Se fermi le persone per le strade di Sarajevo e gli chiedi cosa pensano della guerra in Ucraina, ti rispondono che quasi tutto quello che è accaduto in Bosnia Erzegovina si sta ripetendo in Ucraina. Qualcuno ha scritto su Twitter che rispetto alla Bosnia la guerra in Ucraina somiglia a una partita lampo a scacchi, perché lì tutto sta procedendo a un ritmo frenetico.
Alcuni giorni prima dell’invasione russa ho intervistato un giovane scrittore ucraino convinto che l’obiettivo di Mosca fosse di conquistare tutta l’Ucraina. Avevo poco da obiettare, ma comunque il mio cervello è configurato in modo da inserire un granello d’ottimismo anche nelle visioni più apocalittiche.
Era spudoratamente evidente che la Russia avrebbe attaccato. Non si aprono ospedali da campo per accogliere feriti se si stanno facendo delle semplici esercitazioni. Le persone che non conoscono i meccanismi della guerra pensano sia facile spegnere una macchina bellica da 190mila persone con migliaia di carri armati, veicoli corazzati, pezzi d’artiglieria e unità logistiche. Quella macchina bellica è rientrata prepotentemente in azione nelle prime ore del 24 febbraio, e sull’Ucraina si è scatenato l’inferno.
Lo spartiacque
Ad aprile abbiamo commemorato il trentesimo anniversario dell’aggressione e della guerra contro la Bosnia. I primi giorni dell’aprile 1992 sono per noi il momento spartiacque nel quale è cominciata una nuova epoca (prima, durante e dopo la catastrofe). Una simile suddivisione del tempo è ancora valida per la maggior parte della popolazione bosniaca nata abbastanza prima del 1992 da avere ricordi della vita civile precedente alla guerra.
La guerra in Ucraina era cominciata da appena un mese quando ho sentito degli ucraini cominciare a parlare di “prima della guerra”. È passato molto tempo da quando abbiamo vissuto tutto quello che sta accadendo a loro, ma nessuno ci chiede niente al proposito, o di dare una mano.
La poeta ucraina Daryna Gladun ha detto: “Ho messo da parte le metafore per parlare della guerra con parole chiare”
La guerra ti spinge a guardare alla vita e alla morte con occhi diversi. Prima della nostra guerricciola (un’espressione ironica che uso nelle mie opere) volevo essere un poeta, e scrivevo versi ipermetaforici e incomprensibili. Dopo la guerra ho ostinatamente cercato di scrivere il più chiaramente e precisamente possibile, soprattutto a proposito degli eventi bellici. Questa lotta con la lingua è durata per un po’, finché ho attraversato il guado e sono riuscito a guardare con chiarezza il contenuto della mia memoria della guerra. È stato allora che sono diventato uno scrittore. La guerra è stata un gigantesco catalizzatore di questo processo.
In un testo scritto per la Paris Review, Ilya Kaminsky cita la poeta ucraina Daryna Gladun: “Ho messo da parte le metafore per parlare della guerra con parole chiare”. La stessa cosa è accaduta a un sacco di poeti di Sarajevo durante l’assedio della città, il più lungo della storia bellica contemporanea. Il famoso poeta sloveno Tomaž Šalamun ha raccontato di non aver scritto una riga di poesia durante la guerra in Bosnia.
La maledizione dell’essere umano è che ogni singola persona pensa narcisisticamente di vivere l’orrore in maniera assolutamente unica e incomparabile. Chiunque sia sopravvissuto a una guerra sa che questo è assolutamente falso. Le persone pensano che si possa sentire il dolore solo nel proprio corpo (da questo deriva il narcisismo). Ma il dolore può essere percepito anche nei corpi degli altri. Il dolore della guerra è transcorporeo e onnipresente.
Paura mortale
Il 21 aprile 1992 cominciarono gli attacchi nella mia città, nell’estremità occidentale della Bosnia.
All’epoca studiavo a Zagabria. Ero tornato a casa perché sapevo che la guerra sarebbe cominciata presto; formazioni serbe regolari e irregolari avevano cominciato ad attaccare le città della Bosnia orientale all’inizio di aprile.
Vedevo bruciare le città lungo il fiume Drina, il confine naturale tra Bosnia e Serbia, anche se l’intero paese ufficialmente si chiamava ancora Repubblica federale di Jugoslavia. Ma di quel paese non restava più niente: Slovenia, Croazia e Bosnia avevano dichiarato l’indipendenza, separandosene.
Ero seduto al caffè Casablanca quando cominciarono gli attacchi contro Bosanska Krupa, la città dove sono cresciuto. Indossavo dei blue jeans, un piumino e scarpe da ginnastica. Bevevo birra e ascoltavo musica seduto ai tavolini all’aperto del caffè. Era una giornata incantevole, ma poco dopo le sei del pomeriggio cominciò un attacco d’artiglieria. Lì capii cosa significa l’espressione “paura mortale”. Militanti del Partito democratico serbo, aiutati dalle forze dell’ex esercito popolare iugoslavo, bombardavano la città dalle colline circostanti.
Non mi sono arruolato volontario nell’esercito né sono stato coscritto. Eravamo circondati dalle forze nemiche e non c’era via d’uscita da quell’area (chiamata in seguito sacca di Bihać o distretto di Bihać), se non per via aerea. Ho imbracciato le armi perché sono stato cacciato dal mio appartamento, dalla mia strada e dal mio quartiere. La mia coscienza m’imponeva di combattere.
L’esperienza della guerra non è una cosa che si possa desiderare. Nessuna persona sana di mente può volerla
Ho combattuto per 44 mesi come soldato e in seguito come ufficiale, quando ho guidato un’unità di 130 uomini in operazioni di grande difficoltà, negli ultimissimi momenti della guerra. Una volta sono stato ferito al piede sinistro. Ho avuto bisogno di stampelle per camminare per sei mesi. Il dolore era più o meno sopportabile perché ero giovane e il mio corpo aveva la forza dell’acciaio. Non avevamo tempo, allora, per pensare alla transcorporeità del dolore, né all’infatuazione per il nostro stesso corpo.
Dovevo andare in bagno con una sedia a rotelle speciale, che aveva un buco nel sedile per fare quella grossa. Anche urinare era molto scomodo, ma mi sono rimesso rapidamente. Sono tornato alla mia unità e ho svolto gli stessi compiti che svolgevo prima di essere ferito, come comandante di un plotone di trenta uomini. Da ferito avrei potuto essere trasferito in un luogo più sicuro, lontano dal fronte, ma non volevo aspettare la fine della guerra in un’unità logistica. Volevo usare le mie doti di combattimento per contribuire alla fine di una guerra che spesso ci appariva interminabile.
L’età della pietra
Il tempo cronologico smette di scorrere durante la guerra (nel testo della Paris Review che ho citato, gli scrittori ucraini di Buča sottolineano come il tempo per loro si sia arrestato, perché capiscono l’assurdità e la futilità di misurare il tempo durante la guerra). Al polso indossavamo orologi che mostravano un tempo senza significato. Non c’erano televisioni, ascoltavamo la radio, e non c’erano giornali. Eravamo isolati dal resto del nostro paese e del mondo civile. Eravamo in una piccola enclave a sole cinque ore di auto da Vienna, almeno prima della guerra. Ma ormai vivevamo come se fossimo alla fine del mondo, e il tempo era irrilevante. Dentro di noi scorreva un nuovo tipo di tempo: quello che calcolavamo tra il momento del crollo della nostra idilliaca vita civile e quello in cui eravamo diventati dei rifugiati. Dopo i primi momenti di shock, abbiamo rapidamente adottato uno stile di vita apocalittico.
L’esperienza della guerra non è una cosa che si possa desiderare. Nessuna persona sana di mente può volerla. È un ritorno all’età della pietra, all’epoca del baratto e della moneta merce. In guerra potevi vendere uno spazzolino, un tubetto di dentifricio o un temperino e poi fare benzina con quei soldi. Lo abbiamo fatto una volta: siamo andati in una città lontana dal fronte, abbiamo bevuto birra e ascoltato Whitney Houston che cantava I will always love you su Mtv. Non che fossimo suoi ammiratori. Preferivamo il grunge, e prima di quello ascoltavamo la new wave, ma nessuno ci faceva domande sulla nostra identità musicale, o su qualsiasi altro tipo d’identità urbana.
Non sapevamo nemmeno che i nazionalisti serbi ci considerassero gli “altri” che dovevano essere espulsi dai “territori serbi”, uccisi, violentati e imprigionati nei campi di concentramento. Nell’estate del 1992, quando l’esercito e la polizia serba occuparono la città di Prijedor, tutti i non serbi dovettero indossare una fascia bianca al braccio e appendere lenzuola bianche alle finestre delle loro case e appartamenti. Il genocidio cominciò lì e si concluse con quello, accertato dai tribunali, di Srebrenica del luglio 1995. La frase “mai più” è risuonata nei campi di concentramento di Prijedor nell’estate del 1992 e viene ora ripetuta in Ucraina.
La guerra ha una sua logica, totalmente estranea alla logica umana
Anche se io e la mia famiglia, i miei compagni d’armi e i miei concittadini abbiamo attraversato le prove e le sofferenze più dure che esistano (come profughi, soldati e civili), non mi sono mai permesso di odiare un intero popolo. Ho odiato solo gli ultranazionalisti e i criminali di guerra, non il resto del popolo serbo.
Abbiamo dovuto combattere per la nostra stessa sopravvivenza. E quando combatti a questo modo, non puoi mai essere sconfitto, perché nessuna “idea” è più forte dell’idea della propria vita. Oggi gli ucraini stanno combattendo una lotta tra la vita e la morte. È quando ci si trova nella posizione di non avere nulla da perdere, se non la propria vita, che si è più forti. La voglia di vivere è impossibile da uccidere. La nostra vitalità e la nostra voglia di vivere erano indistruttibili. Eravamo infrangibili, come diamanti. E i nostri corpi erano giovani e pieni d’energia primordiale.
Nell’autunno del 1995 riuscimmo finalmente a riconquistare la nostra città, dopo esserne stati cacciati nella primavera del 1992. La città era in rovina, ma l’abbiamo ricostruita. Alcuni anni dopo la guerra, ti rendi conto che la vita non sarà mai più come prima. Una volta persa, quella vita idilliaca non può più tornare.
Niente di tutto questo preoccupa oggi il popolo ucraino, che spera solo nella fine rapida della guerra. Ma la guerra ha una sua logica, totalmente estranea alla logica umana. L’aggressione all’Ucraina ha tutte le caratteristiche di una lunga guerra di logoramento.
Il giorno in cui è cominciata la guerra in Ucraina ho scritto su Twitter che i russi avrebbero commesso crimini di guerra, anche se non si erano ancora verificati. Per chiunque abbia osservato e ascoltato Putin, durante il discorso in cui ha riconosciuto l’indipendenza dei falsi staterelli di Luhansk e Donetsk, era chiaro che presto sarebbero seguite guerra e atrocità. Putin ha definito l’Ucraina un falso stato e gli ucraini un falso popolo.
Milošević e Karadžić dissero le stesse cose sulla Bosnia ed Erzegovina e sui bosniaci: che erano falsi e non meritavano di esistere. Queste parole si sono poi trasformate nei peggiori crimini commessi in Europa dopo la seconda guerra mondiale. Spero che i crimini dell’esercito russo non superino quelli commessi nel mio paese.
Il massacro scoperto nella piccola città di Buča, vicino a Kiev, sarà minore rispetto agli orrori che si verificheranno se la guerra continuerà a questo ritmo. Non conosciamo ancora l’entità dei crimini commessi a Mariupol. L’Ucraina è in uno stato di grave shock perché è stata attaccata mentre la gente dormiva. La notte prima dell’attacco la vita a Kiev era assolutamente tranquilla. Le strade erano piene di gente, i bar affollati.
Quando qualcuno ti attacca all’improvviso, sei sconcertato: non credi a quello che ti sta succedendo. Scopriremo le vere atrocità e i veri crimini dell’invasione russa dell’Ucraina a guerra finita. La cosa più importante è che la macchina da guerra russa in Ucraina sia spezzata e fermata. Un dittatore conosce solo il linguaggio della forza, mentre la politica della “pacificazione” rafforza il suo potere. I cittadini dell’Ue dovranno abbandonare la loro zona di comfort: è questo il sacrificio che gli tocca mentre i soldati ucraini muoiono ogni giorno per mantenere la pace e la prosperità nei paesi dell’Unione europea. Se l’Ucraina sarà sconfitta, non vivremo mai più nella pace che regna attualmente.
Le città dell’Ucraina saranno ricostruite dalla polvere e dalle ceneri. L’intero paese può risorgere. Quel che non può essere riportato indietro sono i morti. Simili ferite non guariscono mai, ma possiamo e dobbiamo convivere con esse. Il trauma della perdita ti segna e non ti abbandona mai. Credo nella grinta e nel coraggio dei soldati e dei cittadini ucraini, così come ho creduto in noi. Credo nella vittoria della vita sulla morte. Il corpo umano è fragile, ma la vita è ostinata.
(Traduzione di Federico Ferrone)
Questo articolo è stato realizzato in collaborazione con Voxeurop. Fa parte della serie La guerra alle porte.
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