Se le ultime elezioni europee dovevano essere “le elezioni del green deal”, come aveva auspicato alla vigilia il leader dei Verdi Bas Eickhout, il loro esito non fa presagire niente di buono per il futuro della transizione energetica e ambientale nell’Unione.

I partiti ambientalisti sono crollati, mentre quelli di estrema destra, che avevano messo al centro della loro campagna elettorale l’opposizione ad alcuni elementi chiave del piano lanciato nel 2019 dalla commissione guidata da Ursula von der Leyen, sono stati i grandi vincitori.

Questi risultati non significano necessariamente la fine del green deal. I partiti che hanno sostenuto Von der Leyen hanno mantenuto la maggioranza in parlamento ed è molto probabile che, anche se la presidente non sarà riconfermata, la prossima commissione sarà votata da una coalizione simile.

La maggior parte degli elementi chiave del green deal, inoltre, è già stata approvata in via definitiva, e per cancellarli sarebbe necessario avviare da capo il processo legislativo, cosa che sembra molto difficile nell’immediato.

Bisogna ricordare che il parlamento europeo ha poteri molto limitati rispetto a quelli nazionali. Non ha la possibilità di proporre nuove leggi, e sulle questioni più importanti è spesso costretto ad accettare i compromessi raggiunti tra la Commissione e il Consiglio, composto dai governi degli stati membri.

Ma la svolta a destra non potrà che rafforzare l’ala conservatrice del Partito popolare europeo, la prima forza al parlamento di Strasburgo, che già prima delle elezioni aveva dichiarato l’intenzione di rallentare il ritmo della transizione energetica ed ecologica, cancellando o ridimensionando alcune misure considerate pericolose per la competitività e la sicurezza energetica e alimentare dell’Unione.

Tra i risultati acquisiti, quello che sembra più a rischio è il regolamento che a partire dal 2035 consentirà di vendere solo auto a emissioni zero. La norma, che in origine avrebbe dovuto vietare tutti i veicoli con motore a combustione interna, è già stata ammorbidita su richiesta della Germania per autorizzare quelli alimentati con carburanti sintetici prodotti con anidride carbonica sequestrata, che non comportano emissioni nette.

Nonostante ciò è considerata una delle misure meno popolari del green deal, e molti partiti di destra ed estrema destra, tra cui la Lega nord, l’hanno presa esplicitamente di mira durante la campagna elettorale.

Anche il Ppe aveva proposto di cancellarla, salvo poi fare marcia indietro su pressione di Von der Leyen. Subito dopo la pubblicazione dei risultati, però, il capogruppo Manfred Weber ha ribadito l’intenzione di eliminare il divieto, definendolo un errore.

Il regolamento è stato approvato in via definitiva a marzo del 2023, ma nel 2026 è prevista una revisione, e il partito potrebbe approfittarne per esigere un ulteriore annacquamento delle regole.

Anche se il green deal uscirà indenne da questo terremoto, è difficile che nei prossimi cinque anni saranno varate iniziative altrettanto ambiziose

Le conseguenze più gravi della svolta però riguarderanno gli elementi del green deal che non hanno ancora completato l’iter di approvazione, soprattutto quelle che fanno parte della strategia “farm to fork” per un’agricoltura sostenibile, rimessa in discussione dopo le proteste degli agricoltori dei mesi scorsi.

È il caso della legge sul ripristino della natura, che dopo interminabili polemiche aveva superato l’esame del consiglio e del parlamento ma era stata bloccata all’ultimo minuto dalla decisione senza precedenti dell’Ungheria di ritirare il suo sostegno.

Difficilmente, inoltre, la prossima Commissione riprenderà in mano la direttiva sull’uso responsabile dei pesticidi, che in origine avrebbe dovuto ridurre del 50 per cento l’uso di queste sostanze, abbandonata a febbraio dopo che il parlamento aveva bocciato una versione fortemente ridimensionata in seguito a un’intesa tra il Ppe e la destra.

Un’altra battaglia che Bruxelles potrebbe abbandonare è quella sulle nuove norme contro il cosiddetto greenwashing, le false affermazioni delle aziende in materia di sostenibilità, che molti stati membri hanno già chiesto di ammorbidire sostanzialmente.

Tra i dossier ancora aperti però il più importante è probabilmente quello sull’obiettivo intermedio di riduzione delle emissioni di gas serra da raggiungere entro il 2040.

La commissione Von der Leyen ha proposto un obiettivo del 40 per cento, ma questa cifra dovrà essere approvata dal consiglio e dal nuovo parlamento, e potrebbe essere rivista al ribasso. Questo complicherebbe ancora di più il percorso verso l’azzeramento delle emissioni nette entro il 2050, stabilito dalla legge europea sul clima ed essenziale per il rispetto degli accordi di Parigi.

Ma anche se il green deal uscirà indenne da questo terremoto politico, sembra molto difficile che nei prossimi cinque anni saranno varate nuove iniziative altrettanto ambiziose. La transizione alle rinnovabili probabilmente continuerà a essere sostenuta, dato che è nell’interesse strategico dei paesi membri, ma le misure per la tutela dell’ambiente passeranno in secondo piano.

Inoltre il ruolo guida dell’Unione nella diplomazia internazionale sul clima rischia di essere fortemente indebolito. Se a novembre Donald Trump dovesse essere rieletto alla presidenza degli Stati Uniti, il rischio è che gli sforzi per trovare una soluzione condivisa alla crisi climatica possano ritrovarsi senza un punto di riferimento negli anni che saranno cruciali per il futuro del pianeta.

Questo testo è tratto dalla newsletter Pianeta.

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