Ci sono voluti più di quarant’anni, ma alla fine il Pritzker prize, l’equivalente del Nobel per l’architettura, è stato attribuito a un architetto originario dell’Africa. È la prima volta dal 1979, l’anno in cui fu istituito questo riconoscimento. La scelta di Francis Kéré mostra anche quanta strada abbia fatto il Pritzker prize dai suoi esordi: il primo a riceverlo fu Philip Johnson, architetto dal passato fascista, fedele alle grandi aziende, che una volta disse di sé: “Sono una prostituta”. Ma il mondo è cambiato e anche l’establishment dell’architettura ha rivolto la sua attenzione verso i posti dove questa disciplina può fare la differenza.

La storia di Francis Kéré è sorprendente. È nato nel 1965 a Gando, un piccolo centro del Burkina Faso. Figlio maggiore del capo del villaggio, a sette anni fu mandato a studiare in una città vicina. Fu il primo della sua comunità ad andarci. Mentre sedeva in aule dalle pareti di cemento, soffocanti, buie e scarsamente ventilate, giurò a se stesso che da grande avrebbe costruito scuole migliori. È diventato falegname e ha ottenuto una borsa di studio per studiare in Germania, dove ha cominciato costruendo tetti, per poi proseguire gli studi in architettura a Berlino. Con le sue nuove conoscenze è tornato in Burkina Faso, dove si è dedicato alla costruzione di quelle infrastrutture pubbliche che mancavano nei villaggi: aree giochi, edifici comunitari e, naturalmente, scuole. Oggi ha ottenuto il più importante riconoscimento nel suo campo.

Kéré è una persona affascinante, almeno quanto lo è il suo passato. Il suo successo mostra come i maggiori problemi del mondo di oggi – dai cambiamenti climatici alla scarsità di risorse, dall’uso dell’energia ai beni comuni – colpiscano più fortemente quelle persone che vivono fuori delle grandi città del nord del mondo, dove spesso il discorso architettonico si riduce a dibattiti accademici e considerazioni banali.

La Ted conference del 2013 di Francis Kéré

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Nella sua carriera, Kéré ha alternato l’insegnamento in università come Harvard, Yale e Monaco alla supervisione di progetti pubblici in Burkina Faso, Uganda, Mozambico e Mali. Inoltre ha firmato installazioni di altro profilo, come il padiglione temporaneo della Serpentine gallery a Londra nel 2017. Questi lavori gli sono serviti per ottenere visibilità e accrescere il profilo dei progetti che seguiva in luoghi più sperduti.

Uno in particolare lo ha reso famoso: nel 2001 ha realizzato la scuola che aveva sognato a Gando. Un edificio lungo ed elegante, con la volte a botte, fatto in mattoni di argilla e cemento, con il tetto sopraelevato rispetto alle pareti per consentire una migliore circolazione dell’aria. Ci sono inoltre un’area giochi ombreggiata e uno spazio per fare lezione all’aperto. Costruita usando materiali e tecniche molto semplici, la scuola è stata progettata per poter essere edificata da muratori del posto ed essere di facile manutenzione, grazie alle componenti standard e poco costose. Nel 2004 l’edificio ha vinto il premio Aga Khan (attribuito a opere realizzate in paesi islamici o di origine islamica) ed è stato lodato in tutto il mondo.

Negli anni successivi, dopo la creazione della Kéré foundation, l’architetto si è dedicato a costruire un’intera infrastruttura di spazi pubblici e servizi nel villaggio, dove mancavano sia l’acqua corrente sia l’elettricità. Ha realizzato alloggi per gli insegnanti, una biblioteca dal soffitto traforato che proietta una straordinaria ombra sul pavimento, un giardino, un pozzo, un luogo di ritrovo e anche una scuola secondaria. Il suo studio si è specializzato nella progettazione di scuole, che si adattano perfettamente al loro contesto materiale e culturale, edifici innovativi, che non si rovinano subito e sono facili da manutenere.

Il liceo Schorge a Koudougou, in Burkina Faso. (Per gentile concessione di Francis Kéré)

Tra i suoi lavori successivi, ci sono interventi paesaggistici, come il Centre de l’architecture en terre di Mopti e il parco nazionale di Bamako, entrambi in Mali. Fuori della capitale burkinabé Ouagadougou sta invece costruendo un “Opera village”, come nel film Fitzcarraldo, progettato per ospitare un teatro dell’opera. L’idea l’aveva sviluppata insieme al regista tedesco Christoph Schlingensief (morto nel 2010) dopo una serie di gravi inondazioni vicino alla città.

Di recente Kéré si è dedicato a grandi edifici di rappresentanza, in particolare quello dell’assemblea nazionale del Benin (la cui forma ricorda quella dell’albero, il tradizionale luogo d’incontro e dibattito nei villaggi africani) e quello dell’assemblea nazionale del Burkina Faso, simile a una montagna. Le due strutture ambiziose, che sorgono in spazi pubblici ampi e aperti, sono ancora in fase di progettazione.

Kéré è una persona modesta e con i piedi per terra, un realista che guarda al sapere, ai materiali e alle tradizioni locali piuttosto che a un linguaggio codificato di espressione personale. Parla correntemente cinque lingue e ha sul volto le tracce delle scarificazioni ricevute da ragazzo. È al tempo stesso radicato nella cultura burkinabé e in quella globale, e ha mostrato quanta differenza possano fare anche le strutture più semplici, se ideate con cura.

C’è, ed è giusto che ci sia, un certo imbarazzo quando si parla di “architettura in Africa”, un’espressione che sembra ignorare le differenze tra Algeri e Accra. Allo stesso tempo bisogna riconoscere che questo continente in rapida crescita sta cominciando ad affermarsi nell’arte e nell’architettura occidentali. Purtroppo molti architetti africani di successo come Kéré hanno dovuto stabilire i loro studi in Europa, ma forse da lì possono esercitare un’influenza ancora più globale.

In un’intervista del 2017 domandai a Kéré se era ottimista riguardo al futuro dell’architettura in Africa. Lui rispose: “Le persone sono consapevoli di come l’architettura possa fare la differenza. È un modo per diventare visibili”. Il premio che ha vinto lo renderà, meritatamente, molto più visibile.

(Traduzione di Giusy Muzzopappa)

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