“I lavoratori precari di tutto il mondo sono una sola famiglia”, recita il poster all’ingresso della Casa dei lavoratori di Picun. Vengono dallo Hunan, dallo Shanxi, dal Dongbei, dalla Mongolia Interna, lavorano nella logistica, nelle costruzioni, ma anche nelle piccole attività commerciali che pullulano in questo polveroso villaggio alla periferia nordorientale di Pechino, dove gli aerei del vicino aeroporto internazionale sembrano atterrarti in casa.
Quattro renminbi – neanche un euro – per mangiare in due, camion di mattoni che intasano i vicoli su cui sorgeranno nuove case, il perdurante suono della smerigliatrice, maledetto aggeggio che fa da ossessiva colonna sonora alla Cina che lavora. Qui vivono anche i kuaidi, i “pony express” che percorrono la metropoli in lungo e in largo alimentando il mercato dell’ecommerce. Sono loro la componente fisica del commercio smaterializzato.
Chi vive a Picun preferisce definirsi xin gongren, “nuovo operaio”, invece di nongmin gong, “lavoratore migrante”, termine che a sua volta contiene nongmin che significa semplicemente contadino. Il fatto è che la maggior parte di loro la terra non l’ha mai coltivata, pur arrivando da aree rurali. Sono la popolazione fluttuante che ha alimentato il boom cinese, l’esercito industriale di riserva degli ultimi trent’anni. Il contadino si è preso dunque la metropoli, anche se oggi i nuovi piani di ingegneria sociale calati dall’alto fanno di tutto per rispedirlo al mittente.
Tutto per i lavoratori
La Casa offre ai lavoratori servizi culturali e tutto ciò che può migliorarne la vita. All’interno di due cortili avuti in prestito da una fabbrica locale, ci sono una biblioteca, un museo sulla storia dei nuovi operai, un cinema, un teatro, degli alloggi. A poche centinaia di metri, ecco la scuola: asilo ed elementari per i figli di migranti che, non avendo l’hukou – il certificato di residenza – per Pechino, non possono frequentare quelle ufficiali. E poi l’attività di autofinanziamento: vestiti usati, lavati, rattoppati e rimessi sul mercato. Arrivano da donazioni di ong e privati, il variegato mondo della solidarietà che si raccoglie attorno alla casa.
C’è anche un gruppo musicale: esiste da 15 anni, il nucleo fondante era un gruppo di musica folk composto da migranti. Il codice dei brani era lo stesso delle migliaia di stucchevoli canzoni che raccontano di amori più o meno corrisposti, ma il contenuto era diverso: la band raccontava storie di xin gongren, come se Billy Bragg fosse attivo in Cina, in un posto – Picun – che letteralmente significa “villaggio della pelle”. Quella che si scorticano i dagongzhe, i lavoratori manuali.
Il museo è unico in Cina: una raccolta autogestita di materiali sulla storia dei nuovi operai
Oggi sono un centinaio, tutti nuovi-lavoratori-ex-migranti che si fanno anche attivisti, con coscienza politica costruita sui libri o anche no, semplicemente interessati a migliorare la propria vita e quella altrui.
Colpisce soprattutto il museo. È unico in Cina, una raccolta autogestita di materiali sulla storia dei nuovi operai cinesi. Ce n’è un altro a dire il vero, a Shenzhen, ma è stato voluto e costruito dal governo, calato dall’alto. Qui sono loro stessi a raccontarsi. Hanno lanciato un appello e sono stati gli stessi lavoratori, ma anche studenti e ricercatori, a fornire i materiali: foto e articoli di giornale soprattutto, ma pure oggetti dell’attività quotidiana.
Il quadro del ciclo produttivo
Nella sala dedicata al lavoro femminile, ci sono le ciabatte infradito che una ex operaia della Foxconn si è messa a produrre in proprio dopo aver tentato di suicidarsi. C’è anche una sua lettera, una sorta di breve autobiografia, scritta con caratteri un po’ infantili, ma belli, precisi. Ci sono i disegni di un’altra operaia che riproduce gli infortuni sul lavoro più frequenti o di cui lei stessa è stata testimone: dita mozzate, ferite aperte. Qualcuno ha donato la radiografia della propria mano priva di falangi. Qui si misura l’apporto fisico, al di là dei numeri e della descrizione sociologica, del boom cinese. Poi ci sono decine e decine di libretti di lavoro, foto delle migliaia di proteste molecolari che sfuggono ai nostri riflettori.
Su tutto, svetta un grande quadro che riproduce il ciclo produttivo visto in soggettiva dal xin gongren. È un fumettone in bianco e nero: ci sono i lavoratori che aspettano la “chiamata” seduti in una piazza cittadina, i mendicanti, il cacciatore di teste che cerca di fregarti sussurrandoti qualcosa all’orecchio, poi la torre su cui è salito per protesta un operaio che non è stato pagato, mentre un poliziotto appeso qualche metro sotto cerca di farlo scendere. Tutto in una sola scena, come nei quadri di monti e acqua della tradizione cinese in cui la figura umana è minuscola al cospetto della natura. La natura, qui, è la fabbrica, ma le figure umane sembrano più grandi, attive. Il piazzale brulica di operai, qualcuno dorme appoggiato al muro dello stabilimento, mentre al piano di sopra, dietro un’enorme vetrata, è in riunione il consiglio d’amministrazione.
Quest’opera d’arte potrebbe essere venduta a peso d’oro a qualche collezionista occidentale, probabilmente manterrebbe il lavoro della Casa per un anno intero. Invece è qui, dove deve stare.
Il museo è organizzato bene: c’è una sala dedicata ai figli dei migranti, dove sono esposte anche le tute da ginnastica delle scuole che ancora li accolgono. Ecco la tuta della scuola “Cuori concordi” di Picun. Alcuni disegni esposti dai bambini raccontano il mestiere dei loro genitori con dignità, senza vergogna di classe.
Più in là ecco la riproduzione di un tipico sushe (dormitorio) operaio: una branda, pochi metri quadri di spazio, una stufetta per scaldarsi.
Sul grande schermo
Il cinema è piccolo ma efficiente, con tanto di file e file di seggiolini reclinabili. Qui si trasmettono i blockbuster sdoganati dall’industria culturale di stato, ma ogni tanto si riesce a infilare in programmazione qualche film indipendente sulla condizione operaia. Chissà, si potrebbe proporre Mimì metallurgico con sottotitoli in cinese. Ma ancor più stupefacente è il teatro, grande, a conchiglia. Qui, ogni anno, i lavoratori festeggiano insieme il capodanno lunare. Allestiscono uno spettacolo che parla di loro stessi. Altro che il zhongguo meng, il “sogno cinese” immancabilmente celebrato dalla tv di stato. Poi, tra il museo, il teatro e il cinema c’è un vasto piazzale dove la sera si raccolgono gli operai tornati dal lavoro, con le famiglie: chiacchierano, discutono, giocano a carte, i bambini scorrazzano liberamente e le signore si cimentano in qualche ballo popolare.
Verde smeraldo è la scuola, a poche centinaia di metri. Su due piani, con cortile interno. All’ingresso, appesi sul cancello, dei caratteri recitano “lo studio crea brave persone”. Sono quasi 500 gli studenti, una comune provenienza migrante, ma poi scelte diverse. C’è chi frequenta l’istituto dei “Cuori concordi” per tutto il ciclo scolastico e chi lascia dopo qualche anno; c’è chi a un certo punto decide di tornare alla provincia di provenienza, dove potrà sostenere il gaokao, l’esame che fa accedere all’università.
Picun è terra che fa gola per l’ampliamento di Pechino fuori dei propri confini
Torno a Pechino centro e parlo della mia visita a Picun con un amico intellettuale che conosce bene quella storia. Mi spiega che il futuro della Casa è a rischio. Non c’è solo la perdurante diffidenza delle autorità locali, ma anche il processo di ingegneria sociale in corso nella capitale e in tutta la Cina, la “nuova urbanizzazione”.
Picun è terra che fa gola per l’ampliamento di Pechino fuori dei propri confini, per decongestionarla. Lì, a mano a mano, non saranno spediti solo i lavoratori migranti che devono starsene lontano dal centro città ma essere comunque disponibili come forza lavoro iperflessibile, bensì anche i colletti bianchi sprovvisti di residenza urbana. E la vicinanza dell’aeroporto renderà comodo lo spostamento qui di parecchi lavori collegati allo scalo: la logistica, le attività tecniche, burocratiche, finanziarie.
Il continuo carico-scarico di mattoni nei vicoli del villaggio e le nuove costruzioni che sorgono prima ancora che siano pronte le strade attorno, ne sono la prova. I prezzi immobiliari cresceranno, gli spazi ex industriali concessi alla Casa diventeranno appetibili lotti per uffici, magazzini, case. I muratori che ogni giorno lavorano di gran lena stanno costruendo la nuova Picun che domani, a edifici ultimati, li scaccerà. E quindi, la Casa dei lavoratori di Picun sarà probabilmente costretta all’ennesimo trasloco.
Il mio interlocutore crede nella formazione dei lavoratori, perché svilupperanno sempre più una coscienza di classe e quindi – dice – saranno capaci di chiedere diritti. Gli chiedo se non c’è il rischio che, invece, una forza lavoro sparsa nelle molteplici attività del terziario maturi un irresistibile desiderio di consumo individuale: casa e automobile, come tutto il piccolo ceto medio globale. A sgomitare nella guerra di tutti contro tutti. Riconosce il rischio, ma “che succederà”, ribatte, “quando si renderanno conto che casa e automobile non riusciranno ad averle?”. Sarà la crisi a imporre a questa gente una presa di coscienza.
Penso a voce alta: da noi, in occidente, i passi avanti della classe operaia sono sempre avvenuti in periodi di crescita economica, la crisi ha invece quasi sempre prodotto i fascismi, la ricerca del capro espiatorio, la lotta del penultimo contro l’ultimo, la subordinazione al leader carismatico e, attraverso lui, al capitale. Sì, ammette il mio amico, fenomeni del genere si vedono già anche in Cina. Proprio a Pechino, i laobaixing, la gente comune che vive all’interno del secondo anello, vede con favore la cacciata ai margini dei migranti. Nei social network, si fa spesso a gara a chi insulta più pesantemente il nongmin gong e lo straniero.
L’unica differenza è che in Cina i migranti non arrivano da altri continenti o da altri paesi. Sono cinesi. È una lotta contro il tempo, bisogna costruire coscienza di classe prima della guerra di tutti contro tutti, dice lui. L’aggregazione sulle cose da fare, come a Picun, è il primo passo.
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