“Liberateli ora, ora, ora!”, hanno gridato i circa venti familiari degli ostaggi che il 22 gennaio hanno fatto irruzione durante la riunione di una commissione parlamentare per chiedere di prendere misure urgenti per il rilascio dei loro cari. “Non potete sedere qui mentre loro muoiono lì”, c’era scritto sul cartello di uno di loro.

Negli ultimi giorni i familiari degli ostaggi sono tornati a farsi sentire. La loro protesta è un segno dello scontento e della sfiducia sempre più evidenti nella società israeliana, e mette in luce le spaccature che già prima del 7 ottobre si stavano approfondendo ed esasperando. La sera del 20 gennaio migliaia di persone hanno manifestato a Tel Aviv, Haifa e Gerusalemme chiedendo il rilascio degli ostaggi e nuove elezioni. Decine di loro si sono accampate davanti alla residenza di Netanyahu a Cesarea, tra Tel Aviv e Haifa.

Karmit Palty Katzir, il cui fratello, Elad, è nelle mani di Hamas, ha detto alla folla: “Ci stanno mentendo, dicono che la pressione militare farà tornare gli ostaggi, ma vediamo che li sta uccidendo. È una bugia. Netanyahu si assicura di dire quello che vogliamo sentire, ma le sue azioni dimostrano il contrario”. Il padre di Idan Shtivi, rapito al festival musicale Supernova, ha aggiunto: “Vogliamo gli ostaggi ora. Ci sono alcuni accordi sul tavolo, Netanyahu deve accettarne uno e andarsene. Non importa il prezzo, prima gli ostaggi e poi tutto il resto”.

Gli ostaggi sono un trauma nella storia israeliana
Dagli anni sessanta, una serie di sequestri ha segnato la vita del paese. Costringendolo a passare dall’intransigenza al negoziato
 

Durante l’attacco del 7 ottobre i miliziani di Hamas hanno catturato circa 250 ostaggi, 132 dei quali sono ancora nella Striscia di Gaza. L’esercito israeliano ha confermato la morte di ventotto di loro. Il 22 gennaio Netanyahu ha comunicato alle famiglie degli ostaggi che Hamas non ha presentato nessuna offerta valida per la liberazione dei loro cari. Le trattative però vanno avanti e ci sarebbero diverse proposte in fase di discussione. Finora non si sono ottenuti risultati concreti, ma per la prima volta le due parti avrebbero espresso la loro disponibilità a svolgere dei colloqui che dovrebbero riprendere questa settimana al Cairo, secondo un articolo pubblicato dal Wall Street Journal.

Negli ambienti diplomatici circola la bozza di un piano di pace per il Medio Oriente elaborato dai paesi arabi. Pierre Haski ha commentato i suoi obiettivi, che sarebbero il riconoscimento di Israele da parte del mondo arabo in cambio dell’impegno di Israele a permettere la nascita di uno stato palestinese. Tutto comincerebbe da un cessate il fuoco e dalla liberazione degli ostaggi ancora nelle mani di Hamas, ma per ora, come sottolinea lo stesso Haski, “siamo ancora a un approccio informale e lontani dall’avvio di una trattativa”.

Sotto pressione

Intanto il destino degli ostaggi continua a tenere il paese con il fiato sospeso. Ora però, secondo Haaretz, è diventato “la nuova priorità”. Israel Harel sostiene che “l’ampio sostegno nazionale sugli obiettivi della guerra d’Israele – la vittoria su Hamas e l’eliminazione dei suoi poteri militari e governativi – è gradualmente diminuito”. E le spaccature politiche e sociali emerse durante i mesi in cui gli israeliani sono scesi in piazza ogni settimana per protestare contro il governo stanno tornando in superficie. Le manifestazioni si erano interrotte dopo il 7 ottobre e da allora le persone si sono radunate solo per mostrare unità e chiedere il rilascio degli ostaggi. Ma dopo quindici settimane di guerra ci sono segni di una nuova esasperazione.

Il New York Times sottolinea che il governo di emergenza è sotto una “pressione intensa e contrastante man mano che la guerra va avanti. I politici di destra spingono affinché i militari agiscano in modo più aggressivo a Gaza, anche se Israele sta affrontando lo sdegno di tutto il mondo di fronte al massacro e alla devastazione di una così gran parte del territorio”. Anche le divisioni tra Israele e gli Stati Uniti, il suo più stretto alleato, sono sempre più evidenti. Come ha scritto Pierre Haski in un altro articolo, il “braccio di ferro” tra Biden e Netanyahu è “decisivo per diversi motivi” e riguarda il dopoguerra e la soluzione dei due stati, con la creazione di uno stato palestinese.

Il 19 gennaio Biden e Netanyahu si sono parlati al telefono per la prima volta da un mese. Secondo il resoconto degli statunitensi il primo ministro israeliano non si sarebbe opposto alla soluzione dei due stati. Ma il giorno successivo Netanyahu ha smentito. La mancanza di strategia e di prospettiva del primo ministro sta creando malumori anche all’interno del gabinetto di guerra. Dopo il ministro della difesa Yoav Gallant e l’oppositore Benny Gantz a esprimere critiche nei confronti di Netanyahu è stato l’ex capo di stato maggiore Gadi Eisenkot, che ha chiesto elezioni anticipate, sottolineando che la fiducia nel governo non esiste più.

A turbare gli israeliani negli ultimi giorni è stata anche la notizia della morte nella Striscia di Gaza di ventuno riservisti uccisi mentre si preparavano a distruggere alcuni edifici e di tre ufficiali dei paracadutisti uccisi a Khan Yunis. Si tratta del bilancio giornaliero più pesante per l’esercito dall’inizio dell’offensiva di terra il 27 ottobre e porta il numero complessivo di soldati morti a 219. Un altro articolo di Haaretz sottolinea che le critiche delle famiglie dei caduti potrebbero unirsi a quelle dei parenti degli ostaggi nel chiedere al governo “risposte concrete” sull’andamento della guerra.

Intanto l’esercito ha circondato Khan Yunis, la città nel sud della Striscia di Gaza dove si sono rifugiate centinaia di migliaia di persone fuggite dai bombardamenti israeliani nel nord del territorio. Nel suo intervento di oggi Haski scrive che “l’accerchiamento di Khan Yunis segna l’inizio della battaglia più dura dall’inizio della guerra” e smentisce l’idea che Israele stesse per cominciare una fase con azioni più mirate. Il numero delle vittime nella Striscia infatti continua a crescere inesorabilmente e secondo le autorità di Hamas è arrivato a 25.490 morti, in grande maggioranza donne, bambini e adolescenti.

Questo testo è tratto dalla newsletter Mediorientale.

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