La battaglia di Wafa Mustafa per suo padre e le persone sparite in Siria
Wafa Mustafa aveva 23 anni quando suo padre è stato rapito a Damasco dal regime siriano. Il 2 luglio 2013, una settimana dopo è dovuta fuggire insieme alla madre e alla sorella. Da allora, subisce una tortura, a distanza. Quella tortura particolare che vivono le famiglie delle persone vittime di sparizione forzata. Sono oltre 110mila oggi in Siria secondo il Syrian network for human rights.
Ospite del festival di Internazionale a Ferrara, Wafa ha ricordato quante persone innocenti come suo padre, l’attivista Ali Mustafa, siano vittime del regime di Assad e di undici anni di guerra. Quando parla di lui dice che sta “tra la vita e la morte” come se fosse in un purgatorio al quale da nove anni chiede notizie senza risultato. Wafa non dorme bene, non mangia bene – “non c’è notte in cui vado a dormire senza chiedermi se sia vivo o morto” racconta –, ha tentato il suicidio, perde spesso la speranza.
Faceva parte della rete Families for freedom ma non smette di spiegare al mondo quanto sia difficile andare avanti nella vita quando la persona amata, un padre, una figlia, una moglie sono spariti.
Crimine contro l’umanità
Per il diritto internazionale la sparizione forzata è una violazione dei diritti della vittima e di quelli dei suoi parenti. Secondo la Rete siriana per i diritti umani (Snhr), se dal marzo 2011 quasi 15mila persone sono morte dopo avere subìto torture in carcere, altre 111mila sono state vittime di sparizioni forzate. L’analisi di Wafa va però ben oltre la denuncia della violazione del diritto internazionale, che diventa spesso molto frustrante.
La giornalista spiega che regimi autoritari usano le sparizioni forzate per mettere a tacere il maggior numero di persone. Ha collaborato con tante organizzazioni internazionali per il diritto delle famiglie, ha testimoniato davanti a diverse commissioni dell’Onu, e a ogni suo intervento si chiede se faccia bene a parlare: “Se guardi alla dinamica del potere, loro trattengono mio padre… In questo senso hanno un potere su di me. Ogni volta che parlo in pubblico, penso: e se lo avessero dimenticato in carcere e adesso per colpa mia lo tirano fuori e lo uccidono, lo torturano? Gli sto facendo del bene o del male? Ma poi, quando comincio a pensare che dovrei tacere vedo la sua faccia, e so che non faccio questo solo per lui e continuo”.
A volte le organizzazioni internazionali con cui collabora chiedono la sua testimonianza ma senza la sua analisi politica
Wafa ha scelto l’attivismo, in primo luogo per via dell’educazione ricevuta da suo padre. In una manifestazione portava una scritta che diceva “Non c’è pace senza giustizia, l’unico motore del cambiamento è la solidarietà”: “Molti mi dicono che è difficile essere solidali, estendere le tue emozioni ad altre lotte. Forse viene dalla mia educazione, ma per me la solidarietà viene da sé. La prima protesta alla quale ho partecipato – avevo dieci anni – era in sostegno alla Palestina”. Le uniche proteste autorizzate dal regime siriano erano di fatto per la Palestina: “Sapevamo che il regime ci usava in questo senso, ma sapevamo anche che manifestando per loro stavamo manifestando per noi stessi”.
E poi, la solidarietà è un modo di sopravvivere: “Se limitassi il mio attivismo alla Siria, sentirei che non c’è molto da fare, è senza speranza. Con la solidarietà mantengo anche la mia sanità mentale. Guardo ora all’Iran e vedo la speranza…”.
Spesso, spiega, questa solidarietà e queste scelte di campo politiche non incontrano il sostegno dei suoi interlocutori, in particolare di chi si occupa dei diritti umani. A volte le organizzazioni internazionali con cui collabora chiedono la sua testimonianza ma senza la sua analisi politica. “Vogliono sentir parlare della mia sofferenza, ma non vogliono sentire altro. Mio padre è sparito perché era un attivista politico. È stato arrestato perché parlava di politica, sentirei di tradirlo se non osassi parlarne anch’io. I dittatori” – pensa ad Assad e Putin – “sono spesso solidali tra loro, sento che anche noi dovremmo essere più uniti per lottare contro di loro”.
La disinformazione sulla Siria
Gran parte del suo lavoro di giornalismo e di attivismo è anche quella di provare a diffondere informazioni corrette sul conflitto. C’è una chiara differenza di trattamento delle informazioni provenienti dalla Siria o da altri conflitti. Il vecchio adagio orientalista secondo cui il Medio Oriente, “è complicato” è ancora molto seguito: “Tutti i giorni devo spiegare che non si tratta di una guerra civile. Raramente le persone sanno che c’è stata una rivoluzione per la libertà e la democrazia. La narrazione promossa dal regime è stata quasi subito adottata da gran parte dei mezzi d’informazione internazionali. Per la comunità internazionale era più semplice così. Giustifica il loro non intervento. Pensa a quello che si è detto sulla linea rossa, l’uso delle armi chimiche. Dopo l’attacco ad Al Ghouta ci sono state dichiarazioni altisonanti e poi… il nulla”.
I siriani però non hanno mai smesso di parlare al mondo, di raccontare – dagli attivisti di Kafranbel con i loro striscioni in più lingue alle foto di Caesar. Ma secondo Wafa, anche se il mondo non ascolta, bisogna continuare perché non si può lasciare impunito questo regime. L’impunità è la madre di tutte le altre guerre, spiega, ne è una prova la mancata reazione ai bombardamenti russi che si abbattono sulla Siria da sette anni. E per questo che è andata al tribunale di Coblenza, seduta fuori con centinaia di pannelli con foto di persone sparite. Spesso si è sentita “trasparente” a Coblenza, e anche molto sola. Ma sente di non avere altra scelta.
Il buco nero del carcere di Sednaya
La questione centrale dell’impunità del regime è riemersa con forza il 3 ottobre con il rapporto dell’Associazione dei detenuti e delle persone sparite della prigione di Sednaya che svela nuove atrocità commesse dal regime. Si tratta di un’inchiesta sulla prigione di Sednaya, “il buco nero della Siria” dove circa 30mila persone sono state trattenute dall’inizio del conflitto, e solo seimila rilasciate. La maggior parte degli altri è ufficialmente considerata dispersa perché i certificati di morte raramente raggiungono le famiglie a meno che i parenti non paghino una tangente esorbitante.
Oltre alle testimonianze terribili – insostenibili a tratti – di alcuni sopravvissuti, il rapporto svela quanto le sparizioni forzate siano anche un business per il regime che monetizza qualsiasi informazione sui loro cari: “Il regime siriano ha raccolto dal 2011 a oggi quasi 900 milioni di dollari americani (868.900.573 dollari per l’esattezza) dall’estorsione finanziaria che ha praticato ai danni delle famiglie in cambio di informazioni sui loro cari o della promessa di visita o di rilascio”.
Il rapporto ha anche ricevuto conferma dell’esistenza di “due camere del sale” dove sono stati portati dei sopravvissuti: raccontano che queste stanze riempite di sale sono usate per ammassarci i corpi di coloro che sono morti sotto tortura, per malattia o fame. In mancanza di camere refrigerate il sale serve a proteggere le guardie dall’odore dei cadaveri o dalle eventuali malattie.
Intanto, Wafa Mustafa, insieme ai 5,5 milioni di siriani che hanno dovuto lasciare il proprio paese, prova a sopravvivere senza il padre ma anche senza il resto della sua famiglia : “Spesso, quando gli amici mi invitano a cena, devo scappare nel bagno per piangere, ho dimenticato anche il piacere di una semplice cena in famiglia”. Il Canada le ha rifiutato il visto per andare a visitare la madre e la sorella che non vede da tre anni.