrebbe fatto sentire i bambini meno soli nella loro confusione. “Non è compito loro cominciare queste conversazioni”, ha precisato Andrea Warnick, psicoterapeuta, infermiera e tanatologa. “È una responsabilità degli adulti insegnare ai più piccoli che si può parlare di cose molto difficili come la morte”.
L’importante è usare le parole giuste. Meglio evitare eufemismi come “si è spenta”, “è passato a miglior vita” o “è scomparsa”, perché rischiano solo di aggiungere confusione (nella mente di un bambino, se qualcosa è scomparso può anche essere ritrovato). E anche le rappresentazioni rigide o superficiali: una folla in abiti neri, una bara bagnata dalla pioggia. Nicky Seligman, un’altra psicologa presente agli incontri di formazione, le ha definite “monodimensionali”. “Quando si lavora con l’infanzia, si tratta in buona parte di smontare queste immagini, e far comprendere che il lutto è un’esperienza dinamica, che matura nel tempo. Una bambina piccola che ha vissuto la morte del padre potrebbe non cogliere fino in fondo l’aspetto definitivo della morte. Lo capirà con l’età, e crescendo sentirà in modo diverso anche gli effetti dell’assenza fisica di un genitore”.
Attenersi a queste indicazioni non è semplice, commenta Consky. Gli adulti non sono molto capaci di gestire la morte di una persona a cui volevano molto bene. Un’indagine del 2019 condotta dal sito statunitense WebMD su persone che avevano vissuto da poco un lutto, rilevava che circa metà degli intervistati si era sentita in dovere di superarlo il più in fretta possibile, in due o tre mesi. Una sensazione comune tra gli adulti che sperimentano una perdita, e in parte anche tra i ragazzi e le ragazze più grandi, è quella che Warnick chiama “il buco nero”: l’idea che, se si attraversa tutta l’intensità del lutto, si viene inghiottiti completamente e si rimane bloccati. In realtà, ha detto la terapeuta, la vera trappola è questa paura di rimanere bloccati. Rifiutando la disperazione, si smorzano tutti i sentimenti: non si prova dolore, ma neanche felicità o gratitudine.
Per i bambini è diverso. Warnick ha paragonato il loro modo di vivere il lutto a una pozzanghera, qualcosa da cui è facile saltare dentro e fuori. I bambini, ha spiegato, possono passare bruscamente dallo strazio alla gioia, ed è un atteggiamento sano e normale davanti al caos del lutto, che non può essere un processo pulito e ordinato. Non significa che non abbiano momenti d’isolamento, rabbia, ossessione, depressione, incapacità di concentrarsi. Ma queste fasi negative spesso durano meno che negli adulti. Il motivo, per Warnick, è che durante l’infanzia si afferra più velocemente un concetto, e cioè che il dolore emotivo non resterà. Capirlo permette di sentire il proprio dolore e superarlo. “È una grande lezione che gli adulti possono imparare dai bambini”.
Un progetto simile a Camp Erin esiste anche in Belgio. Due giovani registi, Renate Raman e Joren Slaets, lo hanno raccontato in un breve documentario, intitolato Yaren en de zon (Yaren e il sole). Il film segue Yaren, dieci anni, e altri bambini orfani di un genitore mentre guadano un fiume, scherzano e si confidano. Potete guardarlo sul sito del New York Times.
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