Questo articolo è stato pubblicato il 2 giugno 2016 nel numero 1156 di Internazionale.
Ogni volta che mi parlava dei suoi 35 anni di matrimonio con mio padre, mia madre finiva con il solito ritornello: “Sono sempre stata una donna indipendente. Ma anche un uomo indipendente. Ho dovuto arrangiarmi da sola ogni giorno di ogni anno, sempre”. So cosa intendeva. L’Iran è il paese in cui sono nata, sono andata a scuola e ho lavorato per vent’anni. Non so se sia un’eccezione, ma sicuramente l’Iran è un posto in cui le donne sono da un lato assolutamente uguali agli uomini e dall’altro assolutamente no.
Pensavo a questo mentre rovistavo in fondo allo zaino per trovare l’acetone e i dischetti di cotone che potevano risolvermi un problema. Il mio smalto non era per nulla appariscente: a furia di cucinare e lavare piatti, il colore era ridotto a una macchia sbiadita. Con quelle unghie non avrei certo potuto indurre un uomo in tentazione, ma dovevo incontrare un rappresentante del clero nella sede dell’ufficio centrale di topografia dell’esercito della repubblica islamica dell’Iran, e né l’ufficio di topografia né il rappresentante del clero sarebbero stati contenti di vedermi con dei colori addosso, sbiaditi o no. Così ho strofinato le unghie con quello che avevo a disposizione e ho infilato in una tasca dello zaino il batuffolo di cotone impregnato di quell’odore pungente. Dopodiché ho indossato un hijab: era impensabile che mi facessero entrare con un semplice scialle. Me lo sono sistemato come si deve sulla testa, in modo che non si vedesse neppure un capello.
Una guardiana che indossava uno chador mi ha chiesto che cosa facessi lì. Poi mi ha squadrato di nuovo e ha detto: “Il suo spolverino è troppo corto. Ed è anche truccata. No, non può entrare”
Come mi aspettavo, l’ufficio di topografia aveva ingressi separati per maschi e femmine. Ho fatto un bel respiro e sono entrata. Una guardiana che indossava un chador mi ha chiesto cosa facevo lì. Gliel’ho detto. Mi ha chiesto se ero sicura che Haj Aqa ci fosse: “Non è uno dei giorni in cui viene qui”. Le ho ripetuto che avevo appuntamento con Haj Aqa alle dieci, e che si stava già facendo tardi. La donna mi ha squadrato di nuovo e ha detto: “Il suo spolverino è troppo corto. Ed è anche truccata. No, non può entrare”. Il mio spolverino arrivava sotto al ginocchio e non avevo neanche un filo di trucco.
Mi è squillato il cellulare: era Haj Aqa in persona. Voleva sapere se ero arrivata. Aveva un volo per la Mecca più tardi e non poteva permettersi il minimo ritardo. Gli ho detto che ero bloccata al piano di sotto, al controllo della sicurezza, e che non mi facevano entrare. “Dicono che non ho un abbigliamento appropriato”. Prima è rimasto sorpreso, poi si è arrabbiato. Mi ha detto di non muovermi, e un attimo dopo aveva sceso le scale ed era lì davanti a noi.
Fino a quel momento conoscevo Haj Aqa solo attraverso i suoi articoli. Sembrava una persona colta, istruita e di buon senso, e per questo gli avevo chiesto di concedermi un’intervista. Ora lo vedevo per la prima volta, mentre si rivolgeva alla donna della sicurezza: “Questa signora viene su con me”. La donna è scattata subito in piedi. “Ma Haj Aqa, l’hijab non è appropriato. Lo spolverino è troppo corto ed è truccata”. A quel punto, Haj Aqa mi ha ordinato: “Venga con me!”. La voce della donna lo ha seguito fuori dall’area della sicurezza: “Haj Aqa, se succede qualcosa la responsabilità è sua”.
“Cosa potrebbe succedere?”, mi sono chiesta mentre seguivo il religioso nel suo ufficio. Quale possibile disonore poteva arrecare all’ufficio di topografia dell’esercito della repubblica islamica dell’Iran una giornalista alta poco più di un metro e cinquantotto, assolutamente anonima e vestita con scarpe da ginnastica grigie, uno spolverino verde scuro e una sciarpa nera in testa?
Quando siamo arrivati nel suo ufficio, gli ho chiesto a brutto muso: “Perché negli uffici pubblici le donne sono trattate così? Insomma, solo perché non porto il chador faccio diventare questo posto un covo d’immoralità?”. Lui è rimasto qualche secondo in silenzio e poi ha detto: “Vede, l’altro giorno mi hanno rubato l’auto. Sono andato alla stazione di polizia per denunciare il furto. Sentivo borbottare la gente in fila dietro di me. Vuole sapere cosa dicevano? ‘Chi ruba a un mullah è un santo!’. Ecco cosa dicevano. E io non sapevo come replicare. Lo sa perché? Perché la gente è arrabbiata con noi ecclesiastici e ha tutto il diritto di esserlo. Non siamo stati giusti con le persone. In realtà, non siamo stati giusti con questo paese, fin dall’epoca della rivoluzione islamica. Quindi le dirò che anche lei ha tutto il diritto di essere arrabbiata. Ma non si aspetti che io ripeta una cosa del genere durante la nostra intervista”. “Haj Aqa, a questo punto dubito che ci sarà un’intervista”.
Stavo guardando il mio povero registratore. Non so come, il batuffolo impregnato di acetone che avevo infilato nella tasca dello zaino aveva corroso il microfono. Non avevo più il registratore, ma ho fatto lo stesso la mia domanda: “Lei insegna psicologia sociale all’università. Mettiamo che arrivassi in facoltà con le unghie smaltate di rosa, per farle un’intervista. Che cosa penserebbe di me? Mi tratterebbero anche lì come mi hanno trattato qui oggi?”. Lui è rimasto a guardarmi a lungo. Era come se volesse dirmi: ho appena cercato di comunicare a te, una giornalista, le mie onorevoli intenzioni di esponente del clero e funzionario della repubblica islamica. E tu insisti? Ho incrociato il suo sguardo e ho pensato: cosa ti aspetti da una donna, per di più giornalista, in questa città? È questa città che mi ha insegnato a essere spietata. È questo paese che mi costringe a comportarmi come mi comporto e a fare le domande che faccio. Lui si è aggiustato il turbante: “Se due anni fa lei fosse entrata nel mio ufficio con lo smalto rosa non mi sarei fatto una buona opinione di lei”.
Due anni fa significava il 2009, l’anno del movimento verde, un periodo di grandi manifestazioni e arresti. Fingendo di non cogliere l’importanza del riferimento, ho chiesto: “Cosa è successo da allora, per farle cambiare idea?”. “Due anni è un tempo come un altro”, ha risposto, stando al gioco. “Volevo dire che in questi anni ho viaggiato molto. Ho visto un bel po’ di mondo, ormai, ma soprattutto ho letto molta storia. Le dirò una cosa: studiare la storia chiarisce moltissime cose”. Ha guardato il mio cellulare che nel frattempo si era messo a vibrare sul tavolo.
“Haj Aqa, se il telefono la disturba lo metto via”. “Risponda pure, se crede”.
Era il mio capo, al giornale. Voleva sapere quando sarei tornata in ufficio. Con una certa irritazione gli ho detto che ero nel bel mezzo di un’intervista. Lui si è scusato e ha detto che sapeva dov’ero, ma che era stato costretto a chiamarmi lo stesso. “C’è una donna qui. Dice che non se ne va finché non ti vede”. Un’altra pausa, prima di bofonchiare imbarazzato: “Dice che sei stata con suo marito”.
Sono nata a Mashhad, che è la città più religiosa dell’Iran perché ci è sepolto uno dei dodici imam venerati dagli sciiti. Mashhad è un importante centro di pellegrinaggio per gli sciiti di tutto il mondo, e un luogo in cui non mi sono mai sentita a casa. Semmai era Teheran, la capitale, che mi attirava fin da quando, a undici anni, lessi Schiavo d’amore di Somerset Maugham e scoprii nel libro di scienze di mio fratello maggiore come nascevano i bambini. A quindici anni avevo già una mappa della città e restavo a fissarla per ore. Stendevo la mappa sul pavimento dell’appartamento popolare di circa sessanta metri quadrati in cui viveva la mia famiglia di otto persone, e cercavo di memorizzare ogni angolo della capitale.
Quando finalmente sono arrivata a Teheran per frequentare l’università è stato come se la conoscessi da sempre. I musei, i posti di cui avevano scritto i nostri poeti, i quartieri in cui erano state girate sequenze famose dei film finalmente erano miei. Quella era la mia città. Ho trovato quasi subito un lavoro in una rivistina dove potevo guadagnare qualche spicciolo, e giravo a piedi dappertutto.
Mio padre, costantemente preoccupato per la figlia, mi raccomandava per telefono: “Per favore, non andare mai in giro da sola!”. Quando immancabilmente non otteneva la risposta che voleva, concludeva con una delle sue frasi ricorrenti: “Non si può piantare un chiodo nella roccia”. E poi citava un famoso detto del primo imam dello sciismo, l’imam Ali: “Il timore è il difetto peggiore in un uomo e la qualità migliore in una donna”. E poi: “Una donna, a differenza di un uomo, deve avere paura. Ma tu non hai nessuna paura, figlia mia, e così sono io ad avere paura per te”.
“Ho paura per te, Habibe”.
Il mio capo mi ha accolto così al giornale, alzandosi in piedi e chiudendo la porta per evitare gli sguardi indiscreti di tutti i curiosi che si chiedevano chi fosse la donna che era piombata in ufficio accusandomi di avere avuto una relazione con suo marito. La donna non si era sbagliata, ma il marito di cui parlava era un uomo che avevo visto per l’ultima volta sotto il ponte di Seyed Khandan più di due anni prima. Quel giorno lo avevo incontrato per dirgli che non volevo più vederlo perché, tra le altre cose, mi aveva mentito facendomi credere di non essere sposato.
Non ero tenuta a spiegare niente di tutto questo al mio capo, ma l’ho fatto lo stesso. Quando ho finito, mi ha detto: “Comunque stiano le cose, non puoi andare in giro a giustificarti con tutte le persone a cui questa donna ha parlato male di te. Lo capisci? La gente ti giudicherà perché è questo che fa, e perché siamo in Iran. Non scordartelo! Io credo che sia meglio se non vieni al lavoro per una settimana. Dai tempo alla gente di dimenticare tutta questa storia”.
Io mi sono alzata. “Vado a lavorare al pezzo che devo consegnare domani”. E dopo una breve pausa ho aggiunto: “Domattina sarò in ufficio presto”.
Il mio capo ha ripetuto: “Ho paura per te, Habibe”.
Tornando alla mia scrivania, sentivo il peso del “giudizio” di cui parlava il mio capo. I miei colleghi avevano gli occhi incollati agli appunti o allo schermo del pc, ma il loro silenzio sottintendeva una serie di domande. Che ci fai ancora qui? Perché non stai piangendo? Come mai non sei imbarazzata? La mia scrivania era vicina a quella della signorina Ahmadi, la nostra photo editor, anche se il suo lavoro consisteva principalmente nel “migliorare” le immagini che i funzionari pubblici giudicavano inappropriate. Sapevo che la signorina Ahmadi viveva da sola e che con il suo misero stipendio manteneva anche la madre e la sorella minore.
Mentre mi sedevo, ho notato che stava usando Photoshop per disegnare un colletto che coprisse il collo e le spalle nude di Nicole Kidman. Le ho dato una piccola pacca sulla spalla: “Oltre a lavorare con Photoshop, potresti metterti a fare la sarta. Pensa a quante maniche, colletti e pantaloni hai creato dal nulla per donne famose, in tutti questi anni!”.
Lei ha sorriso e ha inforcato un paio di occhiali diversi: “È incredibile, Habibe. Ormai ogni volta che mi mandano una foto la prima cosa che noto sono le caviglie, i seni, gli avambracci e le spalle scoperte che dovrò correggere. Mi sembra di essere diventata come uno di quei maniaci per strada che non vedono altro che carne ovunque”. Ha ingrandito ancora un po’ la splendida figura di Nicole Kidman per assicurarsi di non essersi lasciata sfuggire qualche parte del corpo scoperta.
Le ho dato l’ok, con il pollice alzato. “Un lavoro perfetto”.
Lei si è girata a guardarmi. “Perfetto per chi? Per uno di quegli assatanati fissati col corpo delle donne?”.
Abbiamo riso entrambe.
Era la prima volta che ridevo, quel giorno.
“C’è poco da ridere, Habibe”.
Come al solito, stavo rovistando nel mio zaino alla ricerca di una sigaretta. Sapevo che il mio silenzio stava innervosendo la mia amica Shahrzad. Tornata da Parigi per i due giorni di Natale, Shahrzad aveva lasciato l’Iran cinque anni prima. Era stata la terza delle mie amiche più care a partire. Era andata in Francia a studiare antropologia, poi era rimasta lì. Cioè più o meno quello che fanno tutti: partono per ragioni di “studio” e non tornano più.
Finalmente ho trovato una sigaretta e ho chiesto al giovane cameriere del caffè di darci un posacenere. Lui mi ha guardato esitante, poi ha confessato: “Alle signore non è consentito fumare nei caffè. Se la polizia religiosa scopre che lo permettiamo, ci farà chiudere”. Io gli ho ricordato che dopo alcuni mesi di controlli serrati, ultimamente la polizia aveva allentato la presa. Lui ci ha pensato un po’ e alla fine ha ceduto: “D’accordo”, ha detto. E ci ha indicato un tavolo lontano dall’ingresso: “Sedetevi lì”.
Lo scialle di Shahrzad le è scivolato dalla testa. Accanto a lei era appeso l’avviso della direzione ai clienti: “Per il vostro bene, e per il nostro, siete pregati di controllare le vostre emozioni. Non fumate (comunque vi fa male). E per favore, vi raccomandiamo di verificare che il vostro copricapo islamico sia appropriato”. Dopo aver letto il cartello, Shahrzad ha fatto una smorfia. Io ho riso e mi sono accesa una sigaretta. E lei, scacciando il fumo tra noi: “Non riesco a capire perché resti in questo paese. Perché?”.
“Veramente sto per partire”, ho detto. A questa notizia, lei ha sgranato gli occhi ansiosa di ascoltare il resto. “Vado in Libano”, ho proseguito. “Per lavoro. Vado a intervistare la famiglia dell’imam Musa al Sadr, l’ispiratore di Hezbollah, il partito di Dio. Ho accettato l’incarico di scrivere la sua biografia. Vado a Beirut e nell’estremo sud. Mi portano fino al confine dove si scontrano Hezbollah e Israele”.
Shahrzad si è rimessa lo scialle sulla testa, legandolo ben stretto sotto al mento. “Habibe, non hai paura? Tu no, vero? Ma io sì. Ho paura per te”.
Ma certo che ho paura. In realtà, è tutta la vita che ho paura. Ho avuto paura quando mio fratello mi ha detto che siccome avevo finito gli studi dovevo tornare a Mashhad. Ho avuto paura al controllo dell’aeroporto, quando alla donna che mi chiedeva dove fossi diretta ho risposto “Parigi”, e lei si è chinata verso di me con aria scettica e ha ribattuto: “E può dirmi, se non le dispiace, chi la accompagna per due settimane?”.
Ho avuto paura quando ho visto il mio nome sulla lista delle giornaliste che non potevano tornare al giornale se non correggevano il loro hijab inappropriato. Ho avuto paura nel 2009 quando ho visto un soldato picchiare i manifestanti con il suo manganello in piazza Hafte Tir. E ho avuto ancora più paura quando all’improvviso si è voltato verso di me e mi ha urlato: “Che hai da guardare, tu?”. Ho avuto paura a Maroun al Ras, in Libano, quando ho visto diverse mucche pascolare tranquille dall’altra parte di una recinzione di filo spinato e la mia guida mi ha detto: “Quello è Israele. Siamo al confine”. Sì, ho sempre avuto paura, ma sono andata avanti lo stesso. Ho sempre cercato di reprimere la mia frustrazione con i compatrioti che si sono trasferiti in Europa, Canada e Stati Uniti, e che quando tornano a Teheran in vacanza ammoniscono ogni volta le persone come me che scelgono di restare.
Io ho scelto la via più difficile: non scappare quando la vita si fa dura; restare nel proprio paese e impegnarsi nel dibattito pubblico, anche se ogni tanto ci si deve sottoporre al controllo dell’esercito. La via più difficile significa fare giornalismo da qui anziché scrivere di Teheran da Londra o da Washington; significa conoscere i mille vicoli di Teheran e i tossici che li frequentano, il suo traffico impossibile, il suo inquinamento infernale, la sua corruzione, le sue umiliazioni quotidiane.
Per tutto questo credo che dovrei essere rispettata e non compatita, perché quello che faccio per vivere – la giornalista in Iran – ha un’importanza speciale. Io resto qui perché, come mia madre non ha mai smesso di ripetere, sono una donna indipendente, ma anche un uomo indipendente.
In Iran, una donna single deve misurarsi con gli uomini ogni giorno. Se sono costretta a fermarmi fino a tardi in redazione, tornando a casa vengo seguita e avvicinata, perché una donna non dovrebbe uscire da sola a quell’ora. E se mi rivolgo a un’agenzia per affittare un appartamento, l’atteggiamento dell’agente immobiliare cambia immediatamente appena scopre che vivo da sola. E ricevo proposte di ogni tipo (amante, moglie temporanea, seconda moglie), ma non appena le respingo, da “gentili proposte” si trasformano in aperta ostilità.
Dall’altra parte di questa divisione sociale, mi ritrovo censurata dal mio stesso ambiente perché ho deciso di restare qui e combattere. Perché questa è una battaglia. E se non restano le donne come me, allora non cambierà mai niente.
Quando gli amici espatriati mi chiedono perché non lascio l’Iran, io mento spudoratamente e dico che non ho la pazienza d’imparare nessun’altra lingua oltre al persiano. È una frase che ho sentito pronunciare a un mio vecchio professore, tanto tempo fa, e ho deciso che era la risposta perfetta. Perché? Perché è una risposta neutra, che non chiama in causa nessuna connotazione di genere.
Questo articolo è stato pubblicato il 2 giugno 2016 nel numero 1156 di Internazionale.
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