È arrivato nelle sale (poche, in realtà, ma è atteso anche su Mubi) il documentario Dahomey della regista francosenegalese Mati Diop, vincitore dell’Orso d’oro all’ultima Berlinale. Il film si aggancia al dibattito culturale sulle restituzioni delle opere d’arte trafugate dagli eserciti europei ai tempi della colonizzazione dell’Africa. Queste discussioni non sono un fatto recente: avevano già preso slancio ai tempi delle indipendenze africane degli anni sessanta, ma negli ultimi anni si sono riaccese con l’affermarsi di movimenti antirazzisti e decoloniali.

In particolare se n’è parlato dopo la pubblicazione nel 2018 di un rapporto in Francia, commissionato dal presidente Emmanuel Macron e affidato al filosofo ed economista senegalese Felwine Sarr e alla storica dell’arte Bénédicte Savoy. Il documento riflette sugli aspetti culturali e legali delle restituzioni, e fa un inventario delle opere custodite in Francia che potrebbero essere riportate nei paesi d’origine.

Come fa notare un articolo di Africa is a country, l’ultimo capitolo del rapporto è intitolato “Accompagnare il ritorno delle opere” ed è proprio quello che fa Mati Diop nel suo film. Mati Diop è la nipote di Djibril Diop Mambéty, regista celebrato per il suo Touki Bouki (1973) e considerato una leggenda del cinema africano. Ha già firmato un film molto bello, Atlantique, una storia di migrazione dai tratti horror, premiato a Cannes nel 2019. Come ha raccontato in alcune interviste, Diop aveva intenzione di girare un film di fiction sulle restituzioni, di immaginare il destino di una maschera africana dal momento del suo furto al futuro. Ma la realtà si è imposta e ha scelto di girare un documentario, senza rinunciare però a inserire elementi fantastici.

Una legge ad hoc

In Dahomey segue quella che è considerata la prima grande restituzione ufficiale di questi anni. Filma infatti il viaggio di 26 opere d’arte dell’antico regno del Dahomey (oggi Benin) dal museo del Quai Branly, di Parigi, al palazzo presidenziale di Cotonou, in Benin. Le opere – che comprendono tre grandi statue degli antichi monarchi fon del regno del Dahomey, Behanzin, Glelé e Ghezo – furono portate via dal palazzo reale di Abomey come bottino di guerra dall’esercito coloniale francese guidato dal generale Alfred Amédée Dodds nel 1892, nel corso della seconda guerra franco-dahomeana, alla fine della quale il regno diventò un protettorato francese. Fino al 2022 quella collezione – formata anche da troni scolpiti e altri oggetti regali – è stata conservata in Francia.

Nel 2020 il parlamento francese ha approvato una legge che autorizzava il trasferimento della proprietà e la restituzione di quelle opere. Nei mesi successivi si è preparato il loro ritorno in Benin, dove nel febbraio 2022 è stata inaugurata una grande mostra al palazzo della Marina di Cotonou. Nel film di Diop vediamo la sfilata dei dignitari e i discendenti dei reali del Dahomey aggirarsi tra le teche. Più suggestive ancora sono le reazioni delle persone comuni o degli operai che hanno lavorato all’allestimento, al momento dell’incontro con le testimonianze di un passato ancora poco conosciuto: c’è curiosità, ma anche molta emozione e fierezza. La mostra è rimasta aperta per quattro mesi e ha attirato 200mila visitatori. La promessa delle autorità beninesi è che le opere siano esposte in un museo di nuova costruzione, ma a oggi non ha ancora aperto.

Anche Parigi non ha mantenuto le sue promesse. Come racconta un articolo di Le Monde, in Francia ci sono ancora 90mila oggetti originari dell’Africa subsahariana, 70mila dei quali sono conservati nel museo del Quai Branly. Una legge per facilitare le restituzioni doveva essere discussa dal parlamento ad aprile ma è stata rinviata, e non se ne ha più notizia. In questo mondo, fa notare il giornalista Michel Guerrin, si scontrano anche due concezioni diverse: c’è chi, come Savoy, preme affinché tutti gli oggetti ottenuti con la colonizzazione siano restituiti, senza fare distinzioni. Altri, invece, soprattutto i rappresentanti di grandi musei e istituzioni culturali, chiedono che le restituzioni siano discusse oggetto per oggetto, singolarmente a partire dalla storia del singolo manufatto, cosa che rallenta inevitabilmente ogni processo.

Altri paesi europei sono stati più solleciti. La Germania, per esempio, ha trasferito alla Nigeria la proprietà di più di mille bronzi del Benin, che sono custoditi nei suoi musei. Ora spetta alle autorità nigeriane chiederne il rientro in patria. Una decisione simile è stata presa da un museo londinese e dallo Smithsonian di Washington. I Paesi Bassi hanno restituito a Indonesia e Sri Lanka cinquecento opere d’arte, frutto delle loro avventure coloniali nel sudest asiatico. Il Belgio, invece, ha presentato alla Repubblica Democratica del Congo una lista di migliaia di opere – in gran parte conservate all’AfricaMuseum di Tervuren, vicino a Bruxelles – che possono essere cedute dietro richiesta di Kinshasa.

Nel suo film Mati Diop cerca comunque di guardare oltre la teatralità della restituzione e del singolo gesto diplomatico. Innanzitutto la regista fa parlare un “coro” di giovani beninesi, studenti dell’Università Abomey-Calavi, per mettere in discussione il significato di “restituzione”, che spesso per effetto di una strumentalizzazione politica e mediatica può finire per apparire solo un espediente di promozione del turismo in Benin.

Dall’altra, Diop cerca di guardare alla storia in senso più ampio e lo fa dando simbolicamente voce, con un testo evocativo scritto dal poeta haitiano Makenzy Orcel, a una delle opere, la 26, la statua del re Ghezo, che in un certo senso rifugge l’idea che il suo ritorno in patria sia un momento storico. “Dove sono, dovrei essere? Mi chiedo se questo cambierà nulla nel vasto cantiere del presente che è la storia”, si chiede la statua. Per poi concludere: “Non me ne sono mai andato… Non c’è niente da riparare, ci sono i sogni del continente, il cammino che ci chiama alla fine. Sono il volto della metamorfosi… 26 non esiste”.

Questo testo è tratto dalla newsletter Africana.

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