Rafah è un’antica città che affonda le sue radici nell’età del bronzo. Si è sviluppata come insediamento agricolo intorno a un’oasi, nel punto in cui il Sinai si unisce alla Striscia di Gaza. Nel 1906, dietro le pressioni britanniche, fu tracciata una linea di confine tra l’Egitto e la Palestina amministrata dall’impero ottomano. Così Rafah fu divisa in due per la prima volta. Con la creazione di Israele nel 1948, quando più di 750mila palestinesi furono costretti a lasciare le loro case in quella che fu chiamata nakba (catastrofe), l’Egitto prese il controllo della Striscia di Gaza, ma Rafah rimase divisa. Dopo la guerra dei sei giorni nel 1967 Israele occupò il Sinai e Gaza, e la vecchia frontiera fu eliminata.

Rafah si riunificò e a cavallo della frontiera furono costruite case e fiorirono le attività commerciali. Le persone si muovevano liberamente da una parte e dall’altra del confine. Le cose cambiarono di nuovo quando il Sinai tornò all’Egitto in seguito agli accordi di Camp David del 1978 ed Egitto e Israele firmarono un trattato di pace, in seguito al quale fu ripristinato il confine e fu aperto il valico di frontiera di Rafah. Il movimento di persone dalla Striscia all’Egitto rimase sotto il controllo israeliano dal 1982 al 2005, quando gli ultimi coloni lasciarono il territorio. In seguito la gestione del valico fu condivisa tra Egitto, Autorità nazionale palestinese e Unione europea. Ma quando Hamas prese il controllo della Striscia nel giugno del 2007 l’Unione europea si ritirò e Israele ed Egitto decisero di bloccare il passaggio per motivi di sicurezza, tagliando il territorio palestinese fuori dal resto del mondo.

Da allora il passaggio è stato aperto solo a intermittenza. Per i palestinesi non è mai stato facile attraversarlo. Bisogna presentare con due o quattro settimane di anticipo una richiesta ad Hamas, che può respingerla senza spiegazioni né preavviso, come possono fare anche le autorità egiziane. In risposta alle restrizioni di movimento e al blocco imposto sul territorio, fu creato un sistema di tunnel per collegare la Striscia all’Egitto e consentire a persone e cose di attraversare la frontiera illegalmente. Nel 2015 Il Cairo inondò i tunnel per mettere fine al contrabbando, danneggiando gravemente l’economia del territorio palestinese. Negli anni seguenti alcuni sono stati ripristinati. Rafah ha continuato a essere una cittadina di traffici, scambi commerciali e movimenti di persone, comprese le famiglie rimaste separate dalla linea del confine.

L’Egitto è l’unico paese confinante con la Striscia di Gaza a parte Israele e i due territori condividono un confine lungo circa tredici chilometri. Il valico di Rafah è uno dei tre che collegano la Striscia con l’esterno e il solo a non confinare con Israele. Gli altri due – Erez, nel nord, riservato alle persone, e Kerem Shalom, nel sud, per il passaggio di prodotti commerciali – sono rimasti chiusi dal 7 ottobre. Quindi il valico di Rafah è l’unico dal quale possono uscire le persone ed entrare gli aiuti umanitari. Dall’inizio dell’operazione militare israeliana il 7 ottobre, l’Egitto ha accolto circa 1.700 palestinesi gravemente feriti per farli curare nei suoi ospedali.

Prima della guerra cinquecento camion di beni commerciali e cento di aiuti entravano nel territorio palestinese ogni giorno, secondo le stime dell’Onu. Dopo un blocco totale di qualche settimana, dal 21 ottobre è stato concesso il passaggio di una media di 31 camion al giorno. “Una goccia nell’oceano”, l’aveva definita Michael Ryan, capo del programma per le emergenze dell’Organizzazione mondiale della sanità. Oggi sono circa 170 ogni giorno. La possibile invasione dell’esercito israeliano a Rafah potrebbe ostacolare o bloccare del tutto la distribuzione di questi aiuti, aumentando in modo esponenziale quello che è già “un incubo umanitario”, come ha detto il segretario generale dell’Onu António Guterres.

Il 7 febbraio il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha annunciato un’offensiva dell’esercito su Rafah, che lui descrive come l’ultimo bastione di Hamas nella Striscia. Di fronte a questa minaccia sono aumentate le pressioni internazionali per raggiungere un accordo che comprenda un cessate il fuoco e la liberazione degli ostaggi israeliani nelle mani di Hamas. Gli sforzi diplomatici continuano: il 13 febbraio i dirigenti della Cia e del Mossad, i servizi segreti statunitensi e israeliani, hanno incontrato i rappresentanti politici di Egitto e Qatar al Cairo, ma il 14 febbraio Netanyahu ha deciso di ritirare la propria delegazione diplomatica dall’Egitto.

Intanto a Rafah si vive nel terrore, sapendo che se l’esercito israeliano invadesse la città non ci sarebbe più nessun posto dove fuggire. Fino a cinque mesi fa nella città abitavano 280mila persone. Ora sono 1,4 milioni, metà dell’intera popolazione della Striscia di Gaza. Ammassati in 63 chilometri quadrati, con una densità di 22.200 persone per chilometro quadrato, gli sfollati hanno riempito scuole, rifugi e ogni altra struttura disponibile. Il prezzo di un piccolo appartamento è schizzato da cento a cinquemila dollari al mese. Ma le persone si sono ormai accampate ovunque: per strada, nei parcheggi, nelle auto.

Durante un’intervista all’emittente statunitense Abc News il 10 febbraio Netanyahu ha assicurato che l’esercito sta organizzando un “passaggio sicuro” per trasferire i civili. Ma non è chiaro in cosa consiste il piano e molti osservatori sottolineano che le affermazioni di Netanyahu sono poco convincenti. Secondo Al Jazeera è evidente che “l’esercito israeliano non ha intenzione di proteggere i palestinesi, com’è stato finora. Non c’è nessun posto sicuro per i palestinesi e nessun posto sarà sicuro quando comincerà l’invasione di Rafah”.

Il Wall Street Journal scrive che Israele avrebbe presentato all’Egitto un piano di evacuazione, che prevederebbe la concentrazione dei palestinesi in un’area ristretta nell’ovest della Striscia, a ridosso del mare. Nella zona di Al Mawasi sarebbero allestiti quindici accampamenti, ognuno composto da 25mila tende e attrezzato con strutture mediche, che dovrebbero essere finanziati dagli Stati Uniti e dai paesi arabi. Un’altra possibilità di cui si parla molto in questi giorni è il trasferimento dei palestinesi nel vicino Egitto.

“La crisi umanitaria potrebbe avere anche ramificazioni più ampie”, avverte il Wall Street Journal in un altro articolo, “se i palestinesi ammassati a Rafah cercassero di entrare con la forza in Egitto, che finora ha resistito a un trasferimento su grande scala per paura che questo possa diffondere instabilità e segnare la fine di qualunque futuro stato palestinese, l’esercito egiziano potrebbe dover scegliere tra respingere civili disarmati o accettare una crisi di rifugiati nella già precaria penisola del Sinai”.

Rifugiate palestinesi a Rafah, nel sud della Striscia di Gaza, nel maggio 1977. (Moshe Milner, Gpo/Getty Images)

Circa dieci anni fa, di fronte a un’ondata di insorgenza nel Sinai, l’esercito rase al suolo la parte egiziana di Rafah, trasferendo migliaia di abitanti ed espandendo la zona cuscinetto con Israele. Come ricostruisce Mada Masr, negli anni seguenti l’Egitto ha separato il Sinai dalla Striscia di Gaza con due muri. Il primo è un’estensione della barriera costruita da Israele per separare la Striscia di Gaza dal suo territorio e scorre lungo tutto il confine egiziano fino al mar Mediterraneo. È progettato specificatamente per prevenire la costruzione di tunnel, è alto sei metri e continua per altri sei sottoterra, attrezzato con una rete di radar e di sensori. Il secondo è un muro di cemento armato alto sei metri, che si estende lungo il confine con torri di sorveglianza. Da novembre è stato rafforzato con fortificazioni di sabbia e cemento.

Nelle ultime due settimane l’Egitto ha militarizzato ulteriormente la frontiera, inviando truppe e circa quaranta carri armati e innalzando altri muri di cemento armato sormontati da filo spinato. Come sottolinea il New York Times, l’Egitto teme che una volta espulsi nel suo territorio, ai profughi palestinesi sia impedito il ritorno nelle loro terre, proprio come avvenne nel 1948. E la presenza di tutti questi profughi nel Sinai potrebbe avere conseguenze imprevedibili sulla sicurezza del paese: “Rifugiati palestinesi irrequieti e amareggiati potrebbero lanciare attacchi contro Israele dal territorio egiziano, provocando la reazione di Tel Aviv, oppure essere reclutati dall’insurrezione locale che l’Egitto combatte da anni. Inoltre Il Cairo teme anche la diffusione nel suo territorio di Hamas, a causa delle sue origini come ramo dei Fratelli musulmani, l’organizzazione politica islamista salita al potere in Egitto dopo la primavera araba del 2011”.

Scambio di accuse

Le tensioni tra Egitto e Israele sono presenti dall’inizio delle operazioni militari nella Striscia di Gaza e sono aumentate a gennaio, quando Israele ha detto di voler prendere il controllo di una stretta zona cuscinetto smilitarizzata che separa la Striscia dalla penisola dei Sinai, conosciuta come corridoio Philadelphi. Tel Aviv ha accusato Il Cairo di lasciare margine di manovra ad Hamas per contrabbandare armi nel territorio palestinese attraverso questa zona. L’Egitto da parte sua parla di “menzogne” e ha minacciato di sospendere il trattato di pace con Israele, in caso di un’offensiva di terra su Rafah.

In seguito però Il Cairo ha abbassato i toni. Il 12 febbraio il ministro degli esteri Sameh Shoukry ha detto: “Esiste un accordo di pace con Israele da più di quarant’anni e ci assicureremo che duri”. Secondo Le Monde l’Egitto, alle prese con una grave crisi economica, non può permettersi di rimettere in discussione l’accordo e rischiare di perdere il sostegno degli Stati Uniti, né di finanziare un rafforzamento militare massiccio per una guerra con Israele che non vuole e non gli conviene.

Alcuni osservatori avvertono che in realtà l’Egitto si sta preparando da mesi al possibile arrivo dei profughi palestinesi. Hasni Abidi, direttore del Centro di studi e ricerca sul mondo arabo e mediterraneo di Ginevra, ha detto a L’Orient-Le Jour che dall’inizio dell’offensiva terrestre israeliana “informazioni non confermate” fanno riferimento alla costruzione di nuovi alloggi nel Sinai, ma non si sa se sono destinati “agli egiziani costretti a trasferirsi per motivi di sicurezza o agli abitanti di Gaza sfollati con la forza”.

L’organizzazione Sinai foundation for human rights, con sede nel Regno Unito, ha rivelato che in un’area del Sinai orientale sono in corso dei lavori per la costruzione di cinque complessi, affidati al gruppo Al Arjani che ha ottenuto un contratto governativo della durata di un anno e mezzo. Già a gennaio del 2023 l’organizzazione aveva reso pubblico un piano messo in atto dal governo egiziano per espropriare delle terre appartenenti alle popolazioni tribali del Sinai, che sono state trasferite in altre zone del paese. La promessa di farle tornare non è stata rispettata e le loro proteste sono state represse. Due abitanti originari della zona hanno confermato all’organizzazione che “quello che sta succedendo nell’area è un preludio all’accoglienza permanente dei profughi palestinesi”.

L’analista politico ed economico Amer Shobaki è della stessa opinione e ha confermato a L’Orient-Le Jour: “Anche se non lo dicono ufficialmente, gli egiziani hanno già deciso di accettare di ricevere i profughi palestinesi”. Secondo l’esperto l’Egitto si piegherà alla richiesta di Israele nella speranza di beneficiare del sostegno internazionale, tenendo conto del suo tentativo di ottenere un aumento dei prestiti del Fondo monetario internazionale per far fronte alla crisi economica. Resta da vedere se Il Cairo riuscirà a mantenere un equilibrio nazionale in caso di un grande afflusso di profughi da Rafah. Il quotidiano libanese avverte che il governo egiziano non ha elaborato nessun piano concreto per far fronte a questa situazione e che la posta in gioco è alta per il presidente Abdel Fattah al Sisi, che cerca di mantenere la calma nel paese dove è forte la vicinanza alla causa palestinese, in un contesto regionale in pieno subbuglio.

Intanto a Rafah si continua a morire. In un’operazione compiuta il 12 febbraio per liberare due ostaggi – Fernando Simon Marman e Louis Har, rispettivamente di sessanta e settant’anni – Israele ha causato un centinaio di vittime tra i civili, secondo un calcolo di Hamas. Il ministero della salute del gruppo ha annunciato oggi un nuovo bilancio delle vittime. Da quando è cominciata l’operazione militare israeliana nella Striscia il 7 ottobre sono morte 28.576 persone e 68.291 sono state ferite.

Questo testo è tratto dalla newsletter Mediorientale.

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