Per settimane in Israele ci sono stati immensi raduni di manifestanti contro alcune riforme (in particolare quella della giustizia) messe in cantiere dal governo più di destra e xenofobo nella storia del paese. I palestinesi con cittadinanza israeliana, che non partecipano a queste proteste, non condividono il quadro di analisi: secondo loro, non sono manifestazioni per la democrazia.
I palestinesi rappresentano il 20 per cento della popolazione israeliana e, secondo il quotidiano Al Araby al Jadid, sono rimasti fuori dalle manifestazioni antigovernative perché, ed è il punto di vista più condiviso tra i palestinesi, “i manifestanti non chiedono democrazia per tutti i cittadini del paese, ma solo per quelli ebrei, perpetuando così la disuguaglianza e l’occupazione”.
Nei fatti, scrive ancora in una sua dichiarazione il partito Balad, fondato nel 1995 da Azmi Bishara insieme a un gruppo di giovani intellettuali palestinesi d’Israele, “prima ancora dell’attuale governo di Benjamin Netanyahu, Israele era una democrazia fasulla, riprovevole e del tutto anomala”.
Il paradosso odierno, aggiunge Marwan Barghuthi – figura di punta dell’opposizione palestinese, tuttora in carcere – in un testo pubblicato dal sito palestinese 180post, è che lo slogan di Israele “uno stato ebraico e democratico”, “non esclude solo gli arabi palestinesi, ma mette al bando tutte le posizioni politiche che si oppongono all’attuale sistema di governo fascista. Alcuni esponenti del sionismo religioso hanno perfino chiesto l’arresto dei leader dell’opposizione”.
Ideologie non democratiche
L’attivista palestinese Mohammed el Kurd, figura della resistenza agli sgomberi forzati del quartiere di Sheikh Jarrah a Gerusalemme Est, ha aggiunto l’emoji dei popcorn al suo post su Twitter in cui, con parole molto forti, paragona le manifestazioni a un teatrino: “Le proteste israeliane non riguardano le ‘riforme giudiziarie’. Piuttosto stiamo assistendo al culmine di una lunga lotta tra sionisti liberali e sionisti religiosi per il volto pubblico del regime. Israele è un paese coloniale, razzista ed espansionista travestito da democrazia? O è semplicemente quello?”.
Inoltre, la mancata attenzione da parte dei manifestanti israeliani nei confronti dei palestinesi d’Israele e di quelli che vivono nei territori occupati nasconde, scrive Arabi21, “un insieme più profondo di forze in gioco. Ai milioni di palestinesi che vivono de facto sotto il controllo militare israeliano sono negati molti degli stessi diritti accordati ai loro vicini israeliani. La loro stessa esistenza invalida qualsiasi dibattito sostanziale sulla democrazia israeliana”.
Il ricercatore Ali Mawasy interviene sul sito Arab48 rifiutando anche la definizione “democrazia per soli ebrei”: “Se la democrazia è quando ogni cittadino, indipendentemente dalla sua religione, setta, razza o genere, gode del diritto di partecipare agli affari pubblici, allora questo non vale per Israele fino a quando lo stato applicherà un sistema di apartheid etnico-religioso”. Di conseguenza, conclude Mawasy, “il colonialismo non è né dittatura né democrazia. È un potere violento basato nella sua essenza sulla sottomissione, l’esclusione e lo sfruttamento; quindi, tutto ciò che accade nell’orbita del colonialismo non può essere democratico”.
Una storia di violenza
Se i palestinesi nel loro insieme non condividono il quadro di lettura democratico, permane la loro preoccupazione di fronte alle ultime decisioni del governo di estrema destra.
Su Al Quds al Arabi il giornalista Wadiya Awwada rileva soprattutto l’accordo tra Netanyahu e il suo ministro per la sicurezza nazionale Itamar Ben Gvir: in cambio del suo appoggio alla temporanea sospensione della riforma giudiziaria, Netanyahu ha offerto all’estremista di destra la “formazione di una guardia nazionale sotto il suo comando, in pratica delle milizie armate, un esercito privato”. Queste milizie rappresentano, anche per il partito Balad, un terribile pericolo per i palestinesi che vivono nelle città miste o nei territori occupati e che saranno alla mercé di “una banda armata legale che obbedirà a un ministro già condannato per terrorismo”.
Davanti al pericolo rappresentato da questo governo di estrema destra “è davvero raro purtroppo trovare una voce israeliana che colleghi l’attuale crisi alle politiche di occupazione, di insediamenti illegali e di estrema violenza contro i palestinesi in Cisgiordania, a Gerusalemme o nella Striscia di Gaza”, scrive un altro editoriale di Al Quds al Arabi. “Né il destituito ministro della difesa del Likud né il leader dell’opposizione Yair Lapid sono davvero in disaccordo con Benjamin Netanyahu sull’occupazione”.
Il rapporto annuale di Amnesty international è uscito questa settimana. Per l’anno 2023 sottolinea come i doppi standard e le risposte inadeguate alle violazioni dei diritti umani nel mondo abbiano alimentato impunità e instabilità e cita, in primis, il rifiuto di contrastare il “sistema di apartheid israeliano nei confronti dei palestinesi’”.
Per i palestinesi della Cisgiordania occupata, sottolinea Amnesty, il 2022 è stato uno degli anni più mortali da quando, nel 2006, le Nazioni Unite hanno cominciato a registrare i numeri delle vittime: lo scorso anno sono stati 151 i palestinesi uccisi, tra cui decine di bambini.
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