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La politica chiude gli occhi di fronte alla violenza di genere

Klaus Vedfelt, Getty Images

Un anno fa il femminicidio di Giulia Cecchettin spingeva migliaia di donne in Italia a scendere in strada per denunciare la persistenza della violenza maschile contro le donne e la sua multiforme pervasività, usando uno dei versi della poeta e attivista messicana Susana Chávez Castillo, reso famoso dal movimento femminista globale: “Non una di meno”.

La sorella di Giulia, Elena Cecchettin, intervenendo pubblicamente individuava nel patriarcato, quindi in un sistema di potere storico, giuridico, culturale e politico che assegna alle donne un ruolo di subalternità, la radice culturale del femminicidio commesso dall’ex ragazzo di Giulia, Filippo Turetta, che non accettava di essere lasciato. Elena Cecchettin chiedeva alle altre donne di fare rumore e di non restare in silenzio.

Il padre, Gino Cecchettin, durante il funerale nominava il patriarcato nella chiesa in cui si stava svolgendo la funzione e chiedeva agli uomini di assumersi la loro responsabilità e cambiare. Nei mesi immediatamente successivi al femminicidio della ragazza, anche grazie al dibattito pubblico che ne è seguito e alle parole pronunciate dai familiari, sono aumentate le chiamate al 1522, il numero telefonico che offre aiuto alle donne vittime di violenza e che le mette in contatto con i centri antiviolenza. L’aumento delle chiamate è stato costante nel corso del tempo e il numero dei femminicidi è leggermente diminuito nell’ultimo anno, anche se continua a rimanere molto alto. Secondo il ministero dell’interno in Italia nel 2024 i femminicidi sono stati 98, 84 le donne uccise in contesti familiari o affettivi e 51 per mano del partner o dell’ex partner. Secondo l’osservatorio di Non una di meno, nel 2024 i femminicidi sono stati 104.

In occasione del primo anniversario della morte di Cecchettin, mentre il processo contro il suo omicida è in corso, la famiglia ha inaugurato la fondazione dedicata alla ragazza e alla lotta contro la violenza di genere. “La perdita di Giulia ha scosso le fondamenta della mia esistenza e mi ha spinto a un impegno incrollabile contro la violenza di genere”, ha detto Gino Cecchettin per spiegare la sua scelta. La fondazione è stata presentata ufficialmente il 18 novembre alla camera, nello stesso giorno in cui un anno prima la famiglia Cecchettin aveva ricevuto la notizia della morte di Giulia. Alla cerimonia erano presenti numerose autorità.

Ma l’intervento che ha fatto più discutere è stato quello del ministro dell’istruzione e del merito Giuseppe Valditara, che in un videomessaggio è sembrato rispondere alle affermazioni di un anno fa di Elena Cecchettin, negando l’esistenza stessa del patriarcato: “La visione ideologica è quella che vorrebbe risolvere la questione femminile lottando contro il patriarcato. Massimo Cacciari esagera quando dice che il patriarcato è morto duecento anni fa, ma certamente il patriarcato come fenomeno giuridico è finito con la riforma del diritto di famiglia del 1975, che ha sostituito alla famiglia fondata sulla gerarchia, la famiglia fondata sull’eguaglianza. Ci sono invece residui di maschilismo, diciamo di machismo, che vanno combattuti”.

Valditara ha poi aggiunto: “Non si può fare finta di non vedere che l’incremento dei fenomeni di violenza sessuale è legato anche a forme di marginalità e devianza in qualche modo discendenti dall’immigrazione illegale”. Le parole del ministro e l’associazione della violenza di genere con il fenomeno dell’immigrazione irregolare sono state rafforzate da quelle della presidente del consiglio Giorgia Meloni, che intervenendo sulle critiche scatenate da Valditara ha detto: “L’immigrazione illegale incide sulla violenza contro le donne insieme ad altre cause”. A lei e al ministro ha risposto Elena Cecchettin, chiedendo su Instagram: “Cos’ha fatto in questo anno il governo?”. E ancora: “Dico solo che se si ascoltasse, invece di fare propaganda alla presentazione della fondazione che porta il nome di una ragazza uccisa da un ragazzo bianco, italiano e ‘per bene’, forse non continuerebbero a morire centinaia di donne nel nostro paese ogni anno”.

Negazioni e contraccolpi

Il conflitto scoppiato tra la famiglia Cecchettin e il ministro Valditara testimonia la distanza abissale tra le affermazioni dei politici e la consapevolezza dell’opinione pubblica italiana sul fenomeno dei femminicidi, che sono solo la punta dell’iceberg di un sistema di sopraffazioni e violenze strutturali contro le donne. Ma mostra anche una sorta di backlash (contraccolpo) – come lo ha definito la giornalista statunitense Susan Faludi – all’affermarsi del femminismo in una parte dell’opinione pubblica mondiale. Un rapporto pubblicato il 15 novembre dall’ong Action Aid insieme all’osservatorio di Pavia si è occupato di registrare e misurare questa distanza.

Secondo lo studio Oltre le parole. Narrazione politica e percezione pubblica sulla violenza maschile contro le donne, il 94 per cento degli italiani e delle italiane (senza differenze di appartenenza politica) pensa che la violenza maschile contro le donne sia un tema importante e per il 74 per cento di loro questa è aumentata negli ultimi anni.

Inoltre, otto italiani su dieci ritengono che le leggi attuali non siano sufficienti per contrastare il fenomeno. Nonostante questo l’interesse sul tema da parte dei politici è molto basso: nell’ultimo anno meno dell’1,5 per cento dei post sui social network dei parlamentari, dei rappresentanti del governo nazionale e di quelli delle autorità locali si è occupato di violenza maschile contro le donne. La ricerca ne ha analizzati trecentomila.

Secondo lo studio, i politici parlano del fenomeno solo in occasione di ricorrenze come la Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza maschile sulle donne oppure quando avvengono episodi di cronaca nera eclatanti. Inoltre, due volte su tre a scrivere del tema sono le donne, anche tra le rappresentanti politiche.

La forza politica che ne parla di più è il Partito democratico (Pd), seguita da Fratelli d’Italia (FdI). Al terzo posto c’è il Movimento 5 stelle (M5s), e infine la Lega. “La comunicazione del governo su questi temi è scarsa”, si legge nel rapporto, “nonostante l’esecutivo abbia la responsabilità di promuovere e attuare le politiche a partire dal piano strategico nazionale contro la violenza maschile sulle donne”. Le più attive nella comunicazione sul tema sono state le deputate Stefania Ascari del M5s (con 98 post su Facebook e 102 su Instagram) e Martina Semenzato di Noi moderati (con 70 post su Facebook e 102 su Instagram).

Nella classifica dei politici che comunicano di più su Facebook e su Instagram su questi temi ci sono solo quattro uomini: Luca Zaia (Lega) su entrambi i social network, Francesco Emilio Borrelli (Alleanza verdi e sinistra, Avs), Matteo Salvini (vicepresidente del consiglio, Lega) soprattutto su Facebook e Matteo Piantedosi (ministro dell’interno) su Instagram.

“La comunicazione politica è concentrata sulla prevenzione del fenomeno, soprattutto dopo il femminicidio di Cecchettin, ma alcuni messaggi vanno in conflitto con quanto prescrive il protocollo di Istambul contro la violenza”, denuncia il rapporto. “Un messaggio su dieci risulta essere così poco chiaro da diventare fuorviante”, aggiunge.

“Si tratta di una confusione su definizioni e dati, oppure di sessismo benevolo, confusione sulle cause attribuite al contesto etnico, religioso o di provenienza dell’abusante, richiami ai problemi di sicurezza pubblica e delle strade, fino alla castrazione chimica come strumento di prevenzione delle recidive”, spiega lo studio. Nel corso dell’ultimo anno Giorgia Meloni ha parlato del tema sui social network solo quattro volte: in occasione del femminicidio Cecchettin, per la Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza maschile sulle donne con lo slogan #nonseisola e scrivendo dell’esistenza del numero 1522 per chiedere aiuto.

“Ancora una volta la violenza è ‘un affare da donne’, anche all’interno delle istituzioni. A partire dalla commissione femminicidio composta per l’89 per cento da donne”, denuncia Katia Scannavini, vicesegretaria generale di Action aid. “Per adottare norme in grado di trasformare davvero le cose, la classe politica deve diventare competente, indipendentemente dal genere o dal ruolo ricoperto. È quindi necessario formare correttamente coloro che scrivono le leggi e governano”, continua Scannavini, secondo cui sono necessari interventi strutturali, finanziati in modo adeguato e gestiti da personale qualificato. Inoltre, bisognerebbe introdurre l’educazione sessuale e affettiva nelle scuole.

Infine, second Action aid sarebbe necessario verificare il livello di formazione delle autorità e delle pubbliche amministrazioni per svolgere attività di prevenzione e assistenza su questo tema, com’è previsto dalla legge. Anche le parole non dette, i silenzi o le definizioni inesatte sono una forma di violenza, conclude il rapporto.

La violenza tra le più giovani

Secondo lo studio dell’ong, che ha usato anche lo strumento del sondaggio demoscopico, il 36 per cento delle donne italiane dichiara di aver subìto violenza verbale, psicologica o fisica da parte di un uomo nel corso della sua vita. Le più colpite sono le ragazze sotto i 25 anni, per le quali il fenomeno ha delle dimensioni allarmanti: quasi sei ragazze su dieci (il 57 per cento del campione) riferiscono di essere state vittime di qualche forma di violenza. È un numero molto più alto di quello rilevato nell’ultima indagine dell’Istituto nazionale di statistica (Istat). Un altro dato preoccupante è il fatto che le donne non denunciano, non chiedono e non ricevono aiuto: l’84 per cento tra quelle che hanno subìto violenza dichiara di non aver ricevuto o non aver cercato aiuto e sostegno.

Le ragioni, secondo lo studio, sono la vergogna, la mancanza d’informazioni su chi contattare, il timore di non ottenere l’aiuto necessario o la paura di ritorsioni da parte dell’autore della violenza. L’altro dato rilevante è che una schiacciante maggioranza degli uomini nega di essere parte del problema: l’84 per cento dice di non aver mai manifestato comportamenti violenti, né fisici né verbali, nei confronti di una donna.

Sia gli uomini sia le donne chiedono che ci sia più formazione e sensibilizzazione delle persone a partire dalla scuola (60 per cento), pene più severe per gli autori di violenza (54 per cento), più protezione e assistenza per le donne che hanno subìto violenza (51 per cento). Le persone che si dichiarano di destra o centrodestra tendono ad attribuire maggiore importanza a un approccio punitivo, in particolare sostengono con più forza l’introduzione della castrazione chimica per i colpevoli di violenza sessuale (41 per cento).

Il ruolo del web e degli influencer

Nella negazione e nel disconoscimento della violenza di genere da parte dei leader politici hanno un ruolo i mezzi d’informazione tradizionali, i cambiamenti delle piattaforme web, in particolare dei social network, e il loro effetto sulla formazione dell’opinione pubblica.

Da una parte, nella seconda metà degli anni duemila le femministe hanno usato il web e i social network per incontrare un pubblico che non si sentiva rappresentato nei mezzi d’informazione tradizionali. Ma dall’altra proprio queste piattaforme ora capitalizzano la frustrazione e il disorientamento degli uomini giovani con la diffusione di teorie misogine e mascoliniste, sfruttate anche da alcuni partiti politici, che attribuiscono alla diffusione del femminismo le cause del disagio di alcune parti della popolazione.

La femminista e scrittrice Jennifer Guerra, autrice del libro Il femminismo non è un brand (Einaudi 2024), approfondisce queste contraddizioni: “Valditara non può non riconoscere che ci sono i femminicidi proprio grazie ai movimenti femministi che negli ultimi anni hanno portato all’attenzione dell’opinione pubblica questo tema, ma poi li mette sullo stesso piano del bullismo, quindi nega l’origine patriarcale della violenza di genere”. In parte per Guerra la rinascita del movimento femminista globale ha a che fare con la diffusione delle piattaforme digitali, che hanno aperto uno spazio di discussione e rappresentazione su questi temi, esclusi dai mezzi d’informazione tradizionali. Il movimento #MeToo scoppiato alla fine del 2017 ne è un esempio.

“Il grande ritorno del femminismo sulla scena mondiale non sarebbe stato possibile senza internet”, spiega Guerra. “I social network hanno fatto arrivare alcune idee a persone che altrimenti erano fuori da questa discussione. Ma all’inizio degli anni dieci internet era molto diverso: frequentavamo soprattutto i blog e ancora era presente l’idea che la rete potesse essere libera, e non così influenzata dalle logiche del mercato e dagli algoritmi”, spiega Guerra.

“L’impatto del #MeToo su un’intera generazione di femministe è stato possibile anche grazie all’uso massiccio dei mezzi d’informazione digitali. Io per esempio non ho avuto una madre femminista, sono anzi cresciuta in un ambiente familiare e sociale molto chiuso”, racconta Guerra, che tiene una rubrica sul giornale online Fanpage e cura una newsletter su questi temi.

“I blog, le newsletter, i podcast e i profili sui social network hanno contribuito a far entrare nel senso comune i pilastri del femminismo, come l’idea che la violenza, le molestie, i femminicidi siano radicati nella cultura che assegna alle donne un ruolo di subalternità”, continua la studiosa.

Poi la rete è cambiata, si è piegata sempre di più a logiche commerciali, meccanismi poco trasparenti come gli algoritmi hanno cominciato a essere il vero motore dei social network e questo ha contribuito a snaturare e impoverire la discussione su questi temi e infine a polarizzarla.

“A un certo punto abbiamo proprio capito che il femminismo su internet si stava normalizzando, stava perdendo la sua carica sovversiva, ma questo in realtà aveva a che fare con il cambiamento delle piattaforme. Le aziende e il mercato hanno cominciato a rendersi conto dell’opportunità di appropriarsi del discorso femminista”, racconta Guerra, che al tema ha dedicato il suo ultimo libro.

“Un nuovo fenomeno che in parte discende da questo meccanismo è l’ascesa del mascolinismo e dell’antifemminismo, soprattutto tra gli influencer più giovani negli ultimi anni”, continua la studiosa. Nel suo libro del 2018 Empowered. Popular feminism and popular misogyny, la professoressa di comunicazione dell’università della Southern California, Sarah Banet-Weiser, ha avanzato l’ipotesi secondo cui l’ascesa del femminismo pop e della misoginia organizzata online, chiamata anche “maschiosfera”, fossero due movimenti paralleli, all’apparenza opposti, ma motivati da ragioni e istanze speculari.

Diverse ricerche sembrano confermare l’ipotesi di Banet-Weiser: il settimanale britannico The Economist ha aggregato dati provenienti da venti paesi con un’economia sviluppata, tra cui l’Italia, osservando come gli uomini giovani stiano diventando sempre più conservatori, mentre le donne giovani sempre più progressiste. Uno studio del King’s college di Londra, ripreso dal Guardian, ha rilevato come un giovane uomo su quattro sotto i trent’anni pensa che la vita sia più difficile per un uomo che per una donna. Il 16 per cento degli uomini nati tra la fine degli anni novanta e la metà del primo decennio del duemila pensa che il femminismo abbia causato più problemi che benefici.

“C’è un divario molto grosso tra ragazzi e ragazze”, spiega Guerra, “ed è un divario di genere che si può osservare molto chiaramente tra chi ha meno di vent’anni. Le ragazze e le giovani donne ritengono che la disuguaglianza e la violenza di genere sia un tema politico centrale, mentre i ragazzi e i giovani uomini stanno diventando molto conservatori. In passato ritenevano che il maschile tossico e il patriarcato fossero un problema anche per loro, ora invece si sentono delle vittime del femminismo. Sono bombardati dal messaggio che il femminismo gli abbia rovinato la vita”, conclude Guerra, che rileva questa polarizzazione anche su altre questioni politiche, come l’attenzione per la crisi climatica.

Anche Corinna De Cesare, giornalista e fondatrice del sito d’informazione femminista The Period, è convinta che tra i ragazzi la cultura patriarcale sia un problema: “Alcuni studi come quello della fondazione Libellula ci dicono che il 56 per cento degli adolescenti ritiene che la gelosia sia una manifestazione d’amore”.

Secondo De Cesare, c’è bisogno di “una rivoluzione culturale”, che però è ancora molto lontana. “Un testo come quello della linguista e femminista Alma Sabatini Il sessismo nella lingua italiana fu commissionato dal consiglio dei ministri nel 1989, invece ora siamo al punto in cui la presidente del consiglio Meloni ridicolizza l’uso del femminile per le professioni che sono tradizionalmente maschili. Questo significa che siamo ancora molto indietro”, continua De Cesare.

“I nostri contenuti arrivano a otto milioni di persone, le donne sono la maggior parte delle lettrici e appartengono a una fascia d’età che non supera i quarant’anni, perché nella stampa tradizionale questo tipo di persone non è rappresentato. Sui mezzi d’informazione è ancora predominante lo sguardo maschile, anche se le giornaliste sono ormai molte”, continua De Cesare, che sta lavorando a un podcast su questi temi.

Secondo la giornalista la situazione negli Stati Uniti e in Italia mostra un ritorno indietro su molte questioni: “Il 39 per cento della popolazione ritiene che una donna sia in grado di sottrarsi a un rapporto sessuale ‘se davvero non lo vuole’, il 15 per cento pensa che una donna che subisce violenza quando è ubriaca o sotto l’effetto di droghe sia in parte responsabile, il 7 per cento che di fronte a una proposta sessuale le donne dicono ‘no’, ma in realtà intendono ‘sì’. E i più giovani concepiscono le relazioni ancora in questo modo”, conclude De Cesare.

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