“Se attacchiamo alle 7 non siamo sicure di staccare alle 14, spesso ci viene richiesto di fermarci anche nel pomeriggio, oltre l’orario stabilito”, racconta Marina Romoli (nome di fantasia), infermiera del pronto soccorso dell’ospedale Sandro Pertini di Roma. I turni sono sfiancanti e il pronto soccorso sempre più affollato. Romoli ha lavorato al pronto soccorso anche nei giorni della pandemia di covid-19, durante il primo lockdown, ma negli ultimi tempi la situazione è peggiorata.
“Lo scorso mese ho fatto 39 ore di straordinario, in media ne faccio fra le 30 e le 35 al mese. Le colleghe che sono in maternità o in aspettativa non sono state sostituite. Mancano almeno dieci persone nell’organico”, racconta l’infermiera, che confessa di non essere più in grado di conciliare la vita privata con il lavoro, avendo dei figli. “Non riesco a programmare le mie giornate, perché non sono mai sicura dell’orario di uscita dal lavoro”, racconta. “Amo la mia professione, ma sta diventando impossibile”.
Turni sfiancanti
La situazione nell’ospedale romano è complicata da almeno quattro mesi, in parte a causa della chiusura di quello di Tivoli dopo l’incendio dell’8 dicembre, in parte per la mancanza strutturale di personale che causa turni sfiancanti per i medici e gli infermieri in servizio, impegnati anche con un’ala del pronto soccorso dedicata al covid-19 che non è mai stata dismessa e che anzi nelle ultime settimane ha ricominciato a lavorare a pieno regime.
“Ci troviamo a lavorare solo in due lì, con momenti in cui ci sono sedici o venti pazienti in condizioni molto complicate dal punto di vista clinico, perché nel frattempo è stato chiuso il reparto”, racconta Romoli. Per l’infermiera, quell’ala del pronto soccorso si è trasformata in un reparto, perché i pazienti stazionano per molti giorni. “Non è facile trovare un posto letto in un reparto dedicato al covid-19 in questo momento”, afferma.
“A volte ti trovi nel turno di notte in dieci e ci sono magari trentacinque pazienti che stanno aspettando di essere visitati, alcuni da dieci o dodici ore. Ogni infermiere deve visitare anche quaranta persone durante il suo orario di lavoro. I pazienti sono sempre più arrabbiati, se la prendono con il personale, insultano gli infermieri”, racconta. Inoltre, i parenti non possono più entrare nel pronto soccorso, proprio a causa delle regole molto rigide introdotte dopo la pandemia di covid-19.
“Gli insulti sono all’ordine del giorno, poi qualche volta qualcuno alza anche le mani”, continua l’infermiera, che confessa che dopo la pandemia la situazione è addirittura peggiorata. “All’epoca della pandemia ci pagavano di più gli straordinari, poi ci hanno tolto anche quel tipo d’incentivi, ma le ore di lavoro e il sovraccarico è rimasto lo stesso”, conclude. Proprio qualche sera fa c’è stato l’ultimo episodio, racconta Lorena Magi (nome di fantasia), un’altra infermiera dello stesso ospedale.
Il parente di un paziente ha dato un pugno a un infermiere. “Se la prendono con il personale, perché non ricevono informazioni o perché aspettano per ore”, racconta Magi. “Le aggressioni sono all’ordine del giorno”, sottolinea. Di notte in astanteria ci sono solo due infermieri per una media di trenta pazienti, spiega. “Molti di loro sono anziani, non autonomi, con problemi psichiatrici”, denuncia l’infermiera, secondo cui c’è carenza anche di personale ausiliario.
“La maggior parte delle volte siamo quasi tutti di lunga (con un turno che va dalle 7 alle 20), perché mancando personale rimangono comunque dei turni scoperti, quindi spesso ci ritroviamo che la metà degli infermieri lavorano da moltissime ore. Quindi c’è tanto stress e anche il livello di attenzione cala”, conclude. Tuttavia, le molte segnalazioni della situazione alla direzione sanitaria non sono state prese in considerazione.
Pochi posti letto
L’ospedale Sandro Pertini di Roma, tuttavia, non è l’unico a trovarsi in questa situazione. In particolare durante le feste di Natale, gli ospedali del Lazio sono stati sovraffollati, con attese di ore e migliaia di pazienti in fila. L’8 gennaio c’erano 2.600 persone in attesa nei pronto soccorso della regione. Il 22 dicembre la consigliera regionale del Partito democratico, Eleonora Mattia, ha presentato un’interrogazione al governatore della regione Francesco Rocca, che ha la delega alla salute, per chiedere un piano urgente d’intervento per i pronto soccorso.
“Il sottodimensionamento d’organico nei pronto soccorso, nelle strutture sanitarie e perfino dei medici di base, che in genere fanno da primo filtro per le richieste dei pazienti, è un mix esplosivo sotto gli occhi di tutti e al centro dell’allarme lanciato spesso da più parti. Per esempio secondo il report della Fondazione Gimbe il Lazio, di questo passo, nel 2025 sarà la regione in Italia col minor numero di medici di base”, ha detto la consigliera Mattia in un’intervista con Fanpage.
Ma il fenomeno riguarda quasi tutte le regioni italiane: in parte è causato dalla mancanza di posti letto negli ospedali, in parte dalla carenza di personale e dai tagli ai servizi di assistenza di base distribuiti sul territorio.
“Il fenomeno del sovraffollamento dei pronto soccorso è evidente. Qualche giorno fa c’erano circa 2.700 persone nei pronto soccorso del Lazio, di cui il 50 per cento – parliamo di 1.100 o 1.200 persone – in attesa di un posto letto”, spiega Stefano Barone, infermiere e segretario provinciale del NurSind, l’organizzazione sindacale degli infermieri di Roma e provincia.
Molte di quelle persone non avrebbero dovuto stare al pronto soccorso, perché era già stato deciso in quale reparto mandarli. “Ma non erano stati trasferiti, perché il problema è l’assenza di posti letto”, continua Barone, secondo cui il problema non è il ritardo nell’avvicendamento dei pazienti, ma proprio l’insufficienza strutturale di posti letto negli ospedali rispetto alle richieste.
Un altro problema è la mancanza di servizi efficienti nel territorio: molte persone si rivolgono all’ospedale perché non hanno avuto risposte dai medici di base o dagli ambulatori: “L’ospedale rimane l’unico luogo di assistenza e cura. Il cittadino che ha un problema di salute si rivolge all’ospedale, invece che ai servizi di base. E questo causa sovraffollamento”.
Ambulanze ferme
Il sovraffollamento a sua volta produce una serie di conseguenze, che per esempio riguardano le ambulanze: “Il mezzo che arriva in pronto soccorso e trova una situazione di caos rimane bloccato, perché il paziente che è sulla barella dell’ambulanza non può essere preso in carico dall’ospedale. Quindi rimane sul mezzo, che non può ripartire. Abbiamo stimato che tra le 60 e le 65 ambulanze sono bloccate ogni giorno nei pronto soccorso del Lazio a causa di questo tipo di problema. Su circa duecento mezzi disponibili, sessanta rimangono fermi per ore”, dice Barone.
Poi c’è un problema di carenza strutturale del personale, soprattutto di quello infermieristico: “Purtroppo la pandemia non ha insegnato nulla. Avremmo dovuto capire che tante situazioni possono essere gestite diversamente. Siamo andati a casa delle persone, per evitare che venissero loro in ospedale a contagiare tutti quanti. Il covid c’è ancora, l’influenza c’è ogni anno. Quindi avremmo dovuto continuare a gestire così questo tipo di problemi. Se i pazienti con covid o influenza continuano a venire in ospedale è un problema. C’erano dei fondi del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) stanziati per questo, ma non è successo niente”.
Nel Lazio, secondo il sindacalista, mancano circa cinquemila infermieri per rispondere alle necessità, ma se poi si volessero sviluppare i servizi sul territorio e addirittura pensare a un infermiere di base, cioè una figura che possa fornire un’assistenza domiciliare per certi tipi di malattie, si dovrebbero assumere circa settemila nuovi infermieri.
“Un altro problema è che non solo il ruolo dell’infermiere non è pagato abbastanza, ma non è neanche riconosciuto. Basti pensare che in questa regione i colleghi del pronto soccorso devono ancora prendere i soldi di un’indennità di pronto soccorso prevista dalla legge di bilancio del 2021. Poi non c’è molta possibilità di fare carriera: il rischio è quello di rimanere a fare per tutta la vita le stesse cose”, spiega Barone.
“Se dovesse scoppiare un’altra pandemia ci ritroveremmo come prima, anzi forse peggio. Perché nel frattempo molti infermieri si sono licenziati, hanno cambiato lavoro oppure se ne sono andati all’estero, dove sono pagati di più e soprattutto sono più riconosciuti”, continua.
Promesse non mantenute
La pandemia ha creato un prima e un dopo, ma secondo il personale degli ospedali tutte le promesse fatte allora dalle istituzioni non hanno portato a niente. L’ultima legge di bilancio ha destinato al fondo sanitario nazionale 11,2 miliardi di euro per i prossimi tre anni. Ma secondo la fondazione Gimbe i fondi copriranno a malapena l’inflazione.
“Durante il covid ci raccontavano che eravamo degli eroi e questa cosa non ci piaceva, perché poi l’eroe di solito serve al martirio”, dice Carlo Torricella, infermiere e segretario territoriale del NurSind per la Asl Roma 2.
“Durante la pandemia siamo stati militarizzati perché c’era l’emergenza. Abbiamo lavorato anche sedici ore consecutive. Diciamo che questa sorta di autoritarismo in quella fase poteva essere comprensibile, però poi da quella fase non siamo mai usciti”, afferma Torricella, secondo cui “da gennaio a settembre 2023 nel territorio della Asl Roma 2 sono state fatte 280mila ore di straordinario. Ci sono infermieri con più di quattrocento ore di straordinari all’anno, pagate con i fondi già stanziati per i premi di produttività”.
“Durante il covid gli infermieri sono stati tolti dal territorio e dai poliambulatori per essere mandati in ospedale, perché c’era bisogno. Ma il punto è che poi non siamo tornati indietro. Sul territorio non ci sono infermieri e negli ospedali ci sono carichi di lavoro enormi”, conclude Torricella.
A livello nazionale le cose non vanno meglio: Lazio e Lombardia sono le regioni più in difficoltà dal punto di vista dei pronto soccorso, perché mancano i servizi territoriali di base, mentre in altre regioni, come Toscana ed Emilia-Romagna, le cose vanno meglio. Nel luglio 2023 la camera dei deputati ha aperto un’indagine conoscitiva sulla situazione della medicina d’emergenza-urgenza e dei pronto soccorso in Italia, durante la quale sono stati chiamati a parlare diversi esperti. La conferenza delle regioni a novembre del 2023 ha presentato un documento in cui formulava delle proposte per superare la situazione di crisi. Secondo la relazione presentata dalle regioni, in Italia mancano diecimila infermieri e 4.500 medici.
“La perdita quotidiana di personale nei pronto soccorso continua giorno dopo giorno, così come il ricorso alle esternalizzazioni che comportano un aggravio di bilancio sulle aziende e una netta riduzione della qualità di assistenza per i pazienti”, è scritto nella relazione. “Il ricorso alle esternalizzazioni ha un forte impatto negativo anche sul clima lavorativo, laddove vanno a coesistere professionisti pagati in maniera decisamente diversa”.
“Il problema si manifesta a macchia di leopardo”, spiega Andrea Fabbri, medico di pronto soccorso dell’ufficio nazionale della Società italiana medici di emergenza-urgenza (Simeu). “Ma possiamo affermare con certezza che il covid ha lasciato solo macerie nei pronto soccorso: le promesse sono rimaste tali. Se prima della pandemia mancava il 20 per cento dei medici, ora è il 40 per cento”, afferma Fabbri.
“Abbiamo cominciato a denunciare tutto questo già prima del covid, nel 2019. Soprattutto in alcune regioni c’erano i pronto soccorso in sofferenza. Ora la situazione è drammaticamente peggiorata. I pronto soccorso sono ridotti sul lastrico”, continua il medico. Le condizioni di lavoro sono pessime, le attese per i pazienti molto lunghe, manca un’organizzazione dell’intero sistema e sono anche aumentate le aggressioni contro i medici e gli infermieri. Tutto questo crea ambienti che non sono sicuri.
“Il pronto soccorso è il luogo in cui le persone vanno quando non hanno risposte dal sistema territoriale, creando un collo di bottiglia. Paragonata ad altri paesi europei, l’Italia ha un tasso altissimo di ricorso al pronto soccorso: un terzo degli italiani si rivolge a questo servizio. I pronto soccorso fanno venti milioni di interventi. Ma dovrebbero gestire le emergenze, non gli interventi ordinari”, conclude Fabbri.
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