Immaginate una versione tropicale dell’oleodotto dell’Alaska. Solo più lunga. Un oleodotto che attraversa habitat critici per la sopravvivenza di elefanti, leoni e scimpanzé, nonché dodici riserve forestali; che lambisce il più grande lago africano; che passa dentro duecento fiumi e migliaia di fattorie per sfociare nell’oceano Indiano, dove se accadesse un disastro paragonabile a quello della petroliera Exxon Valdez il greggio invaderebbe foreste di mangrovie e barriere coralline tra le più ricche di biodiversità di tutta l’Africa.
Il progetto è pronto a partire, con l’obiettivo di far arrivare al resto del mondo il petrolio estratto dai nuovi giacimenti petroliferi nel cuore dell’Africa. Si chiama East African crude oil pipeline (Eacop).
Non sembra esattamente il momento giusto per rilanciare la produzione mondiale di petrolio, visto che la pandemia ha fatto crollare la domanda e i prezzi degli idrocarburi. L’industria petrolchimica, però, è sempre alla ricerca di nuovi giacimenti per sostituire quelli esauriti. E due riserve petrolifere scoperte sulle coste del lago Alberto, tra l’Uganda e la Repubblica Democratica del Congo (Rdc), sono al momento tra le più grandi ed economiche a disposizione. Si stima contengano sei miliardi di barili di petrolio, più o meno la metà del giacimento della baia di Prudhoe, in Alaska.
Valutazioni poco accurate
I lavori sono già cominciati ai giacimenti di Kingfisher e Tilenga, dove la compagnia cinese National offshore oil corporation e la francese Total intendono scavare cinquecento pozzi. Le due aziende hanno speso circa 4 miliardi di dollari in nuove infrastrutture e si sono inimicate le comunità locali appropriandosi delle loro terre in cambio di risarcimenti miseri.
Ma per far arrivare il petrolio al resto del mondo serve un oleodotto, l’Eacop. Le due aziende progettano di costruirne uno riscaldato, che sarà il più lungo del pianeta e si snoderà per 1.350 chilometri dal lago Alberto al porto tanzaniano di Tanga, sull’oceano Indiano. Trasporterà l’equivalente di 216mila barili al giorno e dovrà essere riscaldato a 50°, perché il petrolio di quei giacimenti è povero di zolfo e rischia di solidificarsi nel condotto. Secondo alcune ong, tutto quel carburante, una volta bruciato, produrrà emissioni paragonabili a quelle della Danimarca.
Le compagnie petrolifere sostengono di aver preso in considerazione e risolto i problemi ambientali e sociali che gli impianti petroliferi e l’oleodotto potrebbero causare alle comunità, e di aver commissionato valutazioni accurate delle possibili conseguenze ecologiche e sociali di questo progetto da 20 miliardi di dollari prima di dargli il via libera. La Total, a capo del progetto, dice di aver consultato 58mila persone e di aver scelto il percorso che costringerà il minor numero di persone a trasferirsi altrove.
Non sono dello stesso parere alcune ong locali ed esperti internazionali di valutazioni sull’impatto ambientale e sociale. Secondo loro, i rischi legati all’oleodotto e agli impianti di produzione sono enormi e le consultazioni con le comunità non sono state altro che mere formalità, come afferma Gerald Byarugaba di Oxfam-Uganda.
Yale environment 360 ha avuto accesso alla revisione delle valutazioni condotta dalla Netherlands commission for environmental assessment (Ncea), un ente indipendente istituito dal governo olandese. Secondo l’Ncea, le valutazioni non sono state sufficientemente critiche riguardo all’impatto ambientale, sono state sbilanciate nel sottolineare gli effetti positivi e “vaghe” sulla questione della proprietà della terra. Per quanto riguarda l’oleodotto, “non rispondono al loro obiettivo”.
L’oleodotto attraversa una regione collinosa e sismica vicino al lago Vittoria e molti habitat costieri importanti per la loro biodiversità
In un rapporto del 2017 del Wwf Uganda si legge che l’oleodotto “potrebbe provocare dei forti disagi, divisioni e un aumento delle attività di bracconaggio in habitat importanti per la loro biodiversità”, dove vivono elefanti, leoni e scimpanzé, tutti animali sulla lista rossa delle specie minacciate compilata dalla International union for the conservation of nature (Iucn). Secondo Paolo Tibaldeschi di Wwf Norvegia, che ha contribuito a scrivere il rapporto del 2017, l’Eacop porta con sé “rischi ambientali e sociali superiori” ad altri oleodotti progettati nella regione. È “più lungo, attraversa una regione collinosa e sismica vicino al lago Vittoria e molti habitat costieri importanti per la loro biodiversità”.
In Uganda metterà a rischio le popolazioni di scimpanzé, ippopotami e coccodrilli che vivono intorno al lago Alberto. La Total progetta di scavare 32 pozzi nel giacimento petrolifero di Tilenga partendo dal parco nazionale delle cascate Murchison, a nordest del lago. Non è “il posto ideale per un progetto petrolifero multimiliardario”, sostiene Romie Goedicke, del comitato della Iucn nei Paesi Bassi. Eppure il governo ugandese e i suoi partner “non sembrano affatto preoccupati di queste minacce alla biodiversità”.
Come emerge dall’analisi della Ncea, sulla costa orientale del lago Alberto il progetto Kingfisher mette a repentaglio il futuro della foresta di Bugoma, un’area di 400 chilometri quadrati che viene protetta da novant’anni e che ospita una numerosa popolazione di scimpanzé. La foresta rischia di essere circondata dall’oleodotto, dalle strade e da un aeroporto. Inoltre sarà minacciata dall’arrivo di lavoratori migranti, che si trasferiranno là per realizzare il progetto e probabilmente disboscheranno ampie aree della foresta per coltivarle o procurarsi della legna.
A sud del lago, l’oleodotto attraverserà gli 88 chilometri quadrati della riserva della foresta di Taala, dove vivono altri scimpanzé. La Ncea definisce “cupo” anche il futuro dei pesci del lago, che attualmente fornisce il 30 per cento del pescato dell’Uganda.
Al di là del confine con la Tanzania, l’oleodotto taglierà in due la riserva di Biharamulo, dove vive una delle ultime cinque popolazioni al mondo di colobi rossi (una specie di scimmie), oltre a ippopotami, elefanti, zebre e, secondo le agenzie di viaggi, gorilla di montagna. Più a est attraverserà per 32 chilometri la Wembere steppe, una prateria che si allaga periodicamente ed è nota per gli uccelli selvatici. Secondo il Wwf, oltre alle riserve potrebbero essere rovinati altri 510 chilometri quadrati di habitat degli elefanti.
La ferita nel paesaggio
Le condotte, che avranno un diametro di 61 cm, saranno interrate a una profondità fino a due metri per gran parte del tragitto, ma l’impronta sul paesaggio sarà comunque enorme. Saranno necessarie più di ottanta stazioni di controllo lungo il percorso, per pompare, gestire la pressione, isolare possibili perdite e mantenere il petrolio riscaldato. Inoltre, la Total pretende che intorno all’oleodotto sia mantenuto un corridoio largo 30 metri dove non ci siano edifici, alberi e coltivazioni. Questo si ripercuoterà su fattorie ed ecosistemi, e disturberà la migrazione della fauna.
Oltre a sconvolgere gli habitat della fauna selvatica e l’agricoltura, il progetto porta con sé un’ulteriore minaccia: l’inquinamento derivante dalle perdite di petrolio. Per un terzo del tragitto l’oleodotto attraversa il bacino di drenaggio del lago Vittoria, il più grande lago africano – e una delle sorgenti del Nilo – e corre lungo la sua costa per 33 chilometri. Secondo il Wwf, il pericolo di perdite è accresciuto dal rischio di terremoti. Nel 2016 un terremoto di magnitudo 5,6 in questa zona ha ucciso venti persone e ha distrutto almeno novecento edifici.
A preoccupare particolarmente la Ncea è il fatto che l’oleodotto dovrebbe attraversare 230 fiumi. I costruttori vorrebbero che le tubazioni fossero adagiate in fossati scavati sul letto dei corsi d’acqua. Ma secondo l’ente olandese si rischia che l’erosione porti in superficie l’oleodotto, cosa che avrebbe “conseguenze negative, soprattutto negli acquitrini”.
Tuttavia i rischi di inquinamento potrebbero essere ancora più alti in corrispondenza del terminal oceanico dell’oleodotto, sulla penisola di Chongoleani, vicino al porto tanzaniano di Tanga, dove il greggio sarà caricato su petroliere lunghe anche trecento metri. “Il trasporto del petrolio avverrà in un’area di foreste di mangrovie e barriere coralline”, dove “gli intricati habitat costieri renderebbero più difficili le eventuali operazioni di recupero e pulizia del petrolio sversato”, fa notare il Wwf. Là vicino ci sono due aree marine protette – la riserva Pemba-Shimoni-Kisite, sul confine con il Kenya, e il parco marino di Tanga Coelacanth – note per le barriere coralline, i dugonghi, i delfini e le tartarughe marine.
Infine ci sono i rischi per le comunità locali. Il giacimento Kingfisher, gestito dai cinesi, sarà costruito, secondo la Ncea, in un’“area piccola e in precedenza isolata”, dove gli abitanti dipendono da risorse naturali come il pesce o la legna da ardere. Per l’ente olandese la valutazione dell’impatto fatta dalle aziende non chiarisce se sono previsti dei risarcimenti alle comunità locali per la perdita di terreni da pascolo e di fonti d’acqua. Potrebbero inoltre nascere tensioni tra gli abitanti del luogo e i congolesi emigrati lì per lavorare.
I due terzi dell’oleodotto passano su terreni agricoli. La Total stima che, solo in Tanzania, attraverserà fra le 9.500 e le 14.500 fattorie. Migliaia di famiglie rischiano d’ingrossare le fila degli “sfollati per questioni economiche”.
I primi segnali non sono buoni. In Uganda settemila abitanti di 13 diversi villaggi hanno già perso le loro terre nel distretto di Hoima, sulla costa orientale del lago Alberto, per far spazio alle infrastrutture legate al progetto, tra cui un aeroporto. Nel 2018 la Reuters ha intervistato degli agricoltori arrabbiati a cui era stato chiesto di cedere i loro campi. “Non so dove andremo se prenderanno le nostre terre”, ha dichiarato James Mubona, 73 anni, la cui fattoria serviva a sostenere anche i suoi venti figli e numerosi nipoti. Molte persone che sono state allontanate dalle loro proprietà oggi vivono in casette di cemento in un villaggio costruito apposta per loro. Si lamentano di vivere in spazi ristretti, di dover fare lunghi tragitti a piedi per raggiungere i campi e di non avere abbastanza spazio per il bestiame.
Altri sostengono di essere stati derubati dei giusti risarcimenti da agenti locali che avevano falsificato le valutazioni delle loro terre, non mappando tutti gli edifici e chiedendogli di riempire a matita i moduli. A gennaio un tribunale di Nanterre, in Francia, dove ha sede la Total, ha respinto una causa intentata da alcune ong francesi e ugandesi contro la compagnia petrolifera, accusata di essere venuta meno al suo “dovere di sorveglianza” affidando il lavoro a terzi. La Total si è difesa sostenendo di non essere responsabile di quello che avevano fatto i suoi incaricati.
Ai blocchi di partenza
Dopo un avvio incerto, i due impianti petroliferi e l’oleodotto sono in teoria pronti a partire. La ministra dell’energia ugandese Mary Goretti Kitutu è intenzionata a procedere e a trasformare il suo paese nel quinto produttore di petrolio dell’Africa subsahariana. A gennaio il ministro dell’ambiente tanzaniano Mussa Azzan Zungu ha conferito all’oleodotto un certificato di sicurezza ambientale.
Anche sul fronte dei finanziamenti il progetto sembra sicuro. Ad aprile la Banca di sviluppo africana ha negato di volerlo finanziare e ha sottolineato il suo impegno a favore delle energie rinnovabili, tuttavia l’oleodotto può contare sul sostegno di due importanti investitori, la banca giapponese Sumitomo Mitsui e la sudafricana Standard bank.
Inoltre una vecchia disputa tra aziende partner si è conclusa lo scorso aprile, quando la Total ha rilevato la Tullow oil, la compagnia britannica che aveva scoperto i giacimenti petroliferi quattordici anni prima. A maggio il ministro dell’energia tanzaniano Medard Kalemani ha annunciato che, dopo l’acquisizione, le compagnie interessate avrebbero finalmente potuto procedere con una decisione finale sull’investimento (Fid) per poi avviare i lavori dell’Eacop ad aprile del 2021. Il trasporto del greggio dovrebbe cominciare nel 2024.
Il prezzo del petrolio molto basso potrebbe essere un ostacolo, ma secondo gli analisti è improbabile che basti a bloccare il progetto. Il petrolio del lago Alberto è vicino alla superficie e la zona è facile da trivellare: queste condizioni rendono i costi di produzione insolitamente bassi, circa 20-25 dollari al barile per il giacimento di Tilenga. Pur calcolando le tariffe sull’oleodotto imposte dal governo, i consulenti della Rystad energy, una società di consulenza con sede in Norvegia, hanno valutato il giacimento di Tilenga come il più economico e il più rilevante del continente.
Il progetto continua quindi a essere “molto competitivo”, come ha scritto la newsletter del settore East African business week. “Anche se la Total sta facendo tagli drastici in tutto il mondo a causa della pandemia di covid-19 e del crollo della domanda e del prezzo del petrolio, le caratteristiche economiche del progetto fanno sì che questo sia tra quelli con maggiori probabilità di ottenere il via libera”.
Niente di tutto ciò cambia le opinioni degli ambientalisti. Non importa quanto costi quel petrolio: l’ulteriore sviluppo di riserve di combustibili fossili è incompatibile con l’accordo di Parigi sul clima. Come ha scritto un gruppo di ong in una lettera alla Banca africana di sviluppo, “ le riserve nei giacimenti di petrolio e gas attualmente operativi, senza considerare il carbone, causerebbero già un aumento globale delle temperature di 1,5°”. Quindi i nuovi giacimenti sono l’ultima cosa di cui il mondo ha bisogno.
(Traduzione di Giusy Muzzopappa)
Questo articolo è uscito sulla rivista online Yale Environment 360.
Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it