Questo articolo è stato pubblicato il 4 febbraio 2000 nel numero 320 di Internazionale.

Come tante spedizioni del passato, anche questo viaggio a Tombouctou è cominciato come un sogno impossibile, un sogno concepito a tarda notte dai poeti Chenjerai Hove, dello Zimbabwe, e da Breyten Breytenbach, sudafricano. Hanno immaginato dei poeti in marcia lungo l’antica strada per Tombouctou. Come innumerevoli carovane di cammelli prima di loro, i poeti avrebbero vagabondato, si sarebbero fermati negli antichi luoghi di sosta per avere acqua e alloggio e avrebbero recitato le loro poesie insieme ai griot, i cantastorie locali.
Dopo anni passati a fare progetti su progetti, il giorno della Carovana della poesia si è finalmente materializzato. E come nelle spedizioni del passato, questo viaggio è stato afflitto dalla mancanza di soldi, dai cambiamenti all’ultimo minuto, da capi esigenti, malattie, lotte intestine. E puntellato da un entusiasmo totale, assoluto.

18 OTTOBRE 1999. Da Dakar arriva la richiesta di un certificato di vaccinazione. Vado a Città del Capo, nell’ambulatorio dell’Ufficio per i viaggi in Africa. Quando la dottoressa vede la parola Mali fa un fischio, apre vari cassetti e ammucchia sul tavolo gli antidoti: febbre gialla, meningite, epatite B, epatite A (ce ne sono due?), rabbia, difterite, gammaglobuline, tifo, tetano, poliomielite. Me ne vado con tre iniezioni in un braccio, due nell’altro, una nel didietro, una zanzariera, insettifughi, pasticche contro la diarrea e la malaria, antibiotici e storie d’orrore. Farfalline nere che preferiscono la gola e la pelle sottile intorno alle ossa del collo: non appena toccano la pelle si disintegrano lasciando grosse vesciche nere. Farfalline che depongono le uova nelle mutande e nei calzini lasciati ad asciugare accanto al lavandino. Uova da cui escono larve che penetrano nella pelle, e te ne accorgi soltanto quando la pelle comincia a squamarsi. Niente insalata, assolutamente niente insalata. Niente acqua. Niente acquisti dai locali, il cibo deve essere sempre “caldo bollente”. E naturalmente niente sesso, aggiunge la dottoressa con un brivido.

Ricordo che quasi tutti i libri trovati sulle bancarelle che parlavano di viaggi a Tombouctou finivano con queste parole: “Arrivò sulla costa occidentale dell’Africa intorno al maggio 1880 e di lui non si seppe più niente”. Lascio il Sudafrica col cuore tremante.

Eravamo nove poeti. Abbiamo viaggiato in pullman, in treno, in barca e, nel deserto, in jeep.

24 OTTOBRE 1999. Cominciamo il nostro viaggio a Gorée, l’isola degli schiavi: la porta da cui non c’è ritorno. Le parole si ritraggono nell’attraversare la porta, dice Thierno Seydo Sall, il poeta del Senegal. Noi raccogliamo le parole e le riportiamo di nuovo oltre la soglia. Ricordiamo quelli che videro andare il loro corpo in una direzione e la loro anima nell’altra, dice Were Were Liking del Camerun. Stiamo tornando per trovare l’equilibrio fra il corpo e la direzione del desiderio, perché quello è il punto dove si può cominciare a danzare.

Nella sua veste ondeggiante, il vecchio poeta del Mali Albecaye Ousmane Kounta ci ammonisce: il cantastorie è la doppia ombra della gente, è la parola e il viaggio della parola; noi siamo soltanto gli uccelli venuti da tutta l’Africa per vedere passare la parola, per mangiare la parola, per trasformare la spada in parola, la parola collettiva in viaggio per Tombouctou, città conquistata sette volte.

Ci vuole un po’ di tempo per lasciare Dakar. Interi quartieri sono stati allagati durante la stagione delle piogge, le capre sono rimaste a belare sul tetto delle case. Per andare al lavoro o al mercato la gente guada tranquillamente le strade. Il pullman dà un colpo di clacson. Sentiamo uno scricchiolio sotto le ruote. Un’anatra. “Le sacrifice!”, tuona ispirato il poeta senegalese, “ora gli dei ci proteggeranno”.

Were Were Liking è seduta davanti con il suo bastone imperiosamente piantato per terra. In cima al bastone una figura femminile scolpita nel legno, con seni duri e adirati e corna che bucano il tettino di plastica del pullman. Dentro è fresco, fuori fa un caldo soffocante. Quando ci fermiamo due poeti, il fotografo, il dottore, il tecnico del suono e il contabile si inginocchiano verso la Mecca.

Kaolack è la prima fermata. Dobbiamo salutare i poeti locali e chiedere simbolicamente la benedizione per il cammino che ci aspetta. La città ha un cantastorie donna. Nell’accecante calore di mezzogiorno getta indietro il suo corpo come una sciabola e le sue grida sovrastano i tamburi.

Non è solo la parola, ma il viaggio della parola. Viaggiare verso la parola, e viaggiare a occhi aperti

Mangiamo in un ristorantino locale gestito da un libanese con la voce dolce e da sua sorella, arcigna e sudata. Dopo aver fatto la fila per il bagno vedo che mi sono cominciate le mestruazioni, e tutte le mie cose sono in una valigia sopra il pullman. Imbocco una strada brulicante e trovo un negozio con un vecchio barbuto e ammantato in un lungo caffettano. Non parla una parola d’inglese. Indico il mio pube e disegno un assorbente sul bancone, ma lui mi fissa senza capire. Disperata, vado dietro il bancone e indico dell’ovatta facendo gesti di ogni tipo finché qualcuno dei presenti non grida qualcosa che lui sembra capire. Incapace di nascondere la sua furia, tira fuori un pacchetto di Kotex da un mucchio di stoffa e lo avvolge in così tanti giornali che mi sembra di aver comprato tre paia di stivali. Armata di questo pacchetto mi rimetto in fila davanti al bagno.

Dopo pranzo chiedo al proprietario libanese perché resta in questa città. “Sono cresciuto qui”, mi risponde. “Mio padre aveva un negozio”. Ma perché non parte, perché non va in qualche altro posto? Mi guarda con occhi che brillano di caldo, umidità e desiderio: “La gente è gentile qui…”. Io continuo a guardarlo. “Dove potrei andare? Chi mi accetterebbe… chi ci accetterebbe, noi libanesi?”.

Non è solo la parola, ma il viaggio della parola. La traccia della parola. Il colore di quella traccia. È anche viaggiare verso la parola, e viaggiare a occhi aperti.

26 OTTOBRE 1999. Sì, abbiamo ricevuto pane e acqua a Kaolack, e per la carne, il tè e canti sfrenati ci siamo fermati a Tambacounda. Questa città è il crocevia di molte lingue e culture. E quindi, diversi modi di trasmettere la parola ci vengono offerti da una serie di cantastorie, poeti locali, gruppi di musica e danza.

Sopra il palcoscenico improvvisato sulla sabbia sorge la luna piena.

A mezzogiorno attraversiamo la frontiera tra il Senegal e il Mali. Aspettiamo per ore alla dogana, in un posto assolutamente desolato. La gente se ne sta seduta al caldo. Non sta seduta a sventolarsi, o seduta a leggere, o seduta a parlare, o seduta ad ascoltare la radio, o seduta a lavorare. Sta seduta e basta, con occhi limpidi e sereni come se potessimo attraversarli a piedi. Un ratto è in decomposizione accanto a dove compriamo il pane, con una zampa rossa piena di vermi. Dal bancone si leva un velo di mosche. Non è affatto il cuore di tenebra, ma piuttosto il cuore di vaffanculo tutto e tutti. Il contabile dell’istituto si rifiuta di corrompere i funzionari, perciò aspettiamo. Loro aspettano nei loro uffici vuoti. Vogliamo tutti vincere la gara dell’attesa in questo paese senza alcol. Col tempo e il caldo il posto di frontiera con la gente che aspetta diventa il cuore della disperazione. Ma poi arriviamo a Kayes. Ci offrono del latte e delle noci di cola a Kayes, dove la cantastorie principale, Amy Diarra, ha trasformato la sua sedia a rotelle motorizzata in un aggraziato strumento. Con un microfono in una mano, mentre l’altra è impegnata a manovrare le leve, scivola sul palcoscenico cantando note che sembrano lunghi guanti di seta. Dietro di lei c’è una donna anziana, il volto di un vulcano scavato che grida le antiche grida rabbiose di Kayes.

27 OTTOBRE 1999. A Kita incontriamo i griot nella sede della loro associazione locale, che si chiama Le Vestibule de la Parole. L’Atrio della Parola che si affaccia sulla Montagna che Parla. Ci togliamo le scarpe e ci sediamo sui tappeti.

Nell’Africa occidentale i griot sono un gruppo, o una casta. Ogni città, ogni famiglia ha i suoi cantastorie. Griot non si diventa: in questo gruppo di poeti, artisti e interpreti si nasce, e tecnicamente è impossibile lasciarlo. Salif Keita appartiene a questa casta. Fra le caste più importanti ci sono la classe politica e quella intellettuale: quest’ultima è un gruppo molto potente e ha il compito di consigliare la classe politica. Che ha quindi l’onere di fornire l’assistenza finanziaria necessaria per fare studiare i membri più promettenti della casta intellettuale. Altre caste ancora sono quelli che lavorano con l’oro, con i pesci, quelli che costruiscono, lavorano la terra eccetera. La formazione avviene in famiglia. Il poeta insegna a suo figlio, il giudice al suo, l’orefice al suo eccetera.

Noi siamo i Guardiani della Memoria, dicono i griot. Se mettiamo le parole sulla carta bruciamo la memoria vivente. Viviamo del pane quotidiano della memoria. Veniamo pagati quando cantiamo e recitiamo alle cerimonie, alle nascite, alle morti. Mangiamo la parola quotidiana che pronunciamo, perché portiamo tutta la storia del Sudan nelle nostre bocche.

La parola in se stessa è una cultura di grazia. Siamo i carpentieri della memoria, la dignità umana della parola, la nobiltà della parola. Il posto della parola in questa Casa, in questa Città di Sabbia e di Vento. Noi siamo i Padroni – non della creazione, ma della trasmissione dell’anima.

4 NOVEMBRE 1999. Ultimi giorni della carovana. Prima di Tombouctou c’è un’isola deserta dorata. Saltiamo in acqua dalla lunga barca di legno con cui abbiamo solcato il maestoso Niger per quattro giorni. Dune d’ambra, acqua inviolata. Accanto alle dune Albecaye, Muntaga e Tidiane si inginocchiano in direzione della Mecca fra il turbinio delle loro vesti blu. Blu è il colore del deserto. Il blu cobalto dei tuareg. Quando si raddrizzano, sulla fronte hanno una macchia bionda di sabbia. È un momento magico. Improvvisamente sento la profonda esigenza di un rito. Ma la mia storia mi ha lasciato soltanto visioni di bandiere che si alzano, salve che vengono sparate e croci piantate. Perciò noi non musulmani stappiamo una birra e fumiamo l’ultima Marlboro.

Tombouctou: luogo di sapere, di pace, di cultura, ma soprattutto sogno di ricchezza senza limiti

Dopo quasi due settimane siamo arrivati nella città dove il nord incontra il sud, il deserto incontra l’acqua, i nomadi incontrano i padroni della terra, i venditori incontrano i compratori. In questo luogo, chiamato il Pozzo dello Schiavo Bouctou, soffia la sabbia più fine. Compriamo della stoffa blu da turbante per coprirci la faccia. Le giornate scorrono fra sogno e realtà. Tutto sembra reale e surreale. La città di Al Farouk, il Guardiano di Tombouctou. Di notte vaga per le strade con una veste bianca e lunghi veli bianchi, su un cavallo bianco con briglie e sella bianche. Blocca ogni male sul nascere. Stabilisce la differenza fra il bene e il male.

Con i griot e gli imam esploriamo il linguaggio di Tombouctou, città dai due passati: il mito occidentale e la realtà africana, l’avidità e la saggezza. Per secoli Tombouctou è stata il punto focale di due nature divergenti: il sogno occidentale che fosse il luogo dove ogni bramosia di ricchezza sarebbe stata appagata; la memoria africana della sede di ogni conoscenza, della saggezza e dei miracoli dei Santi.

Il nome di Tombouctou era già conosciuto al di fuori dell’Africa prima del Medioevo e già allora era legato alla ricchezza. Nel 1324 una carovana di Kanka Musa, l’imperatore del Mali, si fermò al Cairo durante il viaggio per la Mecca. Era una carovana che non aveva confronti con nessun’altra cosa vista in Egitto prima di allora. Al Cairo i mercanti di altre parti del mondo ammutolirono dinanzi allo sfoggio di ricchezza di quell’immensa carovana: gli abiti e i gioielli spettacolari, i finimenti dei cammelli e del bestiame e, naturalmente, l’oro. Tutto questo veniva da Tombouctou.

Da allora e fino al Quattordicesimo e Quindicesimo secolo il nome di Tombouctou dominò le fantasie dell’Occidente. Era la quintessenza di tutti i misteri, di tutti i segreti, la parola che esprimeva la lontananza e l’isolamento al di là dell’esperienza. Chiusa su un lato da un oceano di sabbia dove migliaia di cammelli scomparivano nelle tempeste, con le loro ossa a segnare la strada fra un’oasi e l’altra; e sul lato opposto i laghi e le paludi fumanti che divennero celebri come la Tomba dell’Uomo Bianco.

Era protetta dalla natura come un gioiello: luogo di sapere, luogo di pace, luogo di cultura, luogo di esotica raffinatezza, ma soprattutto sogno di ricchezza senza limiti. Tombouctou, un luogo diverso da ogni altro. Nel corso dei secoli la sua ricchezza venne invariabilmente descritta con dettagli amorosi. Ma la sua posizione sulla mappa restava imprecisa. Ci volle molto tempo perché gli esploratori riuscissero a collocare Tombouctou accanto al percorso misterioso del Niger.

Eppure erano in molti a conoscerne il nome, perché Tombouctou entrò nella cronaca nel 1526, quando Leone Africano scrisse: “Il ricco re di Tombuto ha molti piatti e scettri d’oro, alcuni dei quali pesano mille e trecento libbre. E ha una corte magnifica, sontuosa… con gran folla di dottori, giudici, sacerdoti e altri sapienti, generosamente mantenuti a spese del sovrano… E qui vengono portati numerosi manoscritti dalla Barberia che si vendono a prezzo più alto di qualsiasi altra mercanzia. La moneta di Tombuto è d’oro, senza immagini né iscrizioni”.

Una società costituita a Londra nel 1618 per avviare scambi commerciali con Tombouctou descrive la città come un luogo dove “i tetti delle case erano coperti di lastre d’oro, il fondo dei fiumi scintillava del prezioso metallo e le montagne aspettavano soltanto di essere scavate per donare una profusione di tesori”.

All’inizio del Diciannovesimo secolo lo scrittore inglese William Thackeray dette voce al sogno occidentale di Tombouctou:

In Africa (un quarto del pianeta) / La gente è nera e ha riccioli di seta; / E lì da qualche parte, ignota ai più, / Una città possente di nome Tombouctou.

Nello stesso anno, a Cambridge, Alfred Tennyson vinse un premio con il poema Timbuctoo, in cui descrive il Niger prosciugato dal deserto.

Che Tombouctou fosse anche un luogo di invidiabile erudizione veniva raramente ricordato. La sua università era considerata uno dei grandi centri della cultura islamica. Si diceva anche che i testi greci e latini un giorno avrebbero dovuto essere corretti sulla base dei manoscritti che vi erano conservati.

Io sono il poeta del silenzio. Io sono il poeta del viaggio, il vagabondo della parola

Il mito della ricchezza era così radicato che quando il primo occidentale arrivò a Tombouctou non osò ammettere la sua delusione. Fu solo quando altri esploratori descrissero la città come nient’altro che un misero villaggio di fango dominato da crudeli musulmani che l’Occidente rinunciò al sogno di arricchirsi con l’oro africano. Ma allora il commercio di schiavi li aveva già ricoperti di “oro nero”.

Veniamo portati in jeep a fare una visita storica della città, guidata dal poeta Albecaye Ousmane Kounta, nato a Tombouctou, e dal nostro accompagnatore locale, Marabout Hasseye, imam e professore di civiltà araba. Visitiamo il centro Ahmed Baba, una biblioteca di antichi manoscritti provenienti dalle migliaia di cronache familiari dei tempi passati e futuri.

8 NOVEMBRE 1999. Oltre duemila persone si riuniscono nella piazza davanti alla moschea di Sankoré, la celebre università di Tombouctou dove 25mila persone ricevevano il sapere da eminenti eruditi, oggi dimenticati. Per oltre quattro ore la gente ascolta, partecipa e acclama un amalgama di poeti, griot e musicisti in un arazzo linguistico di francese, arabo, inglese, afrikaans, wolof, tamashek, songhai, shona e olandese.

Al margine della folla un nomade su un focoso cavallo bianco osserva la scena. Un gregge di capre bruca su una strada poco lontano. È arrivato un convoglio speciale: un gruppo di insegnanti arabi sparsi in tutto il deserto che si sono messi d’accordo per viaggiare insieme quando hanno saputo che il famoso poeta egiziano Zein El Abdic Fouad avrebbe letto le sue opere in arabo classico. Dopo averlo ascoltato si alzano con le guance solcate di lacrime.

Il pomeriggio prima della nostra partenza da Tombouctou siamo invitati dai tuareg per un tè nel deserto. L’invito è arrivato dal sindaco di Arouane. Lasciamo l’afoso albergo del governo in jeep, sotto lo sguardo vigile dell’uomo con il più squisito biglietto da visita che abbia mai visto: Mohamed Halice Ahassan, Guida del Sahara. È lontano. Dopo un po’ i giovani autisti in caffettano blu cominciano a rincorrersi con gioioso abbandono attraverso le dune. Noi ci affacciamo dal tettino, mentre loro si incitano e gridano dai finestrini aperti. Fra grossi cerchi e mulinelli di sabbia si fermano sotto una duna ed è come arrivare su un set cinematografico. Sulla sabbia sono distesi grandi tappeti colorati circondati da bassi divanetti imbottiti. Il sole sta tramontando come una luna rossa sopra le creste delle dune. I tuareg ci servono bicchierini di tè dolce. Con il crepuscolo arriva la poesia.

La poesia araba. Oh, la donna dagli occhi bianchissimi. Si avvolse una stoffa intorno al seno. Se disse “Sei il benvenuto” oppure “Entra”, non riesco a ricordarlo: ero smarrito. Voglia Allah che diventi mia, o perderò la ragione. I nomadi danno una pacca sulla spalla al collega. Il poeta egiziano recita alcune poesie del deserto di epoca preislamica: la luna, le dune, il rumore dei cavalli, io vivo di questo.

Il capo della comunità tuareg recita la poesia della rivoluzione: anche se rompono la mia penna, le mie parole prendono fuoco; anche se uccidono i miei cavalli e i miei cammelli, io tormenterò i loro polsi, anche se mi tolgono l’ultimo respiro, io continuerò a bruciare la loro gola.

Io non penso, canto, dice Amina Saïd, la poetessa di Tunisi. Io sono il poeta del silenzio. Io sono il poeta del viaggio, il vagabondo della parola, dice Chirikure Chirikure dello Zimbabwe in lingua shona. La poesia è sempre densa di luce che brilla dall’interno. La poesia è un rituale di suono drappeggiato sulla luce. Così possiamo vivere appieno in questo mondo e accedere alla nostra anima completa, dico io.

(Traduzione di Giuseppina Cavallo)

Questo articolo è stato pubblicato il 4 febbraio 2000 nel numero 320 di Internazionale.

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