Dallo straordinario ultimo concorso di Cannes arriva in sala Il seme del fico sacro del regista iraniano Mohammad Rasoulof. Vincitore del premio speciale della giuria, è un capolavoro assoluto come già il precedente lungometraggio del cineasta, Il male non esiste (There is no evil), Orso d’oro a Berlino nel 2020, ma purtroppo poco conosciuto in Italia. Una volta tanto è l’opera a incarnare il suo autore, per così dire, fuggito dal paese dopo la definitiva sentenza di condanna a otto anni di carcere alla quale certamente si sarebbe aggiunta quella per questo film. Rasoulof ha incredibilmente aggirato la censura e lo scorso maggio lo ha portato in modo fortunoso sul tappeto rosso di Cannes.
Come ho già scritto, il film di Rasoulof era la Palma d’oro in pectore, l’opera più significativa del Concorso insieme all’inclassificabile Megalopolis, l’ufo di Francis Ford Coppola. Avrebbe infatti meritato la Palma più dell’anarcoide e iconoclasta Anora di Sean Baker; e supera l’inatteso film sociale sotto forma di film-sogno All we imagine as light, della cineasta indiana Payal Kapadia e vincitore del Gran prix, il secondo premio per importanza nella scala gerarchica del palmares.
Figlio delle proteste che hanno incendiato l’Iran nel 2022, mentre Rasouloff si trovava in carcere, Il seme del fico sacro è un’opera potente e all’apparenza semplice, trascinante per quanto grave, geniale nella scrittura delle dinamiche psicologiche sempre inscindibili da quelle sociali. Un caleidoscopio delle contraddizioni con cui ci confrontiamo tutti, e non solo la soffocata società iraniana, inno alla rivolta giovanile, e in primo luogo femminile, ma senza posa retorica. Il seme del fico sacro è un affresco perfetto nella messa in scena. Probabilmente ha anche una valenza politica il richiamo ai generi del cinema statunitense – thriller, film azione, noir, western, con forse anche qualcosa dell’horror –, ma per quanto sapiente non ha niente del metacinema occidentale e del gioco sulle forme: l’opera è grave perché porta in modo naturale la consapevolezza quasi antica che l’ora si è fatta troppo buia per tutti. Non è un caso che cominci con un prologo notturno, misterioso ma solenne, che richiama l’antico.
Il film rappresenta ovviamente un mondo in conflitto con l’antico, ma bisogna anche mettersi d’accordo su quale antico. L’arcaico del prologo sembra affascinante, ma il suo immediato proseguimento contemporaneo nel corridoio del tribunale, inquadratura ripetuta e dal sapore onirico, in cui è sempre incerta la cesura tra il giorno e la notte, è esattamente il suo opposto. Siamo negli anonimi palazzi-meandro in qualche modo di matrice kafkiana. Ogni inquadratura, costruita in modo raffinato, ha qualcosa della proiezione di un oscuro labirinto mentale e sociale, in cui l’essere umano si è perso, pur riuscendo a costruire una credibile narrazione quasi prosaica del quotidiano di una famiglia.
L’arcaismo religioso più ottuso e congelato nel tempo si scontra con i movimenti ineluttabili della tecnologia e della sua diffusione pervasiva, che qui sfugge al controllo del potere politico, ma che allo stesso tempo diventa radiografia della contemporaneità. Rasoulof inverte genialmente ruoli e situazioni. Il carceriere, o meglio il giudice che condanna al carcere, diventa progressivamente un carcerato. Chi solitamente condanna è progressivamente condannato all’angoscia e all’incertezza, al sospetto. E fin dentro le mura familiari.
Il seme del fico sacro da un lato è un film sulla circolazione del male (l’arcaismo, anche nel senso positivo della parabola antica) ma con appunto i valori rovesciati (il male è simboleggiato dagli uomini di legge, aspetto ricorrente nel cinema noir e non solo); dall’altro è un’opera sull’arrivo inevitabile della modernità, anche negli aspetti criticabili e ambigui, ma portatrice di scelte libere.
Iman, uomo affascinante sui quarant’anni, sta per essere promosso a giudice istruttore del tribunale della Guardia rivoluzionaria. In famiglia c’è grande fermento e soddisfazione, in particolare da parte della moglie Najmeh: “Avremo un appartamento di tre stanze. Le ragazze sono troppo grandi per continuare a condividere la stessa stanza”, dice al marito. Le due figlie adolescenti all’inizio un po’ indifferenti sembrano finalmente interessate quando vengono a sapere che avranno una stanza ciascuna. Nella grande attesa crescono con intensità i dubbi del marito sul suo avanzare di carriera: deve firmare delle condanne a morte senza guardarle, e anche se possono essere impugnate la cosa lo opprime nel profondo: “Pensano di potermi costringere a fare qualsiasi cosa”, confida alla moglie. Il tormento interiore continuerà, con alti e bassi, mentre nella struttura repressiva cresce la paura che sfocerà in parte in paranoia: su internet sono stati divulgati indirizzi e telefoni di diversi suoi appartenenti.
A queste immagini si sovrappongono presto quelle delle proteste per la morte di Mahsa Amini, del settembre 2022: nella perfezione formale del film di finzione si innestano i video caricati da tutti su social network e forum, che la figlia maggiore del giudice, grande amica di una delle ragazze ferite e poi arrestate e scomparse, guarda e commenta atterrita. Qui c’è una scena magistrale: seppur refrattaria, Najmeh soccorrerà in casa sua la ragazza ferita. È uno scambio, quasi un travaso tra corpi: questa corporeità del dolore, fisico e interiore, trova la sua inquadratura finale nella mano della moglie del giudice, insanguinata e con sopra i pallettoni sparati dalla polizia, sul volto della giovane: non siamo in un paese cristiano eppure quell’immagine richiama chiaramente qualcosa delle stigmate.
L’amica era venuta a casa poco prima a pranzo e a Najmeh aveva detto: “All’inizio è un po’ difficile stare in un dormitorio universitario. Ma poi conosci tante persone e tutte diverse. Diventi più indipendente”. Il punto di vista è particolarmente occidentale, ma per la figlia maggiore di Najmeh è normale.
Per Najmeh, invece, “i rivoltosi hanno danneggiato proprietà pubbliche e private”. Sono commenti che si potrebbero sentire anche in Italia, quando esplode la rabbia per quelli che sono visti come soprusi. Ma in Iran il problema è la mancanza di base di libertà – “I presidi non stanno più registrando le assenze” – anche per quanto riguarda le scelte più allegre, come quella dell’adolescente che si vuole tingere i capelli di blu o della sorella minore che vorrebbe lo smalto sulle unghie anche se è ancora una ragazzina.
Forse l’occidente si sta un po’ perdendo in cose frivole, mentre i suoi problemi si aggrovigliano. Tuttavia, non è la repressione cieca la risposta, semmai il dibattito. Ma se si “arrestano le persone per l’abbigliamento” perché è “la legge del paese”, “forse è sbagliata?” azzarda la figlia maggiore con la madre, per la quale invece “è la legge di dio”. “Perché sei così sicura che sia questa la legge di dio?”, le chiede la figlia.
Presto però succede un evento che stravolge tutti gli equilibri: la pistola assegnata al padre e tenuta a casa scompare, e lui rischia non solo la carriera, ma anche il carcere. La pistola è qui un chiaro simbolo del potere, riconosciuto dallo stesso regista. La sua scomparsa, che si protrae nel tempo fa letteralmente impazzire il padre (“In casa mia non mi sento al sicuro”), quindi il potere: “Ho sempre fatto sì che non vedeste la vera natura di vostro padre”, dirà più tardi Najmeh. Il padre si muta in orco, l’orco del potere, come un mini Trump familiare: le nostre democrazie, governate da dirigenti inconsistenti hanno preparato il terreno per l’avvento dei grandi orchi, e ora se ne addolorano. Fuori campo ci siamo anche noi.
Come dirà una notte Iman alla moglie: “Mi sottometto a chi si sottomette a te. Combatto contro chi combatte contro te. Fino al giorno del giudizio”. Quel giorno del giudizio ha qui le sembianze di un finale western.
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