Una mattina del 2019 Lourdes Maldonado si è presentata alla conferenza stampa del presidente del Messico, Andrés Manuel López Obrador. Parlando con un tono forte e chiaro, ha chiesto aiuto al presidente, dicendo di sentirsi minacciata da un ex governatore. Il 23 gennaio 2022 qualcuno le ha sparato mentre era davanti a casa.
Il suo omicidio ha indignato i giornalisti, che sono scesi in piazza a manifestare con dolore, rabbia e paura, e ha dimostrato che il governo non fa niente per tutelare i giornalisti messicani. La morte di Maldonado va a sommarsi a quelle di José Luis Gamboa, Margarito Martínez e Roberto Toledo, tutti uccisi a gennaio. Secondo l’organizzazione Artículo 19, dal 2000 al 2021 sono stati 145 i giornalisti assassinati per via del loro lavoro. Ventinove omicidi sono avvenuti nei tre anni dell’attuale amministrazione.
Secondo Darwin Franco, giornalista e docente universitario, si tratta di una violenza costante e sistematica. “Aggredendo, uccidendo o facendo sparire i giornalisti si cerca di mettere a tacere le verità che volevano rendere note, e di impedire che le persone ne vengano a conoscenza. L’aggressione o la morte di un giornalista ha delle conseguenze sociali, perché a quel punto i cittadini non potranno più sapere quello che il giornalista sapeva o su cosa stava lavorando”.
Le sue parole ricordano quelle pronunciate a novembre del 2020 da António Guterres, segretario generale delle Nazioni Unite, nel suo discorso per la Giornata internazionale per porre fine all’impunità per i crimini contro i giornalisti: “Quando si attacca un giornalista è tutta la società a pagarne il prezzo. Se non proteggiamo i giornalisti, la nostra capacità di mantenerci informati e di prendere decisioni consapevoli è gravemente compromessa. Quando i giornalisti non possono svolgere il loro lavoro in sicurezza, perdiamo una difesa importante contro la pandemia di disinformazione e d’informazioni false che circolano su internet”.
Interrogatori e arresti
La cosa peggiore è che la delicata situazione del giornalismo in Messico non è un caso isolato: le aggressioni ai reporter sono comuni in quasi tutta l’America Latina. Tra luglio e dicembre del 2020 l’Osservatorio sulle aggressioni alla libertà di stampa ha ricevuto 66 denunce di violazioni solo dal Nicaragua. Molte sono state commesse da poliziotti, paramilitari e sostenitori del governo. L’Osservatorio sostiene anche che “sono aumentate le denunce di minacce ricevute sui social network, le pressioni, le persecuzioni e le torture psicologiche per cercare di fermare i giornalisti. Essere giornalista professionista o difensore dei diritti umani è motivo di censura, interrogatori e arresti arbitrari in luoghi pubblici e privati”.
Il quotidiano nicaraguense La Prensa, che ha subìto in maniera particolarmente forte la persecuzione del regime di Daniel Ortega, ha pubblicato il suo rapporto sulle violazioni della libertà di stampa nel 2021, registrando 702 episodi di abuso di potere statale nel paese (un numero simile a quello del 2018, quando furono registrati 712 casi).
In Colombia la Fondazione per la libertà di stampa (Flip) ha documentato da aprile a luglio dell’anno scorso 181 aggressioni contro giornalisti da parte dalle forze dell’ordine e 79 aggressioni da parte di privati. Secondo Jonathan Bock, direttore esecutivo dell’organizzazione, nel 2021 la condizione dei giornalisti in Colombia è drasticamente peggiorata.
Secondo Bock, questo clima di violenza è dipeso soprattutto dal fatto che alcuni funzionari pubblici hanno fatto di tutto per evitare che venissero alla luce i video delle proteste contro la riforma fiscale. Durante le proteste sono morte più di 45 persone. “Garantire il lavoro della stampa sarebbe stato fondamentale, ma non è stato fatto”, dice.
In alcuni casi sono stati aperti processi giudiziari con l’obiettivo di contrastare il lavoro dei giornalisti
Per Bock in Colombia il governo ha criminalizzato i social network, mettendo in atto una politica di sorveglianza per determinare quelle che le autorità definivano “fake news”. Una politica che la Commissione interamericana per i diritti umani (Cidh) ha criticato durante una visita nel paese.
Nella regione latinoamericana ci sono problemi antichi e nuovi “che ci obbligano a mantenerci in allerta”, spiega Ricardo Uceda, direttore esecutivo dell’Instituto prensa y sociedad (Ipys), del Perù. Tra i problemi che vengono da lontano cita gli omicidi dei giornalisti commessi dalla criminalità organizzata, in particolare in Messico. Ricorda anche quello che succede in stati guidati da governi autoritari come Cuba, Nicaragua e Venezuela, dove i giornalisti sono sistematicamente arrestati e perseguitati.
Per quanto riguarda i problemi nuovi, Uceda parla dei leader populisti che, a prescindere dalle loro posizioni ideologiche, alimentano un clima violento contro i mezzi d’informazione critici con il potere. È quello che succede in Salvador, Brasile e Messico.
In alcuni casi sono stati aperti processi giudiziari con l’obiettivo di contrastare il lavoro dei giornalisti. In Perù c’è stata la condanna per diffamazione contro Christopher Acosta, autore del libro Plata como cancha (Soldi a palate). Secondo Uceda, il giudice ha valutato l’accusa per diffamazione applicando degli standard fuori da ogni legalità, senza tenere conto delle risorse che il giornalismo usa per informare. In Messico le autorità hanno messo sotto inchiesta Marcela Turati, giornalista, avvocata e antropologa, per sequestro e criminalità organizzata. Turati aveva fatto luce sulle fosse comuni nel nord del paese.
Il paese più rischioso
Un altro caso è quello di Santiago O’Donnell, in Argentina: un giudice gli ha ordinato di consegnare le registrazioni delle interviste fatte al fratello dell’ex presidente Mauricio Macri per il suo libro Hermano. Queste sentenze, spiega Uceda, sono lontane dagli “standard adeguati per valutare denunce o reati di diffamazione”.
Darwin Franco elenca tre tipi di aggressioni contro i giornalisti: quelle degli agenti dello stato, che includono querele, denunce penali o azioni di spionaggio, come nel caso di Pegasus, il software spia che Israele vende ai governi; quelle della criminalità organizzata, che crea “zone di silenzio in cui i giornalisti sanno di non poter parlare perché è in gioco la loro vita”; e le violenze interne agli stessi mezzi d’informazione, “per i legami dei proprietari con il capitale o il potere politico”.
Alla fine del 2021 la rivista Reflexiones ha pubblicato un discorso tenuto nel 2019 in Francia da Alicia Gómez, la giornalista da poco scomparsa ed ex vicepresidente di Reporteros sin fronteras-España. In quell’occasione Gómez aveva fatto un quadro dell’insicurezza in cui si muove il giornalismo latinoamericano: “I conflitti e la situazione politica di alcuni paesi hanno reso l’America Latina un luogo come minimo scomodo e spesso anche pericoloso per esercitare la professione”.
Gómez considerava il Messico il paese più rischioso per il giornalismo. Lì, diceva, i giornalisti che corrono più pericoli sono quelli che lavorano per mezzi d’informazione regionali o di piccole dimensioni, giornalisti che passano quasi inosservati. “Siamo venuti a conoscenza dei loro nomi, dei loro cognomi, abbiamo saputo se erano sposati o se stavano portando la figlia a scuola solo il giorno in cui sono stati uccisi; il resto del tempo sono dei nomi piccoli, a volte solo delle iniziali, è come se non fossero rilevanti. Ma sono queste persone che lavorano per i giornali locali a morire; sono i giornali locali, piccoli e senza grandi risorse, a pagare il prezzo più alto per fare giornalismo in Messico”. Una riflessione che si può applicare a molti altri paesi della regione, come la Colombia.
Si tende a pensare che i giornalisti più esposti a queste violenze siano quelli che si occupano di questioni politiche o di sicurezza, ma non è così. Come spiega Darwin Franco, “alcuni colleghi che scrivevano di ambiente sono stati uccisi o sono scomparsi per aver denunciato l’estrazione illegale di idrocarburi o di risorse minerarie o il disboscamento illecito. La criminalità organizzata e gli interessi economici che le ruotano attorno sono così pervasivi che si potrebbe dire che non c’è un’area del giornalismo che sia sicura al cento per cento”.
Secondo la Corte interamericana per i diritti umani (Cidh), le violenze contro i giornalisti hanno tre effetti. In primo luogo, violano il diritto delle vittime a esprimere le loro idee e le loro opinioni e a diffondere informazioni; in secondo luogo, intimoriscono e zittiscono gli altri giornalisti; in terzo luogo, violano il diritto delle persone e delle società di cercare e ricevere informazioni. La Cidh insiste sul fatto che lo stato ha l’obbligo di garantire la sicurezza dei giornalisti. Lo riassume in tre parole: prevenire, proteggere e garantire la giustizia.
Uno stato non può limitarsi a intervenire quando il giornalista è già stato aggredito o ucciso. Ci sono misure di prevenzione utili a “combattere alcune delle cause profonde di violenza” contro i giornalisti e contro la stessa impunità, dice la Cidh. Una è “adottare un discorso per contribuire a prevenire la violenza contro i giornalisti e per non esporli a rischi maggiori”. È necessario riconoscere pubblicamente il valore del giornalismo anche quando è “critico, scomodo e inopportuno per gli interessi del governo”.
La Cidh suggerisce anche di istruire le forze dell’ordine sulla necessità di rispettare il lavoro dei giornalisti e di adottare meccanismi di prevenzione “adeguati” per evitare le violenze contro chi svolge la professione. Bisogna rispettare il diritto a non rivelare le fonti di informazione, e punire penalmente le violenze contro i giornalisti. Secondo la Cidh lo stato deve “produrre dati affidabili e mantenere statistiche precise sulla violenza contro i giornalisti”, per poi valutare politiche pubbliche efficaci per proteggerli e processare i responsabili.
La violenza contro i giornalisti latinoamericani crea un clima di paura che incide negativamente sulla democrazia, già di per sé impoverita, di molti paesi. Lo fa perché cerca di nascondere la verità, di mettere a tacere le voci critiche, di mantenere la corruzione. È compito delle società alzare la voce. Lo stato deve garantire la sicurezza dei giornalisti, investigando e facendo giustizia su quelli che sono diventati martiri della democrazia.
(Traduzione di Francesca Rossetti)
Questo articolo è uscito su Connectas, una piattaforma giornalistica che promuove la diffusione delle informazioni sull’America Latina.
Il 10 febbraio 2022 il giornalista Heber López Vásquez, 39 anni, è stato ucciso a Salina Cruz, nello stato di Oaxaca, portando a cinque il numero di giornalisti morti a causa del loro lavoro in Messico dall’inizio dell’anno.
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