Davvero l’Ucraina è più vicina alla fine della guerra dopo i tre giorni di trattative condotte a Riyadh dagli Stati Uniti con le delegazioni di Mosca e Kiev? Nella fitta nebbia di uno strano negoziato, rispondere categoricamente a questa domanda è impossibile.
A prima vista sembra che siano stati fatti passi avanti, ma si fa presto a scoprire che non è affatto così. Il 25 marzo, l’annuncio di un cessate il fuoco nel mar Nero e della sospensione degli attacchi contro le infrastrutture energetiche è stato accompagnato da una serie di condizioni poste da Mosca prima dell’entrata in vigore dell’accordo.
Le richieste sono particolarmente significative, perché la Russia pretende la cancellazione di alcune sanzioni imposte dal blocco occidentale dopo l’invasione dell’Ucraina, a cominciare dall’esclusione delle sue banche dal sistema di pagamenti internazionale. Per accontentare il Cremlino serve il consenso dell’Europa.
Nel giro di due settimane, dunque, si è passati dall’accettazione da parte dell’Ucraina di un cessate il fuoco incondizionato di trenta giorni a un’interruzione parziale delle ostilità sottoposta a condizioni. Un accordo lontano, quindi, dal deal sbandierato e promosso da Donald Trump. Quella a cui stiamo assistendo è invece una discussione altamente tattica, destinata a durare più del previsto e simile a una mano di poker tra bugiardi.
La trattativa sull’Ucraina è un gioco complesso, in cui nessuno dice la verità e dove a determinare l’esito della partita, più che il valore delle carte che ciascuno ha in mano, è la psicologia.
Kiev ha accettato un cessate il fuoco incondizionato per riaprire un dialogo con Washington, consapevole del fatto che la Russia non avrebbe fatto altrettanto. Mosca, dal canto suo, si sente forte perché capisce che l’amministrazione Trump vorrebbe ottenere un accordo a tutti i costi, alzando quindi il prezzo dell’accordo.
Quanto agli Stati Uniti, sono gli unici a non bluffare. La Casa Bianca moltiplica le concessioni alla Russia nella speranza di ottenere il successo diplomatico di cui Trump ha bisogno, ma in questo modo non fa che alimentare l’appetito di Putin, come conferma la sorprendente richiesta della cancellazione delle sanzioni finanziarie come condizione per la sospensione dei combattimenti.
La situazione non lascia presagire un’intesa in tempi brevi, soprattutto perché Washington tira in ballo accordi con la Russia che vanno ben oltre la questione ucraina (in fin dei conti di scarso interesse per gli Stati Uniti).
Per comprendere lo stato delle cose basta ascoltare la lunga intervista concessa qualche giorno fa dall’inviato statunitense Steve Witkoff al podcast dell’autore trumpiano Tucker Carlson. Forte della sua vicinanza con il presidente, Witkoff riprende tutti gli elementi del linguaggio di Putin, un uomo che ha incontrato e che gli ispira fiducia.
Durante l’intervista, Witkoff ha dichiarato con entusiasmo che “tutti vorrebbero un mondo in cui la Russia e gli Stati Uniti collaborano per fare buone cose insieme”, citando la questione energetica nell’Artico e un accordo per vendere insieme il gas naturale liquefatto all’Europa, relegata al rango di cliente.
Qualcuno mi accuserà di non sottolineare abbastanza i primi segnali positivi dopo tre anni di guerra, ma c’è puzza di imbroglio all’orizzonte. Intanto, la sera del 26 marzo, il presidente ucraino Volodymyr Zelenskyj arriverà a Parigi per incontrare gli europei, gli ultimi alleati che gli sono rimasti.
(Traduzione di Andrea Sparacino)
Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it