Il mito dei lupi solitari
Questo articolo è uscito il 26 maggio 2017 nel numero 1206 di Internazionale. L’originale era stato pubblicato dal quotidiano britannico The Guardian con il titolo The myth of the “lone wolf” terrorist.
Intorno alle otto di sera di domenica 29 gennaio 2017 un ragazzo è entrato in una moschea del quartiere Sainte-Foy di Québec, in Canada, e ha aperto il fuoco sui fedeli con una pistola calibro nove, uccidendo sei persone e ferendone diciannove. Tra le vittime c’erano un informatico che lavorava per il comune, un droghiere e un professore di scienze.
Il sospettato, Alexandre Bissonnette, è stato accusato di sei omicidi di primo grado ma non di terrorismo. Poco dopo l’attacco, il ministro della sicurezza pubblica canadese, Ralph Goodale, ha definito l’assassino un “lupo solitario”, un’espressione che è stata subito ripresa dai mezzi d’informazione di tutto il mondo.
La dichiarazione di Goodale non è stata una sorpresa. Nel 2017, e nel secondo decennio della più intensa ondata di terrorismo internazionale dagli anni settanta, il lupo solitario è, per molti, la più pericolosa minaccia alla sicurezza dell’occidente. L’espressione descrive un individuo che agisce da solo e non è affiliato a nessun gruppo, e oggi è ampiamente usata dai politici, dai giornalisti, dagli esperti di sicurezza e dall’opinione pubblica. È applicata ai jihadisti e, come dimostra l’attacco di Québec, anche a persone con altre motivazioni ideologiche. È stata usata anche per descrivere Khalid Masood, un uomo di 52 anni di nazionalità britannica e convertito all’islam che il 22 marzo 2017 ha ucciso quattro passanti e un poliziotto nel centro di Londra. Tuttavia, poche persone al di fuori del mondo degli analisti che si occupano di terrorismo sembrano aver riflettuto sul senso di quest’espressione ormai così difusa.
Negli ultimi anni il terrorismo è cambiato molto. Gli attacchi realizzati da gruppi terroristici con una catena di comando ben definita sono diminuiti, mentre è aumentato il numero di reti e cellule autonome o, in casi più rari, di singoli terroristi. Questa evoluzione ha giustamente scatenato la ricerca di un nuovo lessico. E l’etichetta che molti sembrano aver scelto è “lupi solitari”. Continuano a ripeterci che sono loro il nostro “nemico numero uno”.
Concetto moderno
Ma usare quest’espressione con tanta facilità è un errore. Le etichette condizionano la nostra visione del mondo, influiscono sugli atteggiamenti mentali e alla fine anche sulle scelte politiche. Usare le parole sbagliate per descrivere un problema che dobbiamo cercare di capire non solo distorce la percezione dell’opinione pubblica, ma rischia di condizionare negativamente le decisioni dei leader politici. Parlare in modo pigro di “lupi solitari” offusca la vera natura del pericolo che stiamo correndo e minaccia ancora di più la nostra sicurezza.
L’immagine del lupo solitario che si separa dal branco ricorre nella cultura popolare in dall’ottocento, spunta nelle storie sugli imperi e sulle esplorazioni, dall’India britannica al selvaggio west americano. Dal 1914 in poi, l’espressione è diventata popolare nel mondo anglosassone grazie a una serie di romanzi e di gialli incentrati su un criminale pentito soprannominato Lone Wolf, lupo solitario. Più o meno nello stesso periodo, il termine fece la sua comparsa anche nel vocabolario della polizia e dei giornali. Nell’aprile del 1925 il New York Times raccontò la storia di un uomo che “si definiva un lupo solitario” e terrorizzava le donne di un condominio di Boston. Ma solo molti decenni dopo l’espressione è stata associata al terrorismo.
Negli anni sessanta e settanta del novecento gli Stati Uniti e l’Europa occidentale furono colpiti da diverse ondate di terrorismo di destra e di sinistra. Spesso era difficile individuare i responsabili: gruppi con una struttura gerarchica interna, reti diffuse o individui che agivano da soli. In ogni caso, appartenevano quasi tutti a organizzazioni ispirate ai gruppi militari o rivoluzionari esistenti. Gli attentatori solitari erano considerati anomalie, non il pericolo principale.
Dopo gli attentati dell’11 settembre del 2001, la teoria del terrorista solitario sembrava un elemento di distrazione da minacce più gravi
Il concetto moderno di terrorista solitario ci è arrivato dall’estremismo di destra statunitense. Nel 1983, quando le organizzazioni di estrema destra erano tenute sotto stretto controllo dall’Fbi, il nazionalista bianco Louis Beam pubblicò un manifesto che invitava alla “resistenza senza leader” contro il governo statunitense. Beam, che apparteneva sia al Ku klux klan sia al gruppo neonazista Aryan Nations, non fu il primo a elaborare questa strategia, ma era uno dei più noti. Diceva ai suoi seguaci che solo un movimento basato su “cellule di resistenza molto piccole o perino di un solo uomo potevano combattere il governo più potente della terra”.
Gli esperti ancora discutono su quanto il pensiero di Beam e di altri suprematisti
bianchi abbia influito sugli estremisti di destra statunitensi. Timothy McVeigh, che nel 1995 uccise 168 persone facendo esplodere una bomba in un ufficio governativo di Oklahoma City, è citato a volte come esempio di terrorista che si era ispirato a queste idee. Ma McVeigh aveva parlato con altri del suo piano, aveva un complice ed era legato da anni a gruppi paramilitari di destra. Forse si considerava un lupo solitario, ma non lo era.
Tra quelli che hanno usato l’espressione in modo esplicito c’è Tom Metzger, il leader del gruppo White arian resistance (Resistenza bianca ariana), nell’Indiana. Alcuni pensano che Metzger sia l’autore del manifesto intitolato “La legge del lupo solitario”, una sorta di chiamata alle armi pubblicata sul sito dell’organizzazione. “Mi sto preparando alla guerra. Sono pronto ad agire quando sarà il momento. Sono il combattente rivoluzionario indipendente. Sono nei vostri quartieri, nelle vostre scuole, nei distretti di polizia, nei bar, nei caffè, nei centri commerciali, dovunque. Sono il lupo solitario”.
Un approccio comodo
Dalla metà degli anni novanta, quando le idee di Metzger hanno cominciato a diffondersi, il numero dei reati d’odio commessi da quelli che si definivano estremisti di destra “senza leader” è aumentato progressivamente. Nel 1998 l’Fbi ha lanciato l’operazione “lupo solitario” contro un piccolo gruppo di suprematisti bianchi della costa occidentale degli Stati Uniti. Un anno dopo Alex Curtis, un giovane e influente estremista di destra cresciuto sotto l’ala di Metzger, diceva in un’email a migliaia di suoi seguaci che “i lupi solitari intelligenti e capaci di agire con freddezza possono riuscire in qualsiasi impresa. Ormai è troppo tardi per cercare di educare le masse bianche e non possiamo preoccuparci delle loro reazioni agli attacchi dei solitari o delle piccole cellule”.
Lo stesso anno il New York Times ha pubblicato un lungo articolo intitolato “Il nuovo volto del terrorismo: il ‘lupo solitario’ educato all’odio”. In quel momento l’idea del lupo solitario è uscita dai circoli degli estremisti di destra – e dalle forze dell’ordine che li sorvegliavano – ed è entrato nel dibattito pubblico. Nel 2000 Curtis, accusato di reati d’odio, era descritto dalla procura come un rappresentante del terrorismo solitario.
Ma quando l’espressione è entrata definitivamente nel lessico quotidiano di milioni di persone, più di dieci anni dopo, il contesto era molto diverso.
Dopo gli attentati dell’11 settembre del 2001, la teoria del terrorista solitario sembrava un elemento di distrazione da minacce molto più gravi. I diciannove uomini che avevano realizzato gli attentati contro le torri gemelle e il Pentagono erano jihadisti addestrati, equipaggiati e finanziati da Osama bin Laden, il leader di Al Qaeda, e da un ristretto gruppo di suoi complici.
Anche se gli attentati dell’11 settembre erano molto diversi da quelli precedenti, ben presto hanno finito per diventare il paradigma del pericolo jihadista. I servizi di sicurezza hanno costruito organigrammi di gruppi terroristici. Gli analisti si sono concentrati su singoli personaggi solo se erano collegati a entità più ampie. I rapporti personali – soprattutto le amicizie basate su obiettivi comuni ed esperienze sul campo condivise, oltre che su legami familiari e tribali – sono stati scambiati per rapporti istituzionali, che collegavano ufficialmente gli individui alle organizzazioni e li inserivano in una catena di comando.
Questo metodo faceva comodo alle istituzioni e alle persone impegnate a combattere la “guerra al terrorismo”. Per le procure, che lavoravano sulla base di leggi superate, dimostrare l’appartenenza a un’organizzazione era spesso l’unico modo per ottenere la condanna degli autori di un attentato. I governi di alcuni paesi – Uzbekistan, Pakistan, Egitto – hanno cominciato a dare ad Al Qaeda la colpa degli attacchi compiuti sul loro territorio, spesso con l’obiettivo di distogliere l’attenzione dalla loro stessa brutalità, dalla corruzione e dall’incompetenza e per ottenere il sostegno di Washington.
D’altra parte, per alcuni funzionari governativi statunitensi, collegare gli attacchi terroristici a gruppi “sostenuti da uno stato” era un modo molto facile per giustificare scelte politiche come l’isolamento dell’Iran o interventi militari come l’invasione dell’Iraq. Molti esperti e leader politici, fortemente influenzati dai luoghi comuni sul terrorismo ereditati dalla guerra fredda, preferivano pensare in termini di organizzazioni gerarchiche sostenute dagli stati.
Ma c’era anche un altro fattore. Attribuire la nuova ondata di violenza a una singola organizzazione non solo offuscava le profonde, complesse e inquietanti radici del jihadismo, ma lasciava anche intendere che tutto sarebbe finito una volta sconfitta Al Qaeda. Questa idea era rassicurante, sia per chi prendeva le decisioni sia per l’opinione pubblica.
Intorno al 2005 questa analisi si era ormai dimostrata inadeguata. Gli attentati di Bali, Istanbul e Mombasa erano stati sicuramente opera di un’organizzazione centralizzata, ma l’attacco del 2004 alla metropolitana di Madrid era stato eseguito da una cellula solo vagamente collegata ai leader di Al Qaeda. Per ogni operazione terroristica come gli attentati di Londra del 2005 – molto simili a quelli dell’11 settembre – ce n’erano altre in cui gli attentatori non sembravano essere direttamente collegati a Bin Laden, anche se forse si ispiravano alla sua ideologia. Sembrava sempre più evidente che la minaccia del terrorismo islamico si stava evolvendo in qualcosa di diverso, qualcosa di più vicino alla “resistenza senza leader” invocata dai suprematisti bianchi vent’anni prima.
Pochi anni dopo, gli attentati compiuti da persone che non facevano parte di un’organizzazione avevano ormai superato quelli di altro tipo. Provocavano meno morti degli spettacolari attentati di qualche anno prima, ma la tendenza era ugualmente allarmante. Nel 2008 nel Regno Unito un convertito all’islam con problemi di salute mentale ha cercato – senza successo – di far saltare in aria un ristorante di Exeter. Nel 2009 a Fort Hood, in Texas, un ex maggiore dell’esercito americano ha ucciso 13 persone. Nel 2010 a Londra una studente ha accoltellato un parlamentare. All’inizio, almeno apparentemente, nessuno di loro sembrava collegato al movimento jihadista globale. Nel tentativo di capire quali fossero le cause di questa nuova minaccia, gli analisti si sono messi a spulciare tra i sempre più numerosi messaggi pubblicati su internet dagli ideologi del jihadismo. Uno di loro sembrava particolarmente influente: un siriano di nome Mustafa Setmariam Nasar, meglio noto come Abu Musab al Suri, che nel 2004 aveva descritto in una serie di post su un sito estremista una nuova strategia molto simile a quella della “resistenza senza leader”, anche se non è dimostrato che conoscesse il pensiero di Beam o Metzger. Secondo Nasar bisognava dare la priorità ai “princìpi, non alle organizzazioni”. Sosteneva che una serie di singoli individui o di cellule, guidati da messaggi pubblicati online, avrebbe potuto attaccare obiettivi in tutto il mondo.
Dopo aver individuato questa nuova minaccia, gli esperti di sicurezza, i giornalisti e i politici avevano bisogno di un nuovo lessico per descriverla. L’uso dell’espressione “lupo solitario” aveva dei precedenti. Dopo l’11 settembre del 2001, gli Stati Uniti avevano introdotto nuove misure antiterrorismo che tenevano conto dei cosiddetti lupi solitari. Questa categoria permetteva di dare la caccia a terroristi che appartenevano a gruppi stranieri ma che negli Stati Uniti agivano da soli. Le nuove misure continuavano a dare per scontato che tutti i terroristi appartenevano a organizzazioni più grandi e agivano per ordine dei loro superiori. Lo stereotipo del lupo solitario, che oggi è tanto presente sui mezzi d’informazione, non si era ancora affermato.
Il parere degli esperti
È difficile individuare il momento preciso in cui le cose sono cambiate. Intorno al 2006 qualche esperto aveva cominciato a parlare di attacchi compiuti da un’unica persona nel contesto della militanza islamica. E le autorità israeliane usavano l’espressione lupo solitario per gli attentati compiuti da palestinesi apparentemente isolati. Ma era una scelta minoritaria.
Per scrivere questo articolo ho contattato otto persone che hanno lavorato nell’antiterrorismo negli ultimi dieci anni. Gli ho chiesto quando hanno sentito parlare per la prima volta dei lupi solitari. Una di loro mi ha detto che è stato nel 2008, tre nel 2009, altre tre nel 2010 e una nel 2011. “È stata l’espressione a dare forza all’idea”, mi ha detto Richard Barrett, che in quel periodo ha ricoperto ruoli di primo piano nell’MI6, il servizio segreto britannico, e nelle Nazioni Unite. Prima che si parlasse di lupi solitari, gli esperti di sicurezza usavano espressioni – altrettanto sbagliate – come “freelance” o semplicemente “non affiliati”. A mano a mano che venivano scoperti complotti jihadisti che non sembravano essere collegati ad Al Qaeda o ad altre organizzazioni simili, l’espressione è diventata più comune. Secondo il database professionale Lexis Nexis, tra il 2009 e il 2012 è apparsa in circa 300 articoli all’anno sui principali mezzi d’informazione in lingua inglese. Da allora è diventata onnipresente. Nei 12 mesi prima dell’attentato di Londra del marzo 2017 a Londra, il numero dei riferimenti a “lupi solitari” ha superato il totale dei tre
anni precedenti, arrivando a mille.
Oggi sembra che siano dappertutto, in giro per le nostre strade, nelle scuole e negli aeroporti. Come la teoria dominante dieci anni fa, che tendeva ad attribuire tutti gli attentati ad Al Qaeda, anche questa è una pericolosa semplificazione.
Nel marzo del 2012, nel sudest della Francia, un piccolo criminale di 23 anni di nome Mohamed Merah ha realizzato tre attacchi nel giro di nove giorni, uccidendo sette persone. Secondo Bernard Squarcini, capo dei servizi segreti interni francesi, era un lupo solitario. La pensavano così anche il portavoce del ministro dell’interno e, inevitabilmente, molti giornalisti. Un anno dopo Lee Rigby, un soldato fuori servizio, è stato aggredito e decapitato a Londra. Anche in quel caso le autorità e i mezzi d’informazione hanno descritto i due aggressori come dei lupi solitari. Lo stesso è successo con Dzhokhar e Tamerlan Tsarnaev, i fratelli che nel 2013 hanno fatto scoppiare le bombe alla maratona di Boston. La stessa etichetta è stata usata più di recente per gli uomini che hanno lanciato i loro mezzi sulla folla a Nizza e Berlino nel 2016, e il 22 marzo di quest’anno a Londra.
Uno dei problemi che devono affrontare i servizi di sicurezza, i politici e i giornalisti è che analizzare immediatamente i fatti è difficile. Ci vogliono mesi per scoprire la verità che si nasconde dietro un’operazione terroristica anche piccola. C’è la pressione dell’opinione pubblica, che è spaventata ed è influenzata da mezzi d’informazione allarmati. In quei casi le persone cercano spiegazioni facilmente comprensibili.
È più facile trovare attentatori solitari tra gli estremisti di destra che tra i jihadisti
Eppure molti attacchi che sono stati immediatamente attribuiti a singoli individui si sono rivelati tutt’altro. Molto spesso i terroristi che inizialmente sono considerati lupi solitari hanno rapporti attivi con gruppi consolidati come lo Stato islamico (Is) o Al Qaeda. Merah, per esempio, era appena stato in Pakistan, dove era stato addestrato, anche se sommariamente, da un’organizzazione jihadista alleata con Al Qaeda. Era anche collegato a una rete di estremisti locali, alcuni dei quali avrebbero poi commesso attentati in Libia, Iraq e Siria. Bernard Cazeneuve, che all’epoca era il ministro dell’interno francese, in seguito ha ammesso che chiamare Merah un lupo solitario era stato un errore.
Se in casi come quello di Merah l’etichetta è palesemente sbagliata, ce ne sono altri più confusi dove è comunque fuorviante parlare di lupi solitari. Un’altra categoria di attentatori, per esempio, è costituita da quelli che colpiscono da soli, senza la guida di organizzazioni ufficiali, ma hanno avuto contatti diretti con reti di persone che condividono ideologie estremiste. L’attentatore di Exeter, liquidato come un personaggio solitario e instabile, era in contatto con un gruppo di militanti locali (che non sono mai stati identificati). Gli assassini di Lee Rigby si muovevano da anni nel mondo dei movimenti estremisti britannici: partecipavano ai raduni di gruppi dichiarati fuori legge come Al Muhajiroun, guidato da Anjem Choudary, un predicatore condannato per terrorismo nel 2016 che si dice abbia “ispirato” più di cento militanti britannici.
Una terza categoria è formata dagli attentatori che colpiscono da soli dopo essere stati a stretto contatto con gruppi estremisti o singoli individui via internet più che di persona. L’ondata di attentati che ha colpito la Francia nel 2016 è stata vista inizialmente come l’opera di terroristi solitari “ispirati” invece che guidati dal’Is. Ma ben presto si è capito che le persone coinvolte – come i due ragazzi che hanno ucciso un prete davanti ai suoi parrocchiani in una chiesa della Normandia – erano state reclutate online da un leader dell’Is. Negli ultimi tre incidenti avvenuti in Germania, tutti definiti inizialmente attacchi di terroristi isolati, i militanti dell’Is avevano in realtà usato applicazioni di messaggistica per dare ordini alle reclute pochi minuti prima degli attacchi. “Prega che io diventi un martire”, aveva detto al suo interlocutore l’uomo che nel luglio del 2016 ha attaccato i passeggeri di un treno tedesco con un’ascia e un coltello. “Sto aspettando il treno. Adesso comincio”.
Molto spesso le operazioni condotte da terroristi solitari si rivelano molto più complesse di quanto si pensi inizialmente. Forse nemmeno lo squilibrato che ha ucciso 86 persone con un camion a Nizza nell’estate del 2016 – con il suo passato di alcolismo, sesso occasionale e apparente mancanza di interesse per la religione e le ideologie radicali – era veramente un lupo solitario. Sono stati arrestati otto dei suoi amici e conoscenti e la polizia sta indagando su possibili rapporti con una rete più ampia. Dalle ricerche emerge che è più facile trovare attentatori solitari tra gli estremisti di destra che tra i jihadisti. E anche in quei casi il termine nasconde più di quello che rivela.
Omicidi politici
L’omicidio della deputata laburista Jo Cox, uccisa da Thomas Mair, un uomo di 52 anni, qualche giorno prima del referendum sull’uscita del Regno Unito dall’Unione europea, è stato il culmine di un periodo di crescente violenza da parte dell’estrema destra nel paese, una tendenza che era stata perlopiù ignorata dai mezzi d’informazione e dai politici. Secondo la polizia, in diverse occasioni c’è stato il rischio di attentati che potevano provocare più vittime di quelle mai fatte dal terrorismo jihadista nel paese.
Il pericolo maggiore è stato corso nel 2013, quando Pavlo Lapshyn, un ricercatore universitario ucraino, ha messo una bomba davanti a una moschea di Tipton, nelle West Midlands. Fortunatamente Lapshyn aveva sbagliato a calcolare i tempi, e quando l’ordigno è esploso la congregazione non si era ancora riunita. Infilzati nei tronchi degli alberi intorno all’edificio, la polizia ha trovato un centinaio di chiodi che l’attentatore aveva aggiunto alla bomba per renderla più letale.
Lapshyn era arrivato da poco nel Regno Unito, ma molti degli estremisti di destra attivi negli ultimi anni sono nati e cresciuti nel paese. Tra loro c’è Martyn Gilleard, condannato a sedici anni di detenzione per terrorismo e pornografia infantile nel 2008. Quando gli agenti hanno perquisito la sua casa di Goole, nello Yorkshire orientale, hanno trovato coltelli, pistole, machete, spade, asce, pallottole e quattro bombe imbottite di chiodi. Un anno dopo Ian Davison è stato il primo cittadino britannico processato in base alla nuova legge sulla produzione di armi chimiche. È stato condannato a dieci anni di carcere per aver fabbricato la ricina, un veleno biologico letale derivato dai semi di ricino. Il suo scopo, come ha detto alla corte, era “creare un gruppo ariano internazionale che avrebbe ristabilito la supremazia bianca nei paesi bianchi”.
Lapshyn, Gilleard e Davison sono stati definiti lupi solitari dalla polizia, dai giudici e dai giornalisti. Ma basta un’analisi anche rapida del loro passato per capire che è una
definizione sbagliata. Gilleard faceva parte di un gruppo neonazista, mentre Davison aveva fondato l’Aryan strike force, un gruppo di suprematisti che rganizzava dei corsi di addestramento nella Cumbria, una contea nel nord dell’Inghilterra.
Nel maggio del 1999 la National alliance, un’organizzazione di suprematisti bianchi della West Virginia, negli Stati Uniti, aveva mandato a Mair alcuni manuali che spiegavano come costruire bombe e assemblare pistole in casa. Diciassette anni dopo, quando la polizia ha perquisito la sua casa dopo l’omicidio di Cox, ha trovato pile di libri sull’estrema destra, cimeli nazisti e ritagli di giornale su Anders Breivik, il terrorista norvegese che nel 2011 ha ucciso 77 persone.
La verità su Breivik
Neanche Breivik, definito “il terrorista solitario più sanguinario della storia europea”, era un vero lupo solitario. Prima di essere arrestato, era stato a lungo in contatto con gruppi di estrema destra. Un iscritto alla English defence league, un movimento di estrema destra britannico ostile all’islam, ha dichiarato al Telegraph che Breivik era stato regolarmente in contatto con l’organizzazione attraverso Facebook, e che esercitava un effetto “ipnotico” sui suoi affiliati. Se non coincidono molto con l’immagine ampiamente diffusa del lupo solitario, questi fatti confermano i dati di una serie di ricerche accademiche dai quali emerge che pochissimi estremisti violenti agiscono senza rivelare a qualcuno quello che intendono fare.
Alla fine degli anni novanta la polizia federale statunitense si è resa conto che nella maggior parte dei casi le persone che sparavano nelle scuole avevano comunicato le loro intenzioni a qualche amico prima di compiere la strage. A quel punto l’Fbi ha cominciato a parlare di “fughe” di informazioni critiche. Nel 2009 ha esteso questo concetto agli attacchi terroristici, e ha scoperto che queste “fughe” si erano verificate in più di quattro quinti degli ottanta casi su cui stava indagando. Nel 95 per cento dei casi gli attentatori avevano rivelato i loro piani ad amici, parenti stretti o persone che consideravano autorevoli.
Ricerche più recenti hanno sottolineato la tendenza degli estremisti di destra a parlare dei loro piani. Nel 2013 i ricercatori dell’università di stato della Pennsylvania hanno analizzato le interazioni di 119 terroristi solitari motivati da una vasta gamma di ideologie e religioni. Hanno scoperto che, anche se avevano agito da soli, nel 79 per cento dei casi avevano messo al corrente qualcuno dell’ideologia che li guidava, e nel 64 per cento dei casi qualche familiare o amico era a conoscenza della loro intenzione di realizzare atti terroristici. Da un’altra ricerca più recente è emerso che nel 45 per cento dei casi i terroristi islamici avevano parlato dei loro progetti e delle loro possibili azioni con familiari e amici. Solo il 18 per cento degli estremisti di destra lo aveva fatto, ma era molto più probabile che avessero “scritto post rivelatori” online.
Sono pochi gli estremisti che non interagiscono con nessuno, neppure su internet. Nel 2016 alcuni ricercatori dell’università di Miami hanno analizzato 196 gruppi di simpatizzanti dell’Is attivi sui social network nei primi otto mesi del 2015. Questi gruppi avevano complessivamente più di centomila iscritti. I ricercatori hanno scoperto anche che i simpatizzanti dell’Is che non appartenevano a nessun gruppo – definiti “lupi solitari online” – avevano già fatto parte di un’organizzazione o ne avrebbero fatto parte nel giro di poco.
In altre parole qualsiasi terrorista, anche i più isolati dal punto di vista sociale o materiale, fa parte di un movimento più ampio. Il lungo manifesto che Breivik aveva pubblicato qualche ora prima di mettere in atto la sua strage prendeva in prestito concetti da un fitto ecosistema di blog, siti web e scrittori di estrema destra. Le sue idee strategiche derivavano direttamente dalle teorie sulla “resistenza senza leader” di Beam e di altri come lui. Perino i suoi gusti musicali erano condizionati da quell’ideologia. Per esempio era un fan di Saga, una cantante svedese che nelle sue canzoni dice cose come “la più grande razza che abbia mai camminato sulla terra è stata tradita”.
Nel caso dei jihadisti la situazione non è molto diversa: provengono da gruppi organizzati che si incontrano di persona ma anche dal fertile, disperato e depresso mondo del jihadismo online, con i suoi video di esecuzioni, mitizzazioni della storia, testi religiosi accuratamente selezionati e immagini manipolate di presunte atrocità commesse contro i musulmani.
Lo stesso errore
La violenza terroristica di ogni tipo è diretta contro obiettivi specifici che non sono scelti a caso, e gli attacchi non sono il prodotto di una mente febbricitante e irrazionale che agisce in completo isolamento.
Come la vecchia teoria su Al Qaeda, anche quella sui lupi solitari è comoda per diversi motivi. In primo luogo, per i terroristi stessi. L’ipotesi che siamo circondati da individui anonimi e isolati pronti a colpire in qualsiasi momento incute paura e spacca l’opinione pubblica. Cosa c’è di più allarmante e divisivo dell’idea che qualcuno vicino a noi – forse un collega, un vicino di casa o di posto in treno – possa essere un attentatore?
I gruppi terroristici hanno anche bisogno di motivare continuamente i loro attivisti. Il concetto di lupo solitario conferisce ai potenziali assassini uno status speciale, perino un certo fascino. Breivik, per esempio, nel suo manifesto si congratulava con se stesso per essere diventato “una cellula individuale autofinanziata e autoindottrinata”. Al Qaeda ha elogiato l’attentatore di Fort Hood definendolo “un pioniere, un apripista e un esempio che ha aperto una porta, illuminato un sentiero e mostrato la strada a tutti i musulmani che si trovano a vivere tra gli infedeli”.
Il paradigma dell’attentatore solitario può essere utile anche ai servizi di sicurezza e ai politici, perché l’opinione pubblica dà per scontato che queste persone siano difficili da catturare. Sarebbe un approccio giustificato se l’idea che la gente ha del lupo solitario fosse quella giusta; ma, come abbiamo visto, non è quasi mai così.
Se molti attacchi non sono stati sventati non è perché era impossibile anticipare il comportamento degli attentatori, ma perché era stato commesso qualche errore. I servizi di sicurezza tedeschi sapevano che l’uomo che ha ucciso 12 persone a Berlino prima di Natale era un simpatizzante dell’Is e aveva detto di voler fare un attentato. Vari tentativi di espellerlo erano falliti a causa di intoppi burocratici, e perché mancavano le risorse e la documentazione per inchiodarlo. Nel Regno Unito, da un’inchiesta parlamentare sull’assassinio di Lee Rigby sono emersi ritardi e occasioni perdute di impedirlo. Khalid Masood, il responsabile dell’attentato di Westminster, era stato indicato nel 2010 dai servizi di sicurezza britannici come un potenziale estremista.
Un’altra spiegazione dell’uso dell’espressione “lupo solitario” – e forse la più inquietante – è che ci dice qualcosa che vogliamo credere. È vero che oggi la minaccia terroristica sembra più amorfa e imprevedibile che mai. Al tempo stesso, l’idea che i terroristi possano operare da soli spezza il legame tra un atto di violenza e l’ideologia che c’è dietro. Implica che la responsabilità dell’estremismo violento di un individuo è solo dell’individuo stesso.
La verità, però, è molto più allarmante. Il terrorismo non è un’attività solitaria ma sociale. Le persone cominciano a interessarsi a certe idee, ideologie e attività, anche se terribili, perché interessano ad altre persone.
Nel suo discorso al funerale delle vittime dell’attentato alla moschea del Québec, l’imam Hassan Guillet ha parlato del presunto assassino. Nei giorni precedenti erano emersi alcuni dettagli sulla vita del ragazzo. “Alexandre Bissonette prima di essere un assassino era lui stesso una vittima”, ha detto Hassan. “Prima di piantare le sue pallottole nella testa delle sue vittime, qualcuno gli aveva piantato in testa idee più pericolose delle pallottole. Purtroppo, giorno dopo giorno, settimana dopo settimana, mese dopo mese, certi politici e certi giornalisti avvelenano l’aria che respiriamo. Non abbiamo voluto vederlo perché amiamo questo paese, amiamo questa società. Volevamo che la nostra società fosse perfetta. Eravamo come quei genitori che, quando un vicino gli dice che il figlio fuma o si droga, rispondono: ‘Non ci credo, mio figlio è perfetto’. Non volevamo vedere. Non abbiamo visto, ed è successo. Eppure”, ha concluso l’imam, “c’era già un certo malessere. Ammettiamolo: Alexandre Bissonette non è saltato fuori dal nulla”.
(Traduzione di Bruna Tortorella)
Questo articolo è uscito il 26 maggio 2017 nel numero 1206 di Internazionale. L’originale era stato pubblicato dal quotidiano britannico The Guardian con il titolo The myth of the “lone wolf” terrorist.