Non si può certo dire che sia un buon momento per la diplomazia internazionale sulla crisi climatica e ambientale. Il 1 novembre la conferenza delle Nazioni Unite sulla biodiversità (Cop16) di Cali, in Colombia, si è conclusa senza che i paesi partecipanti trovassero un accordo su come raccogliere i duecento miliardi di dollari all’anno necessari per raggiungere gli obiettivi di conservazione della natura fissati nel 2022 al vertice di Montréal, in Canada.

Solo quaranta dei 196 paesi partecipanti hanno presentato i piani d’azione con cui dovrebbero illustrare le loro strategie per fermare il declino della biodiversità. E l’impegno a tutelare il 30 per cento delle terre e degli oceani entro il 2030 sembra sempre più fuori portata, dato che negli ultimi due anni le aree marine tutelate sono aumentate solo dello 0,5 per cento.

L’unica buona notizia arrivata da Cali è l’accordo in base al quale le aziende farmaceutiche e biotecnologiche che commercializzano prodotti basati sulle informazioni genetiche delle specie viventi dovranno versare lo 0,1 per cento dei loro ricavi o l’1 per cento dei loro profitti a un fondo per la protezione della biodiversità.

Secondo le Nazioni Unite questo sistema potrebbe raccogliere fino a un miliardo di dollari all’anno, ma l’adesione è volontaria e in ogni caso le cifre sono largamente insufficienti rispetto a quelle che servirebbero.

Muro di plastica

Anche i negoziati per un trattato internazionale contro l’inquinamento da plastica, che riprenderanno il 25 novembre a Busan, in Corea del Sud, rischiano di andare verso un punto morto.

Secondo l’Afp infatti un documento di lavoro preparato in vista della conferenza non contiene nessun riferimento all’obiettivo di limitare la produzione di nuova plastica, considerato essenziale per ridurre la dispersione nell’ambiente.

Se i paesi produttori e quelli della cosiddetta “high ambition coalition” non riusciranno a trovare un accordo su questo punto, la possibilità che anni di trattative si concludano con un nulla di fatto è concreta.

La situazione più sconfortante è forse quella della diplomazia sul clima. Le aspettative per la conferenza delle Nazioni Unite (Cop29) che si apre l’11 novembre a Baku, in Azerbaigian, erano già piuttosto basse: diversi leader mondiali, tra cui Joe Biden, Emmanuel Macron, Olaf Scholz e Ursula von der Leyen, non dovrebbero partecipare, e il governo della Papua Nuova Guinea ha fatto sapere che non invierà nessuna delegazione, dato che considera l’evento “una perdita di tempo”. Il fatto che il vertice sia organizzato da un paese petrolifero che ha in programma di espandere la sua produzione di idrocarburi non aiuta.

Ma la vittoria di Donald Trump alle elezioni presidenziali statunitensi è piombata come un macigno sulle poche speranze residue. Trump entrerà in carica a gennaio e a Baku gli Stati Uniti saranno ancora rappresentati dall’amministrazione attuale, ma è chiaro che gli eventuali impegni presi da Washington avranno poco valore alla luce della promessa del presidente eletto di revocare nuovamente l’adesione del paese agli accordi di Parigi.

Al di là del colpo simbolico che un simile passo infliggerebbe al processo di Parigi, resta da vedere se Trump terrà fede alla sua minaccia di annullare tutte le misure ambientali introdotte dall’amministrazione Biden, a cominciare dall’Inflation reduction act, dato che i finanziamenti alle energie rinnovabili hanno favorito soprattutto gli stati governati dai repubblicani e che diversi membri del suo partito hanno già chiesto di non cancellarli.

Ma in un momento in cui la spinta della transizione energetica era già stata fortemente indebolita dal contesto finanziario internazionale, dal successo della destra negazionista alle elezioni europee e dai ripensamenti di molte grandi aziende sugli obiettivi di sostenibilità, il rischio che la vittoria di Trump segni una definitiva inversione di rotta è decisamente reale.

Questo testo è tratto dalla newsletter Pianeta

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