L’arresto di 53 attivisti a Hong Kong per motivi di sicurezza nazionale rappresenta la purga di un’intera generazione di politici. La polizia ha anche chiesto i documenti a tre testate giornalistiche e per la prima volta ha arrestato un cittadino straniero, l’avvocato statunitense specializzato in diritti umani John Clancey, sempre con l’accusa di aver attentato alla sicurezza nazionale. Queste decisioni rappresentano un attacco alla società civile, e sembrano avere come obiettivo la distruzione di un sistema che ha alimentato quel tipo d’impegno politico che nel 2019 ha fatto scendere in piazza quasi due milioni di persone, circa un quarto della popolazione.
Le persone arrestate sono sospettate di eversione, un crimine che prevede come pena massima l’ergastolo. Allontanandole dal palcoscenico politico, le autorità di Hong Kong sono riuscite a neutralizzare l’opposizione. Ma il messaggio che sta dietro alle spiegazioni ufficiali dell’arresto si sta rivelando ancora più inquietante.
Il responsabile della sicurezza di Hong Kong, John Lee, ha dichiarato in una conferenza stampa che questi arresti sono stati necessari poiché i “malintenzionati” progetti di “distruzione reciproca” avrebbero paralizzato il governo, spingendo la città in un “abisso senza fondo”. Ma quali erano questi nefasti piani? La verità è che la polizia ha arrestato tutte le persone coinvolte nelle primarie informali dello scorso luglio, organizzate per scegliere i candidati filodemocratici che si sarebbero presentati alle elezioni poi rimandate a causa del covid-19.
Una strategia collaudata
La discrepanza tra queste azioni apparentemente moderate e le accuse iperboliche è cruciale. Sottolinea come il governo stia costruendo un attacco alla realtà, stravolgendo il linguaggio e il significato stesso delle cose. Quest’offensiva epistemologica rappresenta un tentativo di disorientare la popolazione su ampia scala, o addirittura un tentativo di trasformare la memoria pubblica del passato recente.
Il Partito comunista cinese ha usato questa strategia collaudata dopo aver soppresso le proteste a favore della democrazia nel 1989, che ha poi dipinto come rivolte controrivoluzionarie finalizzate a rovesciare il governo. All’epoca la strategia riuscì a intimidire una popolazione cinese tenuta a bada dai ricordi della rivoluzione culturale e dalla promessa di crescita economica.
Ma è improbabile che riesca a convincere i seicentomila abitanti di Hong Kong che hanno votato alle primarie di luglio. Per loro gli arresti rappresentano un attacco alla possibilità di una partecipazione civica, un’aggressione alla speranza stessa. Dimostrano quanto il governo sia disposto a giocare col fuoco, essendosi appropriato dello slogan del movimento di protesta, ispirato a Hunger Games, ovvero “se bruciamo, bruciate con noi”, o laam-chau. Il governo sembra determinato a sconfiggere il movimento di protesta, indipendentemente dal caos che genererà mettendo a ferro e a fuoco le istituzioni più amate di Hong Kong.
Per Hong Kong, comunque andranno le cose, è ormai troppo tardi per tornare al mondo di prima
Quanto al tempismo, la Cina ha opportunisticamente sfruttato le distrazioni offerte dalla pandemia, dagli accordi sulla Brexit, dal ballottaggio per il senato in Georgia, e dall’amministrazione uscente a Washington. I più cinici fanno notare come non sia una coincidenza che l’accordo commerciale di Pechino con l’Unione europea, rimasto sul tavolo delle trattative per sette anni, sia stato firmato alla fine di dicembre. Ma il fatto che questo accordo possa ancora essere rifiutato dal parlamento europeo spinge a chiedersi se la pressione esterna possa far cambiare posizione a Pechino. L’amministrazione Biden, che si dice schierata dalla parte della popolazione di Hong Kong, potrebbe scoprirlo presto.
Per Hong Kong, comunque andranno le cose, è ormai troppo tardi per tornare al mondo di prima. I moderati che hanno cercato di muoversi all’interno del sistema sono stati criminalizzati, e Pechino ha già decretato che la nuova legge sulla sicurezza nazionale prevale sul diritto fondamentale che aveva fornito il quadro legislativo di riferimento di Hong Kong dopo la restituzione alla Cina.
Per il partito comunista cinese la sicurezza nazionale ha sempre significato la sicurezza del regime. Per questo i rischi posti dal movimento filodemocratico di Hong Kong si sono rivelati troppi ampi per il pubblico domestico, l’unico davvero importante. Dalle proteste del 2019 Pechino ha rafforzato il suo controllo sull’informazione per censurare l’espressione in rete e inondare i social network di analisi che dipingono i cittadini di Hong Kong come viziati e ingrati. Nonostante la loro rozzezza, queste strategie sono riuscite a minare buona parte dei sentimenti di fraternità tra la Cina continentale e Hong Kong.
Il recente approccio politico di Pechino considera la sovranità come priva di zone grigie: le persone possono essere nemici o alleati, non ci sono vie di mezzo.
Questa strategia presenta, tuttavia, alcuni rischi. Invece di marginalizzare le frange più radicali, criminalizza i moderati e potrebbe alienarsi porzioni di una popolazione che, nella sua stragrande maggioranza, li ha sostenuti nelle elezioni dirette. La governatrice di Hong Kong, Carrie Lam, non ha dimostrato alcun pentimento. Nel 2019 ha definito i manifestanti “nemici del popolo”. Nel 2020 ha esteso questa definizione a tutti quelli che si oppongono alla legge sulla sicurezza. Il modo in cui ha inaugurato il 2021, con gli arresti di massa, sembra finalizzato ad aumentare la distanza tra la governatrice e i governati. E solleva una domanda spinosa e ingannevole su chi sono i nemici in questa equazione e quindi chi è il popolo.
(Traduzione di Federico Ferrone)
Questo articolo è stato pubblicato dal Guardian.
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