Maslax Moxamed ha 19 anni, arriva in Italia dalla Somalia nell’agosto del 2016, passa due mesi a Roma, prima a via Cupa, nel quartiere San Lorenzo, dove incontra i volontari della Baobab experience, poi, dopo lo sgombero, segue i volontari nei diversi punti di accoglienza improvvisati in giro per la città. Una sera di ottobre prende un pullman per Milano da piazzale Tiburtino, e da Milano raggiunge il Belgio con un amico sudanese, Azou. Ma il 31 gennaio alle 22 atterra di nuovo all’aeroporto di Fiumicino a Roma. Le autorità lo hanno rimandato in Italia a causa del regolamento di Dublino, la legislazione comune europea che prevede che la domanda d’asilo sia esaminata dal primo paese d’ingresso in Europa.

La sua è la storia di un “dublinante”, cioè quella di un richiedente asilo che viene rimandato in maniera forzata nel paese di frontiera in cui ha lasciato le impronte digitali all’arrivo. Dopo una notte passata nel commissariato di polizia di Fiumicino, il 1 febbraio, Maslax Moxamed è trasferito in un centro di accoglienza straordinaria (Cas) a Pomezia, trenta chilometri a sud di Roma. Il 15 marzo è stato ritrovato morto nel parco di via Fiorucci a Santa Palomba vicino al residence 3C, dove era alloggiato. Maslax Moxamed si è impiccato. La sua salma è stata portata all’ospedale di Tor Vergata e per i volontari del Baobab che l’hanno conosciuto non è stato possibile portargli un omaggio. Quelli che hanno condiviso con lui i suoi ultimi mesi di vita lo ricordano con queste memorie e scendono in piazza il 25 marzo a Roma per denunciare la situazione in cui Maslax Moxamed è rimasto incastrato, e con lui migliaia di persone, vittime della miopia e del cinismo delle politiche europee sull’immigrazione.

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La sera che arrivò – mi ricordo, ci abbiamo anche scherzato – lui era convinto di essere arrivato in Germania, e poi ci chiedeva aiuto per arrivare a Malta, senza documenti. Perché gli avevano detto che da Malta poteva raggiungere gli Stati Uniti. Lui sognava gli Stati Uniti, prima di ripiegare sul Belgio dove aveva una sorella. Quando è partito per Milano con il pullman noi eravamo al Verano, perché da via Cupa ci avevano sgomberato, mi ricordo la faccia che aveva quando è partito, era allegro, molto più scafato di quando era arrivato. –Andrea Costa

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Io non l’ho conosciuto, ma c’è una cosa che mi è rimasta impressa, lui scriveva spesso – su Facebook o sui messaggi che mandava – slow life. Sentire dire queste parole a un ragazzo di 19 anni per me è spaventoso. Che significa slow life per un ragazzo come lui che ha fatto un viaggio così lungo, che ha attraversato la Libia? –Giampiero Obiso

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Parlava un inglese imperfetto, un broken English, come si dice, ma i suoi sorrisi e i suoi abbracci parlavano per lui. “I love you mamy”, diceva. Era un ragazzo alto e i suoi abbracci erano protettivi. –Miryam

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A ottobre abbiamo organizzato la Peace run, una gara podistica. La polizia è arrivata alle sette di mattina a via Tempesta e ha portato i ragazzi in questura a via Patini, per identificarli. Molti di loro, come Maslax, erano già stati identificati in un’altra retata, ma la polizia aveva sbagliato a scrivere il suo nome e quindi alla fine non è potuto venire alla corsa. Ci siamo fatti una foto con uno striscione contro il doping, prima che lo portassero in questura. La foto l’ha scattata un poliziotto. Alla corsa siamo andati in tre, alla fine. Maslax c’era rimasto male e io ho ritrovato un messaggio suo un mese dopo la corsa, un messaggio in cui mi chiedeva di mandargli le foto della gara. –Valerio Bevacqua

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Il policlinico di Tor Vergata ci dice che non possiamo vedere il corpo di Maslax perché è sotto tutela dell’autorità giudiziaria. Una tutela arrivata un po’ tardi. –Andrea Costa

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Gli amici ci hanno detto che da quando era tornato non stava bene, perché per lui era stato come ritornare indietro. Lui stava bene in Belgio, stava con un amico, con la sorella. Era stato lì due mesi e mezzo. Gli amici mi dicono che da quando era tornato in Italia non smetteva mai di pensare. Non riusciva ad accettare queste regole. Come uno che è arrivato ieri e che mi ha detto: “Ho chiesto alla polizia svizzera, perché mi rimandate in Italia? A questo punto mandatemi nel mio paese. Che cosa ho in Italia? Perché mi rimandate in Italia, perché ho dato le impronte? Cosa sono le impronte?”. –Miryam

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La storia di Maslax è la storia di tanti. C’è una ragazza eritrea a via Ramazzini che è tornata a Roma da una settimana dalla Danimarca per via del regolamento di Dublino. È una settimana che non mangia, tutta la comunità eritrea le si è stretta attorno. Molte persone che hanno problemi psicologici sono dublinanti. –Roberto Viviani

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Era una domenica di fine estate, le tende del Baobab erano state definitivamente sgomberata da via Cupa, nella lunga giornata del 30 settembre 2016. Era il periodo in cui la polizia interveniva quotidianamente per evitare quelli chiamavano “assembramenti”. Come se non bastasse, si vociferava di una “caccia al nero”, ovvero un comitato di cittadini era pronto a chiamare la polizia appena qualche migrante passeggiava per le vie del “loro” rione. La situazione era tutt’altro che idilliaca: c’era stanchezza, amarezza, tensione. Quella domenica, come tutte le domeniche di quei mesi caldi, era prevista la doccia settimanale dei ragazzi alla palestra popolare di San Lorenzo. Io, come altri volontari, sono andato fuori dalla sede di Sinistra italiana dove avevano trovato riparo i migranti in quelle notti senza né tetto né tenda, ed ero pronto ad accompagnarne quattro con la mia macchina, per evitare che la polizia o i solerti cittadini potessero intercettarli. Non ero di buon umore. Guardo i ragazzi uscire alla spicciolata, e tra loro c’era Maslax, che mi guarda con quel suo occhio chiuso, retaggio delle torture subite, e prima indica se stesso, poi indica me. Come a dire: “Vengo con te?”. Sorrideva apertamente. Sembrava felice, nonostante lo sgombero, la caccia all’uomo, il fatto di non sentirsi né sicuro né ben accetto. Quell’espressione, quel volto che si era illuminato vedendo me e la mia macchina, mi hanno subito dato forza: niente più stanchezza, niente più amarezza, niente più dubbi. Maslax sale in macchina, insieme a una donna e altri due ragazzi e mi dice: “Ferrari?”, probabilmente convinto dal colore rosso della mia comunissima Aygo. Ci siamo fatti una risata, gli ho detto che gliela avrei regalata quando avrebbe preso la patente in Italia, probabilmente non ha capito, ma continuava a ridere. È un ricordo che non posso dimenticare, perché quella mattina mi ha cambiato l’umore e le idee, ha cancellato il timore, mi ha dato forza semplicemente con la sua presenza, un gigante buono, che era semplicemente felice di fare meno di un chilometro a bordo della mia “Ferrari”. –Niccolò Ferrucci

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