Il 21 ottobre si è aperta a Cali, in Colombia, la 16esima conferenza delle parti (Cop16) della Convenzione delle Nazioni Unite sulla diversità biologica, il trattato internazionale adottato nel 1992 e ratificato da 196 paesi – praticamente tutti i membri dell’Onu tranne gli Stati Uniti.

Finora il trattato non ha prodotto grandi risultati: insieme al cambiamento climatico, il declino della biodiversità è uno degli aspetti più drammatici della crisi ambientale che il nostro pianeta sta attraversando, e le cose continuano a peggiorare.

Secondo il rapporto Living planet, pubblicato alla vigilia della conferenza, negli ultimi 50 anni le popolazioni di animali selvatici – cioè il numero complessivo di esemplari allo stato libero – si sono ridotte in media del 73 per cento. Altre stime ipotizzano perdite ancora più gravi.

Finora il declino della biodiversità è stato la conseguenza diretta di attività umane come la distruzione degli ecosistemi, l’inquinamento e l’eccesso di caccia e pesca, ma negli ultimi anni a queste si sono aggiunti gli effetti del cambiamento climatico, che hanno una portata potenzialmente ancora più vasta e sono ancora più difficili da contrastare a livello locale.

Per questo motivo, alla precedente conferenza delle parti, che si è svolta nel 2022 a Montréal, i firmatari della convenzione hanno sottoscritto un accordo quadro che prevede obiettivi ambiziosi, come il cosiddetto 30x30: mettere sotto tutela il 30 per cento della superficie del pianeta, oceani compresi, entro il 2030, e ripristinare il 30 per cento degli ecosistemi danneggiati.

Tra gli altri impegni presi a Montréal ci sono l’equa condivisione dei profitti ottenuti grazie alla commercializzazione delle informazioni genetiche delle specie viventi (per esempio quelle usate per la produzione di farmaci) e la creazione di un sistema capace di raccogliere i duecento miliardi di dollari che servirebbero ogni anno per finanziare le attività di conservazione. Lo scopo principale della conferenza di Cali è verificare i progressi fatti verso questi traguardi.

Le premesse non sembrano incoraggianti. Finora poco più di trenta paesi hanno presentato i piani con cui dovrebbero descrivere le loro strategie per rispettare gli impegni presi, anche se molti, come il Brasile, dovrebbero farlo durante il vertice, che si concluderà il 1 novembre.

Una buona notizia

Le discussioni sul sistema di finanziamento si annunciano molto complicate, con la stessa spaccatura tra paesi ricchi e paesi poveri su chi e quanto dovrebbe contribuire al fondo che è risultata evidente durante le conferenze delle Nazioni Unite sul cambiamento climatico.

Anche i progressi verso l’obiettivo 30x30 sono stati molto limitati. Attualmente solo l’8 per cento degli oceani è sottoposto a qualche forma di protezione – un dato che è aumentato appena dello 0,5 per cento dalla conferenza di Montréal – e il 3 per cento è coperto da un livello elevato di tutela, che proibisce la pesca e tutte le altre attività dannose.

Ma una buona notizia è arrivata il 23 ottobre, quando il governo regionale delle Azzorre ha annunciato la creazione della più grande riserva marina dell’Unione europea, che coprirà il 30 per cento delle acque dell’arcipelago portoghese, ovvero 287mila chilometri quadrati, metà dei quali in modo integrale.

Questo testo è tratto dalla newsletter Pianeta.

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