Il 23 novembre la chiusura della conferenza sul clima Cop29, che si è svolta a Baku, in Azerbaigian, è stata una doccia gelata per gli attivisti ambientalisti del sud del mondo, e in particolare per quelli africani. “Erano arrivati a Baku con grandi speranze e poche chiare richieste”, scrive il sito African Arguments. “Chiedevano che i paesi sviluppati mettessero a disposizione almeno 1.300 miliardi di dollari all’anno da oggi al 2035” per aiutare quelli più poveri a fare i conti con i cambiamenti climatici. Alla fine il sud globale ha ottenuto un accordo per appena 300 miliardi di dollari. African Arguments ha raccolto i commenti di alcuni attivisti e negoziatori africani, profondamente delusi per l’esito delle trattative e per la gestione dell’Azerbaigian, che ammetteva candidamente che “il petrolio e il gas sono doni di dio”, come ha ricordato Ferdinando Cotugno nel suo intervento al podcast Il Mondo.
L’Africa produce appena il 3,2 per cento delle emissioni di gas serra globali ed è colpita in modo sproporzionato dalla crisi climatica, come si legge nell’ultimo rapporto della World meteorological organization: in media, i paesi africani perdono tra il 2 e il 5 per cento del pil a causa dei cambiamenti climatici e molti devono usare il 9 per cento del loro budget per contrastarli. Nel continente le temperature salgono più rapidamente che altrove e le siccità pluriennali sono sempre più frequenti, così come le alluvioni devastanti (su questo abbiamo pubblicato un articolo la settimana scorsa).
Per Mohamed Adow, direttore dell’organizzazione ambientale keniana Power shift Africa, “la Cop29 è stata un disastro, un tradimento dei popoli e del pianeta, compiuto da stati ricchi che prendono sul serio il cambiamento climatico solo a parole. Promettono di mobilitare dei fondi, ma in tutta l’Africa, già ora, si perdono fonti di sostentamento e vite umane. I leader africani ora devono collaborare per mettere insieme risorse complementari e investire il più possibile sulle energie pulite”.
Secondo Evans Njewa, negoziatore del Malawi, la conferenza si è chiusa con un misto di orgoglio e dolore: “L’orgoglio per la resilienza del nostro schieramento, che ha lottato per la sopravvivenza dei più vulnerabili. Ma anche dolore, perché si sono infrante le nostre speranze di ottenere giustizia”.
Bilancio amaro
Anche in altre parti del mondo il bilancio è amaro. “Nonostante decenni di progressi scientifici che hanno chiaramente mostrato i rischi derivanti dalle emissioni di gas serra, i paesi ricchi si sono più volte sottratti alle loro responsabilità”, scrive il quotidiano indiano The Hindu. Oggi “l’azione climatica è inquadrata in una logica di mercato più che di solidarietà globale”. La conferenza sul clima di quest’anno è stata un insuccesso per l’intero “sistema delle Cop”, scrive New Scientist (in un articolo che riprendiamo questa settimana su Internazionale) citando le parole del ricercatore cinese Li Shuo, del centro studi statunitense Asia society policy institute. Nel 2025, sostiene Li Shuo, “in Brasile servirà più leadership per ottenere un risultato in linea con gli obiettivi di Parigi”.
L’idea è che, ancora una volta, gli interessi di singoli paesi abbiano prevalso su quello generale di conservare un pianeta ancora vivibile per tutti i suoi abitanti. Paesi produttori di petrolio come gli Emirati Arabi Uniti, che l’anno scorso hanno ospitato la Cop28, l’Azerbaigian o l’Arabia Saudita (accusata quest’anno di aver apportato unilateralmente delle modifiche al testo dell’accordo) ostacolano ogni progresso riguardo l’abbandono dei carburanti fossili. Quelli con le economie più sviluppate – e che producono più emissioni – sono restii a pagare per gli altri. Le Cop sono dei meccanismi che dovrebbero garantire il bene del pianeta e di tutti i suoi abitanti, ma gli interessi nazionali continuano a prevalere.
Non è arrivato il momento di superare un ordine globale fondato sugli stati e immaginare un modello di governance diverso, su scala “planetaria”, alla cui base non ci sia solo l’essere umano, ma tutte le relazioni dei viventi (e non) che abitano la Terra? Questo è stato il tema centrale dell’incontro Planetary summit, organizzato il 23 e 24 novembre a palazzo Diedo, a Venezia, dal Berggruen institute, un centro studi con sedi anche a Los Angeles e a Pechino, fondato dal miliardario tedesco-statunitense Nicolas Berggruen e da Nathan Gardels, politologo e giornalista, oggi direttore di Noema Magazine.
“Dall’innalzamento dei mari ai virus, molti dei problemi di oggi e di domani sono di scala planetaria”, scrivono Nils Gilman e Jonathan Blake, giornalisti di Noema. “Con ‘planetaria’ s’intende ogni questione, processo o condizione che riguarda la Terra e va oltre lo stato nazionale. Di solito si usano i termini ‘globale’ e ‘globalizzazione’ per parlare di temi di rilevanza mondiale, ma il globo come categoria concettuale guarda alla Terra in termini umani. Il planetario, invece, non fa uno specifico riferimento all’essere umano… La Terra non è solo nostra”.
Questo cambiamento di punto di vista è auspicato da ricercatori in varie discipline, da primatologi e antropologi ad astrofisici ed astrobiologi. Per esempio, lo storico delle idee britannico Thomas Moynihan ha presentato una prospettiva quasi ottimista, sottolineando che abbiamo ancora molto da imparare su come trattare il nostro pianeta, che le società possono progredire e che non stiamo marciando inesorabilmente verso l’estinzione. A questo proposito ha citato un esempio, quello dell’ingegnere statunitense William Lamont Abbott, che meno di cent’anni fa proponeva di bruciare tutto il carbone presente sulla Terra, perché pensava che avrebbe avuto degli effetti benefici su una Terra troppo fredda.
Ma la questione per me più interessante – e qui torna il discorso sulla Cop – è stata quella delle ripercussioni sulla politica mondiale. Per Nathan Gardels è necessario “ridefinire il significato di ‘realismo’ nella geopolitica”, abbandonando la centralità dello stato nazionale. “La realtà di oggi chiede un nuovo tipo di realismo, da applicare di fronte a sfide condivise e cruciali che non possono essere affrontate singolarmente da un solo paese o gruppo di stati”. La prospettiva è condivisa da storici come l’indiano Rana Dasgupta, che sta per pubblicare il saggio After nations e che sul Guardian aveva già parlato del declino dello stato nazionale.
Più che delle risposte precise, sono emersi dei suggerimenti di buone pratiche che possiamo osservare già oggi. L’ex commissario europeo Pascal Lamy, oggi vicepresidente del Paris peace forum, ha citato le reti internazionali formate dalle amministrazioni delle grandi città o da istituzioni accademiche per affrontare singoli problemi, mentre il ricercatore olandese Frank Bierman ha sottolineato l’importanza del fatto che ogni futura forma di governance planetaria si basi sui concetti di equità e giustizia. Per la filosofa e femminista italiana Rosi Braidotti, l’Unione europea è già un esempio di post-nazionalismo e ha citato tra i valori alla base di nuove istituzioni “l’emancipazione planetaria, al posto del patriarcato terreno”. L’esperta di politica estera statunitense Anne-Marie Slaughter, che era ai vertici del dipartimento di stato ai tempi dell’amministrazione Obama, ha a sua volta immaginato un mondo di reti di partner, formate da attori statali e non statali. Tra i vari interlocutori è stata una dei pochi a parlare degli stati africani e del loro rinnovato dinamismo nell’epoca della competizione tra grandi potenze. Secondo Slaughter è stato anche grazie ai loro voti se a settembre le Nazioni Unite sono riuscite ad adottare il Patto per il futuro per trasformare la governance mondiale.
Questo dibattito ha lasciato sicuramente più interrogativi e preoccupazioni che delle certezze sul futuro del pianeta. Ma, come hanno sottolineato in molti, le rivoluzioni non si fanno in un giorno.
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Questo testo è tratto dalla newsletter Africana.
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