Dopo lo storico accordo sull’istituzione di un fondo per la compensazione delle perdite e dei danni causati dal riscaldamento globale nei paesi poveri, la prima settimana della conferenza delle Nazioni Unite sul cambiamento climatico (Cop28) in corso a Dubai dal 30 novembre ha prodotto altri annunci importanti.
Il 2 dicembre 118 paesi hanno sottoscritto l’impegno a triplicare la capacità installata globale degli impianti per la produzione di energia da fonti rinnovabili entro il 2030, portandola ad almeno diecimila gigawatt, e a raddoppiare il loro tasso di efficienza energetica entro la stessa data.
L’iniziativa, guidata dall’Unione europea, dagli Stati Uniti e dagli Emirati Arabi Uniti, chiede anche la fine dei finanziamenti per la costruzione di nuove centrali a carbone, motivo per cui non è stata firmata dalla Cina (che oltre a essere il paese con le più alte emissioni di gas serra al mondo è anche di gran lunga il leader globale nell’installazione di impianti a energia rinnovabile) e dall’India (il paese dove le emissioni crescono più rapidamente tra le grandi economie, che ha appena lanciato un piano per espandere rapidamente la sua flotta di centrali a carbone).
Lo stesso giorno un gruppo di 22 paesi guidato dagli Stati Uniti ha sottoscritto una dichiarazione che invita a triplicare la capacità globale degli impianti a energia nucleare entro il 2050, portandola a più di mille gigawatt. L’inviato di Washington a Dubai, John Kerry, ha spiegato che il rilancio del nucleare è indispensabile per rispettare l’obiettivo di azzerare le emissioni nette di gas serra, come sostiene anche l’ultima edizione del rapporto World energy outlook dell’Agenzia internazionale dell’energia.
Il nucleare è una fonte che produce energia a zero emissioni e in modo costante, il che la rende utile per compensare l’intermittenza delle rinnovabili. Dopo il declino seguito al disastro di Černobyl del 1986, e accelerato da quello di Fukushima del 2011, negli ultimi anni gli investimenti nel settore sono tornati a crescere, in particolare nelle economie emergenti. Nel 2022 la capacità installata globale è cresciuta del 40 per cento.
Ma oltre alle preoccupazioni per la sicurezza e la gestione delle scorie, a mettere in dubbio il suo ruolo nella transizione energetica è soprattutto il problema dei costi. A novembre un progetto finanziato dal governo statunitense per la costruzione del primo impianto basato su piccoli reattori modulari (Smr), una tecnologia che avrebbe dovuto favorire il rilancio del nucleare, è stato cancellato perché i costi sono raddoppiati fino a raggiungere 9,3 miliardi di dollari.
Sempre il 2 dicembre, il presidente della Cop28 Sultan al Jaber ha annunciato che cinquanta grandi aziende petrolifere, responsabili di quasi metà della produzione globale di idrocarburi, si sono impegnate ad azzerare le emissioni nette di metano legate alle loro attività entro il 2030.
Il metano è un gas serra molto più potente dell’anidride carbonica, e secondo alcune stime potrebbe essere responsabile del 30 per cento dell’aumento della temperatura globale. La sua concentrazione nell’atmosfera sta salendo rapidamente a causa non solo delle attività umane, ma anche del rilascio dovuto alla destabilizzazione degli ecosistemi, come il permafrost artico e le aree umide – un fenomeno che comincia a inquietare seriamente gli scienziati.
Per ridurre le emissioni legate all’estrazione di idrocarburi sarebbero sufficienti interventi relativamente semplici, come migliorare la tenuta delle tubature per evitare perdite e mettere fine alla pratica del flaring e del venting, cioè la combustione o il rilascio intenzionale del gas presente nei giacimenti di petrolio.
Al Jaber, amministratore dell’azienda petrolifera di stato degli Emirati, contava molto su questo annuncio per rilanciare la sua immagine dopo le polemiche che lo hanno coinvolto, e dimostrare che la scelta di coinvolgere apertamente i rappresentanti dell’industria dei combustibili fossili alla Cop28 (dove sono presenti più di duemila delegati) è cruciale per spingere il settore maggiormente responsabile del cambiamento climatico a fare la sua parte per affrontarlo.
Ma se l’accordo sul metano era un obiettivo relativamente facile, ora questa strategia sarà messa davvero alla prova. La fase finale della conferenza, che si chiude il 12 dicembre, dovrà infatti affrontare i molti nodi ancora da sciogliere prima di trovare un consenso tra i 195 paesi partecipanti sulla dichiarazione finale.
Il più importante è senza dubbio quello sul futuro dei combustibili fossili, che rappresentano ancora l’80 per cento della produzione globale di energia. Un gruppo di oltre ottanta paesi chiede che la dichiarazione contenga l’impegno a “eliminare gradualmente” (phase out) tutti i combustibili fossili, una posizione che Al Jaber ha dichiarato di sostenere.
Questa formulazione incontra però fortissime resistenze. E non solo da parte dei soliti noti, come la Cina e i paesi petroliferi (con in testa la Russia e l’Arabia Saudita), ma anche di molti paesi poveri, che sottolineano come rinunciare all’uso dei combustibili fossili e allo sfruttamento dei loro giacimenti significherebbe rallentare il percorso verso lo sviluppo e la prosperità, e insistono che i paesi ricchi, storicamente responsabili del cambiamento climatico, devono essere i primi a farlo.
Una soluzione di compromesso potrebbe essere ripiegare su una formulazione più blanda, parlando di “ridurre gradualmente” (phase down) invece che di eliminare i combustibili fossili, e far valere l’impegno solo per le centrali non dotate di impianti per l’abbattimento delle emissioni (unabated), lasciando cioè uno spiraglio per le tecnologie di cattura e sequestro dell’anidride carbonica su cui l’industria petrolifera conta per garantirsi un futuro ma che gli ambientalisti considerano solo una pericolosa distrazione.
È la stessa soluzione adottata alla conferenza di Glasgow nel 2021, quando uno scontro analogo sul futuro del carbone aveva rischiato di far saltare la dichiarazione finale. L’Arabia Saudita si è pubblicamente dichiarata contraria anche a questa formula, ma alcuni confidano che gli Emirati, a cui il principe saudita Mohammed bin Salman guarda come un esempio di modernizzazione da seguire, possano convincerla ad ammorbidire la propria posizione, sottolineando che i paesi petroliferi devono ripulire la loro immagine per non essere tagliati fuori dal business della transizione.
Può sembrare una discussione ridicola in confronto all’enormità delle sfide del cambiamento climatico. In fondo sono solo parole. Ma le parole sono importanti, e oltre a decidere se la Cop28 sarà ricordata come un fallimento o un successo, possono essere cruciali per stabilire la direzione della diplomazia internazionale sul clima, da cui dipende gran parte del futuro del pianeta.
Questo testo è tratto dalla newsletter Pianeta.
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