Quando Viveca Wallqvist ha telefonato la prima volta a un produttore locale di asfalto, ci è andata giù pesante. “Devo dirvi una cosa”, ha detto. “Il materiale che producete è molto duro, troppo duro. La gente si fa male”. I suoi commenti non sono stati accolti bene. “Pensavano ‘Chi è questa scienziata pazza?’”, ricorda. L’asfalto deve essere duro, dicevano. Qualche giorno dopo però l’azienda l’ha richiamata. È stato l’inizio di un viaggio che potrebbe reinventare il terreno su cui camminiamo.
La passione di Wallqvist è rara. Sono trascorsi più di duemila anni da quanto i romani hanno posato il primo pavimentum, il termine da cui abbiamo tratto il termine inglese pavement, marciapiedi. Da allora in pochi hanno messo in discussione il fatto che i marciapiedi su cui camminiamo sono in realtà delle estensioni della superficie stradale, realizzati con materiali le cui proprietà riflettono quasi esclusivamente i bisogno di veicoli trainati a cavallo prima e a motore dopo, e non quelli dei pedoni. Wallqvist, che è una chimica dei materiali al Research institutes of Sweden, a Stoccolma, è determinata a cambiare le cose.
Nel frattempo a Londra è in programma la costruzione di una gigantesca struttura di ricerca per testare nuove superfici più spugnose sui cui camminare. Si tratta del frutto dell’ingegno di Nick Tyler dell’University college London, anche lui convinto del fatto che i colpi che diamo sui marciapiedi ci danneggino. In media, sottolinea, una persona compie 200 milioni di passi nell’arco della sua vita e non siamo evoluti per farlo su superfici così dure.
Perciò, dopo aver atteso 2.300 anni l’arrivo di un evangelista del marciapiede, eccone spuntare due nello stesso momento. Questo potrebbe non significare molto. O magari è segno del fatto che i marciapiedi stanno per essere ripensati.
Il pavimentum è rimasta il culmine della tecnologia stradale fino al diciottesimo secolo, quando sono state costruite le prime strade moderne
I romani erano ingegneri meticolosi, famosi per il loro modo di costruire le strade. Dopo aver scavato per quasi un metro, collocavano delle pietre piatte in fondo, poi frammenti di pietre più piccole nella malta. Poi c’era uno strato compatto di cocci di terracotta e mattoni, frammenti di pietra e ghiaia, impastati con calce viva. In cima posizionavano pietre irregolari spesse circa 15 centimetri, il pavimentum. Questa è rimasta il culmine della tecnologia stradale fino al diciottesimo secolo, quando sono state costruite le prime strade moderne. Solo nel diciannovesimo secolo però gli ingegneri hanno iniziato a introdurre delle vere innovazioni.
Nel 1820 l’ingegnere britannico Thomas Telford raccomandava di coprire la superficie delle principali strade di Londra con lastre di granito. Tuttavia zoccoli e ruote sul granito creavano un frastuono infernale e all’inizio degli anni quaranta dello stesso secolo i commercianti della trafficata Oxford Street facevano petizioni per avere delle strade in legno, così da poter sentire i loro clienti. Non erano i soli. Negli Stati Uniti a Minneapolis si stendevano blocchi di cedro e a Ohama blocchi di cipresso. “All’inizio del ventesimo secolo Lower Manhattan aveva una rete di strade in legno”, afferma Robin Williams, storico dell’architettura e dell’urbanistica del Savannah college of art and design, in Georgia. “È sconvolgente, ma aveva un senso. In questo modo c’era silenzio per banche e piazze di scambio”.
Tuttavia la pavimentazione stradale in legno aveva delle controindicazioni. Quando le strade erano bagnate o ghiacciate i cavalli rischiavano di cadere e si deteriorava in meno di cinque anni. L’alternativa principale era il macadam, chiamato così in onore del suo inventore, lo scozzese John Loudon McAdam. Steso per la prima volta negli anni venti dell’ottocento nei dintorni di St. James’s square a Londra, consisteva in diversi strati di pietre e ghiaia per il drenaggio, ricoperti da pietre frantumate. “Le pietre dovevano entrare facilmente in una bocca, una misura molto umana”, afferma William.
Strade in macadam fatte male continuavano però a trasformarsi in pantani di fanghiglia collosa ed escrementi di cavallo. La soluzione si è trovata con l’aggiunta dell’asfalto (una forma semisolida di petrolio noto anche con il nome di bitume) per creare una superficie liscia e super assorbente, il macadam al catrame. Nonostante ciò la metà circa delle strade nelle città del diciannovesimo secolo, votate al progresso, continuavano a non essere asfaltate. “La pavimentazione stradale era costosa”, spiega Williams. A Savannah si sono persino sperimentati i gusci di ostrica, che tagliavano i piedi ma erano molto meno costosi delle alternative. C’erano anche strade di mattoni vetrificati, blocchi di granito, ciottoli, macadam e asfalto, un tipico miscuglio del tardo diciannovesimo secolo.
Nel ventesimo secolo l’asfalto è gradualmente diventato il materiale preferito. In un primo tempo, negli anni novanta dell’ottocento, ha preso piede negli Stati Uniti, in concomitanza con la produzione di massa di biciclette e la campagna per avere strade dalla superficie liscia lanciata dalla League of American wheelmen, un’organizzazione di ciclisti. Nel 1901 la ricetta del macadam al catrame è stata perfezionata con l’aggiunta di pietrisco angolare a incastro, o aggregato. A partire dagli anni venti, con l’ascesa delle automobili, l’asfalto è diventato il materiale dominante perché consentiva un’accelerazione morbida, mentre le ruote delle automobili giravano sulle superfici in macadam e le distruggevano.
Pedoni ai margini
Tutte queste innovazioni non prendono quasi in considerazione i pedoni. Per gran parte della storia hanno dovuto condividere la strada con altri utenti della carreggiata. I marciapiedi hanno fatto la loro comparsa a metà del diciannovesimo secolo sulle strade più trafficate di Londra. All’inizio a distinguere il passaggio pedonale dalla strada c’erano solo dei paletti verticali, ma nel 1881 si intravede qualcosa di simile ai marciapiedi di oggi, con lastre di granito e calcare utilizzate per elevare i pedoni rispetto alla superficie stradale. Nonostante ciò gli ingegneri hanno quasi completamente trascurato le esigenze dei pedoni. Da allora secondo Tyler le cose non sono migliorate di molto. “I percorsi pedonali sono poco ragionati”, afferma. “Sono lo spazio che intercorre tra il pezzo di strada con il traffico e gli edifici, su cui invece si ragiona moltissimo”.
Anche se le strade urbane moderne hanno solitamente i marciapiedi, secondo Tyler questi ultimi sono realizzati in materiali inappropriati. Ce l’ha in particolare con l’utilizzo comune del calcestruzzo, un composto super duro di cemento, acqua e sabbia, ghiaia o pietra. “La specie umana non si è evoluta per camminare sul calcestruzzo”, afferma. “Ci siamo evoluti per camminare nella savana”. Per questo motivo, spiega, gli spietati marciapiedi sono responsabili dell’aumento di protesi delle ginocchia o dell’anca, oltre che di danni cumulativi a cartilagini, tendini e ossa. Da un punto di vista intuitivo questo ha un suo senso, ma le prove sono poche. “È una cosa molto difficile da studiare”, afferma l’antropologo Daniel Lieberman dell’Università di Harvard. Tyler però ci sta provando.
Al momento il suo gruppo sta lavorando su uno studio pilota per comparare che effetto ha camminare su diverse superfici, tra cui il calcestruzzo e il materiale utilizzato per la pista di atletica delle Olimpiadi di Londra, che sotto la superficie ha due strati di gomma vulcanizzata che ne accresce la cedevolezza. Saranno testati più di 100 volontari che percorreranno 700 volte su e giù diverse strisce e saranno equipaggiati con sensori di pressione e accelerometri. I risultati saranno immessi in un modello progettato per simulare le camminate nell’arco di una vita e sviluppato dagli scienziati dell’università di Aalborg, in Danimarca. “Metteremo i dati in un modello per vedere cosa succede alla cartilagine del ginocchio dopo 200 milioni di passi”, dice Tyler.
Questo è solo l’inizio. La squadra è in attesa della costruzione di una struttura di ricerca da 50 milioni di dollari a Londra, che si estenderà di quattromila metri quadrati con 600 metri quadrati di spazio dedicato alla pavimentazione che potrà essere riconfigurato con materiali diversi. Tyler l’ha definita un set cinematografico scientifico. Quando sarà aperta, alla fine di quest’anno, sarà possibile costruire strade lunghe 100 metri e studiare in che modo folle composte anche da 500 persone interagiscono con l’ambiente urbano. “Si lavora molto sulla progettazione dei materiali per le strade, ma l’unica questione ingegneristica che ci si pone sui passaggi pedonali è quanto possano essere pesanti i veicoli che sono in grado di sostenere. Non ci si interroga su quale debba essere la loro frizione o la loro spugnosità”, dice Tyler. Progetta di collocare un materiale più morbido e spugnoso all’ingresso della struttura, così i politici e gli altri visitatori potranno sperimentare la differenza. “Non credo esista un solo politico al mondo ad averci pensato”, dichiara.
Wallqvist è giunta per conto suo a conclusioni simili. “È stato tutto sbagliato sin dall’inizio”, osserva. Asfalto e calcestruzzo sono fatti per le automobili. “Sono durissimi. Perché dovremmo camminarci sopra?” Oltre al danno cumulativo che provocano, a preoccuparla sono le cadute. Una ricerca pubblicata nel 2020 ha rilevato come in Svezia le cadute rappresentino il 45 per cento di tutti gli infortuni. Tra gli adulti più anziani, più del 60 per cento delle cadute avviene su percorsi pedonali. Inoltre, più del 30 per cento del danno provocato a una persona investita da un’automobile è dovuto all’impatto con l’asfalto. E l’impatto con la superficie è la principale causa degli infortuni di ciclisti non provocati da collisione.
Wallqvist ha deciso di far qualcosa. Negli ultimi anni ha lavorato con le aziende produttrici di asfalto per sviluppare un asfalto più morbido sostituendo l’aggregato duro con gomma ricavata da pneumatici fatti a pezzi. “Ha un’ottima morbidezza”, dice. È anche abbondante, visto che gli pneumatici di gomma che vengono smaltiti in un anno sarebbero sufficienti a ricoprire l’intera superficie della Francia. Nel 2017 Wallqvist e i suoi colleghi hanno pubblicato i risultati del primo test di varie formulazioni del loro asfalto più morbido. Oltre a essere migliore in caso di impatto, l’aggiunta di gomma ha anche ridotto la formazione di ghiaccio, un problema serio in Svezia. In una miscela è stata aggiunta persino silice fosforescente che la faceva brillare di sera.
Marciapiedi più morbidi
Da allora questo asfalto più elastico è stato steso su una piccola pista forestale nei pressi di Uppsala, in Svezia, dove pedoni e ciclisti possono testarlo. Un’azienda che produce asfalto prevede di utilizzarlo per ricoprire una striscia di una trafficata strada di Lund, sempre in Svezia. “Dal nostro punto di vista questo materiale più morbido dovrebbero essere lo standard per ogni percorso pedonale e pista ciclabile”, afferma Wallqvist. Suggerisce che per iniziare l’asfalto con l’aggiunta di gomma potrebbe essere utilizzato per pavimentare le aree esterne agli ospedali. Queste nuove superfici potrebbero davvero cambiare la vita delle persone anziane che evitano di camminare per paura di un incidente, aggiunge.
Ripensare ai marciapiedi potrebbe contribuire inoltre ad affrontare il problema della “povertà di marciapiedi” in luoghi in cui i veicoli hanno la priorità sui pedoni. Aumentare l’accesso a marciapiedi sicuri potrebbe generare grandi benefici per la salute, non solo nei paesi a basso reddito, ma anche negli Stati Uniti. Più del 30 per cento degli adulti in 122 paesi - e quasi la metà negli Stati Uniti - è fisicamente inattivo e le ricerche dimostrano che superfici dure e lastricate scoraggiano le persone dal camminare. “Ci siamo evoluti per essere fisicamente attivi; quando non lo siamo cresce la nostra vulnerabilità a una vasta gamma di malattie”, afferma Lieberman. Tra queste il diabete di tipo 2, l’osteoporosi e le malattie cardiache. L’attività fisica inoltre migliora la salute mentale, l’umore e la memoria.
I potenziali benefici di una rivoluzione nella costruzione dei marciapiedi sono evidenti. Nonostante ciò Tyler ammette che i costi rappresentano un ostacolo. La sua superficie da pista di corsa olimpica costa circa 34 dollari al metro quadro. Il calcestruzzo costa solo 5 dollari al metro quadro e, per quanto brutto possa essere, dura moltissimo. Naturalmente bisogna considerare i costi per la salute provocati da una pavimentazione stradale scadente. “Il calcestruzzo a basso costo diventa molto costoso se si considerano anche gli infortuni che provoca”, osserva Tyler. C’è tuttavia anche un altro costo nascosto: la produzione di calcestruzzo è un’enorme fonte di anidride carbonica. Se l’industria del cemento, che produce l’ingrediente principale del calcestruzzo, fosse un paese, sarebbe il terzo produttore di anidride carbonica al mondo, dietro Cina e Stati Uniti. Nel 2015 ha generato circa 2,8 gigatonnellate di CO2, l’8 per cento del totale a livello globale.
Al contrario, l’approccio di Wallqvist ha dei benefici per l’ambiente. Non solo la gomma utilizzata proviene da pneumatici riciclati, ma includendola nella miscela è possibile abbassare la temperatura richiesta per la posa dell’asfalto, riducendo il consumo di energia e generando meno fumi. La formula attuale contiene il 60 per cento circa di gomma, ma Wallqvist non ha ancora finito di innovare. “Stiamo cercando di includere una percentuale ancora maggiore di gomma. Più ce n’è meglio è dal punto di vista delle proprietà di assorbimento degli impatti e di prevenzione degli infortuni”, dice.
Il lavoro di Tyler è ancora in una fase sperimentale e, secondo le sue previsioni, il problema principale sarà la resistenza. “Come otteniamo robustezza senza rendere il materiale duro’ Ecco la vera sfida”, afferma. Si interroga sull’utilizzo di materiali naturali come l’erba o la vegetazione. Li abbiamo abbandonati perché non resistono bene alla pioggia e all’usura. “Il sacro graal sarebbe utilizzare ciò su cui in realtà dovremmo camminare stando alla nostra evoluzione”, afferma Tyler. “Sarebbe un successo enorme, ma avremmo bisogno di un efficace sistema di fondamenta in grado di offrire un buon drenaggio”.
Di certo c’è che realizzare marciapiedi migliori è alla nostra portata. Dopo tutto è passato più di mezzo secolo dalla prima passeggiata sulla Luna. Quello è stato il culmine di un enorme sforzo tecnologico, perciò forse ci servono più ingegneri che si appassionino ai marciapiedi. “La pavimentazione dei percorsi pedonali rappresenta davvero la Cenerentola delle infrastrutture urbane”, afferma Tyler. Ma sappiamo tutti che alla fine Cenerentola visse felice e contenta.
Nati per correre, sull’erba
I nostri antenati si sono evoluti per camminare nella savana. “Camminavamo regolarmente già 5 milioni di anni fa”, afferma Madhusudhan Venkadesan dell’università di Yale. “Più o meno 2 milioni di anni fa c’è stato un secondo enorme cambiamento”. Siamo diventati corridori di lunga distanza, e questo ha determinato una serie di cambiamenti fisici.I nostri piedi probabilmente sono diventati più rigidi e più in grado di assorbire i colpi, le nostre dita dei piedi si sono accorciate per essere meno vulnerabili alle fratture provocate dalla tensione. Il nostro arco plantare funziona come una molla per la corsa. E il calcagno sporge per consentire una maggiore leva muscolare grazie al tendine di Achille che connette il muscolo del polpaccio all’osso. “I cambiamenti interessano tutto il corpo, persino i muscoli del collo e la posizione della testa”, afferma Venkadesan, che studia la biomeccanica del movimento animale.
Tenuto conto di questa eredità, alcuni ricercatori ritengono che correre - o anche solo camminare - per una vita su superfici dure possa provocare dei danni cumulativi ai nostri corpi. I danni provocati nell’arco di una vita sono difficili da dimostrare, ma Isabel Sacco dell’università di São Paulo, in Brasile, ha dimostrato assieme ai suoi colleghi in che modo le moderne superfici dure possono provocare infortuni.
Hanno misurato la pressione esercitata dai piedi su volontari che facevano jogging sull’asfalto, sul calcestruzzo, sulla gomma e sull’erba naturale. Rispetto alle superfici dure, l’erba generava picchi di pressione tra il 9 e il 17 per cento inferiori sulla parte posteriore del piede e tra il 5 e il 12 per cento inferiori nella parte anteriore. Forse non sembrerà molto, ma i benefici potrebbero essere enormi. “L’incidenza annuale di infortuni legati alla corsa per corridori di lunga distanza può raggiungere il 79 per cento”, afferma Sacco. “Uno dei fattori di rischio più noti degli infortuni legati alla corsa è dato dalla superficie su cui si corre”.
(Traduzione di Giusy Muzzopappa)
Questo articolo è uscito sul settimanale britannico New Scientist.
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