Questo articolo è stato pubblicato il 27 dicembre 2008 nel numero 776 di Internazionale.
In una recente conferenza sulla poesia, la meravigliosa poetessa americana Adrienne Rich ha fatto notare che “quest’anno un rapporto dell’ufficio statistiche del ministero della giustizia statunitense rileva che su 136 residenti negli Stati Uniti uno è dietro le sbarre e molti sono detenuti in attesa di giudizio o di un processo”.
Nel corso della stessa conferenza ha citato il poeta greco Yannis Ritsos:
Nel campo l’ultima rondine ha indugiato a lungo,
bilanciandosi nell’aria come un nastro nero sulla manica dell’autunno
Non è rimasto nient’altro. Solo le case incendiate che ancora bruciano.
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Suona il telefono e, appena sollevato il ricevitore, so che dall’altra parte ci sei tu, che mi chiami dal tuo appartamento di via Paolo Sarpi (due giorni dopo i risultati elettorali e il ritorno in scena di Berlusconi). La rapidità con cui identifichiamo una voce familiare che giunge all’improvviso è confortante, ma anche un po’ misteriosa. Perché le misure, le unità, di cui ci serviamo per calcolare la netta differenza che esiste tra una voce e l’altra, sono indefinite e oscure. Non hanno un codice. Di questi tempi sempre più cose sono codificate.
Perciò mi chiedo se non ci siano altri strumenti di misura, altrettanto non codificati e tuttavia precisi, con cui calcoliamo altri dati.
Per esempio, la quantità di libertà circostanziata esistente in una data situazione, la sua ampiezza e i suoi limiti esatti. I detenuti diventano esperti in materia. Sviluppano una sensibilità particolare nei confronti della libertà, non come principio, ma come sostanza granulare. Quando se ne presenta un frammento, loro lo riconoscono quasi istantaneamente.
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In una giornata ordinaria, quando non succede niente e le crisi annunciate di ora in ora sono quelle di sempre (e tanto per cambiare i politici dichiarano che senza di loro sarebbe la CATASTROFE), passando accanto a qualcuno può succedere di scambiarsi un rapido sguardo. Alcune di queste occhiate servono a verificare se anche gli altri immaginino la stessa cosa quando si dicono: allora questa è la vita!
Spesso stanno immaginando la stessa cosa e in questa condivisione primaria c’è una specie di solidarietà che precede ogni parola o scambio di opinioni.
Cerco le parole per descrivere il periodo storico che stiamo vivendo. Dire che non ha precedenti non significa molto, perché, da quando si è scoperta la Storia, ogni periodo è stato senza precedenti!
Non sono alla ricerca di una definizione complessa del periodo che stiamo attraversando, perché non mancano i pensatori, tra cui Zygmunt Bauman, che si sono assunti questo compito essenziale. Sto semplicemente cercando un’immagine che funzioni da punto di riferimento. I punti di riferimento non si spiegano fino in fondo, ma ci offrono un terreno comune. In questo senso somigliano ai taciti presupposti contenuti nei proverbi popolari. Senza punti di riferimento si corre l’enorme rischio umano di girare a vuoto.
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Il punto di riferimento che ho trovato è quello della prigione. Niente di meno. In tutto il pianeta viviamo in una prigione.
La parola “noi”, stampata o pronunciata sugli schermi, è ormai sospetta, perché chi ha potere la usa di continuo affermando demagogicamente di parlare anche a nome di chi non ne ha. Per parlare di noi usiamo dunque il “loro”. Loro vivono in una prigione.
Che genere di prigione? Come è fatta? Dove si trova? O sto usando la parola solo come una figura del discorso?
No, non è una metafora, la reclusione è reale, ma per descriverla bisogna pensare in termini storici.
Che genere di prigione?
Michel Foucault ha dimostrato in modo vivido che il penitenziario è un’invenzione del tardo settecento, inizi dell’ottocento, strettamente connessa alla produzione industriale, alle sue fabbriche e alla sua filosofia utilitaristica. Prima di allora le carceri erano estensioni della gabbia e della segreta. Quel che distingue il penitenziario è il numero di prigionieri che vi si possono ammassare, e il fatto che sono tutti sotto costante sorveglianza (merito del modello del Panopticon ideato da Jeremy Bentham, che introdusse nell’etica il principio della contabilità).
La contabilità richiede che si prenda nota di ogni transazione. Da qui vengono le pareti circolari dei penitenziari, le celle disposte a cerchio e, al centro, la torre di guardia del sorvegliante. Bentham, che all’inizio dell’ottocento ebbe come discepolo John Stuart Mill, fu il principale apologeta utilitarista del capitalismo industriale.
Oggi, nell’era della globalizzazione, il mondo è dominato dal capitale finanziario, non da quello industriale, e i dogmi che definiscono la criminalità e le logiche carcerarie sono radicalmente cambiati. I penitenziari esistono ancora e ne vengono costruiti ogni giorno di più. Adesso, però, le pareti della prigione servono a uno scopo diverso. Quello che costituisce un’area di carcerazione si è trasformato.
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Venticinque anni fa Nella Bielski e io abbiamo scritto A question of geography, un dramma sul gulag. Nel secondo atto, uno zek, un prigioniero politico, parla con un nuovo arrivato di scelta, dei limiti delle scelte possibili in un campo di lavoro.
Quando ti trascini dopo una giornata di lavoro nella taiga e rientri mezzo morto di fatica e di fame, ti viene data la tua razione di zuppa e di pane. Per la zuppa non hai scelta: va mangiata finché è calda o almeno tiepida. Per i quattrocento grammi di pane una scelta ce l’hai. Per esempio, puoi tagliarlo in tre pezzettini: uno da mangiare adesso con la minestra, uno da succhiare tra i denti prima di addormentarti nella tua cuccetta, il terzo da serbare fino alla mattina dopo alle dieci, quando lavori nella taiga e il vuoto nello stomaco pesa come una pietra.
Svuoti una carriola piena di sassi. Finché devi spingerla fino alla fossa non hai scelta. Adesso che è vuota una scelta ce l’hai. Puoi riportarla indietro come ce l’hai portata oppure – se sei intelligente, e la sopravvivenza ti rende intelligente – puoi spingerla tenendola quasi diritta. Se scegli questo secondo modo, fai riposare le spalle.
Se sei uno zek e diventi caposquadra, puoi scegliere di atteggiarti a guardiano o di non dimenticare mai che sei uno zek.
Il gulag non esiste più. Tuttavia milioni di persone lavorano in condizioni che non sono poi così diverse. Quel che è cambiato è la logica giudiziaria applicata a lavoratori e criminali.
Durante il gulag i prigionieri politici, classificati come criminali, erano ridotti a forzati. Oggi milioni di lavoratori sfruttati in modo brutale vengono ridotti allo status di criminali.
L’equazione del gulag, criminale = forzato, è stata riscritta dal neoliberismo ed è diventata: lavoratore = criminale latente. L’intero dramma della migrazione globale si esprime in questa nuova formula: chi lavora è un criminale in potenza. Davanti alla legge, è riconosciuto colpevole di tentare a tutti i costi di sopravvivere.
Quindici milioni di messicani, donne e uomini, lavorano negli Stati Uniti senza documenti e sono di conseguenza illegali. Lungo la frontiera tra Stati Uniti e Messico sono in progetto un muro di cemento di 1.200 chilometri e un muro “virtuale” di 1.800 torri di guardia. Comunque i modi per aggirarli – tutti pericolosi – si troveranno di certo.
Tra capitalismo industriale, dipendente dalla produzione e dalle fabbriche, e capitalismo finanziario, dipendente dalle speculazioni del libero mercato e dagli operatori che gestiscono l’interazione con il cliente (le transazioni finanziarie speculative ammontano, ogni giorno, a 1.300 miliardi di dollari: cinquanta volte più del totale degli scambi commerciali), l’area di carcerazione è cambiata.
Adesso la prigione è grande come il pianeta e le sue zone assegnate variano e possono essere definite luogo di lavoro, campo profughi, centro commerciale, periferia, complesso di uffici, favela, sobborgo… La cosa essenziale è che quelli che sono reclusi in queste zone sono compagni di prigionia.
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È la prima settimana di maggio e sul fianco delle colline e sui monti, lungo i viali e intorno ai cancelli, nell’emisfero settentrionale, le foglie di buona parte degli alberi stanno spuntando. Non soltanto tutte le loro diverse varietà di verde sono ancora distinte, si ha anche la sensazione che ogni singola foglia sia diversa, e così ci si trova di fronte a miliardi (la parola è stata corrotta dai dollari), no, non miliardi: a un’infinita moltitudine di nuove foglie.
Per i prigionieri, i piccoli segni visibili della continuità della natura sono sempre stati, e continuano a essere, un incoraggiamento segreto.
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Oggi lo scopo di buona parte dei muri della prigione (di cemento, elettronici, pattugliati o inquisitori) non è tener dentro i prigionieri e rieducarli, ma tenerli fuori ed escluderli.
La maggior parte degli esclusi sono senza nome. Da questo deriva l’ossessione per l’identità di tutte le forze di sicurezza. Gli esclusi sono anche senza numero. Per due ragioni. Primo perché il loro numero fluttua: ogni carestia, disastro naturale e intervento militare (ora chiamato mantenimento dell’ordine!) riduce o aumenta la loro moltitudine. Secondo, perché stimarne il numero significa affrontare il fatto che loro costituiscono la maggioranza degli esseri viventi sulla faccia della terra. E guardare in faccia questa realtà vuol dire precipitare nell’assoluta assurdità.
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Liberare i piccoli prodotti dalla loro confezione è – lo avrete notato – sempre più difficile. Qualcosa di simile è successo con le vite di chi ha un impiego remunerativo. Chi ha un lavoro legale e non è povero, vive in uno spazio ridottissimo che gli permette un numero sempre minore di scelte, salvo la continua scelta binaria tra ubbidienza e disubbidienza.
Il suo orario di lavoro, il suo luogo di residenza, le sue competenze e la sua esperienza passata, la sua salute, il futuro dei suoi figli, tutto quel che esula dalla sua funzione di dipendente deve occupare una piccola posizione di secondo piano rispetto alle esigenze enormi e imprevedibili del Profitto liquido. Inoltre la Rigidità di questa “regola della casa” è chiamata Flessibilità. In prigione le parole cambiano di segno.
In Giappone l’allarmante pressione delle condizioni di lavoro di alto livello ha di recente obbligato i tribunali a riconoscere e definire la nuova categoria legale di “morte da superlavoro”.
Non esiste altro sistema, viene detto a chi ha un impiego remunerativo. Non c’è alternativa. Prendete l’ascensore. L’ascensore è una piccola cella.
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“Les peuples n’ont jamais que le degré de liberté que leur audace conquiert sur la peur”.–Stendhal
Osservo una bimba di cinque anni che prende lezioni di nuoto in una piscina comunale coperta. Indossa un costume blu scuro. Sa già nuotare, ma non si sente ancora abbastanza sicura per farlo senza sostegno. L’istruttrice la porta sul lato della piscina dove non si tocca.
La bambina deve saltare nell’acqua afferrandosi a una lunga bacchetta che l’insegnante tiene tesa verso di lei. È un modo di aiutarla a vincere la paura dell’acqua. Ieri hanno fatto la stessa cosa.
Oggi l’istruttrice vuole che la bambina salti senza aggrapparsi alla bacchetta. Uno, due, tre! La bimba salta, ma all’ultimo momento afferra l’asta. Nessuna delle due dice niente, ma si scambiano un vago sorriso. Intrepida la ragazzina, paziente la donna.
La bambina esce dall’acqua arrampicandosi sulla scaletta e torna sul bordo della piscina. “Lasciami saltare di nuovo!”, dice. La donna fa un cenno di assenso. La bimba inspira, sibilando, e salta, le mani lungo i fianchi, senza afferrarsi a niente. Quando riemerge, la punta della bacchetta è lì proprio davanti al suo naso. Fa due bracciate fino alla scaletta senza toccarla. Brava!
Nell’istante in cui la bambina è saltata in acqua senza la bacchetta, nessuna delle due era in prigione.
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Osservate la struttura del potere senza precedenti che circonda il mondo, e come funziona la sua autorità. Ogni tirannia scopre e improvvisa il proprio insieme di controlli. Ed è per questo che spesso, al principio, non ci accorgiamo che si tratta di controlli viscosi.
Le forze del mercato che dominano il mondo asseriscono di essere inevitabilmente più forti di qualsiasi stato-nazione. Questa asserzione è confermata ogni istante. Da una telefonata non richiesta per convincere l’abbonato a sottoscrivere una nuova assicurazione sanitaria o pensione privata fino al più recente ultimatum dell’Organizzazione mondiale del commercio.
Il risultato è che la maggior parte dei governi non governa più. Un governo non procede più nella direzione che si è scelto. La parola orizzonte, con la sua promessa di un futuro in cui sperare, è svanita dal discorso politico, a destra e a sinistra. La sola cosa ancora aperta alla discussione è come misurare quel che c’è. I sondaggi d’opinione rimpiazzano l’orientamento e si sostituiscono al desiderio.
La maggior parte dei governi ammassa il branco invece di governare (nello slang carcerario degli Stati Uniti, mandriani è uno dei tanti nomi con cui sono chiamati i secondini).
Nel settecento alla pena della carcerazione a lungo termine si dava con tono di approvazione la definizione di “morte civile”. Tre secoli dopo, i governi stanno imponendo con la legge, la forza, le minacce economiche e il loro brusio mediatico, regimi di massa di “morte civile”.
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Vivere sotto una qualsiasi tirannide del passato non era forse una forma di carcerazione? Non nel senso che sto descrivendo. Quel che viviamo oggi è nuovo, per via del rapporto che ha con lo spazio.
È qui che il pensiero di Zygmunt Bauman è illuminante. Egli mostra che le forze del mercato finanziario che oggi governano il mondo sono extraterritoriali, vale a dire “libere dalle costrizioni territoriali, le costrizioni della località”. Sono perennemente remote, anonime e dunque non devono preoccuparsi delle conseguenze fisiche, territoriali delle loro azioni. Bauman cita Hans Tietmeyer, presidente della banca federale tedesca: “La posta odierna è creare condizioni favorevoli alla fiducia degli investitori”. La sola e suprema priorità.
Ne consegue che il controllo delle popolazioni mondiali, composte di produttori, consumatori e poveri emarginati, è il compito assegnato ai docili governi nazionali.
Il pianeta è una prigione e i governi ubbidienti, di destra o di sinistra, sono i mandriani.
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Il sistema-prigione opera grazie al ciberspazio. Il ciberspazio offre al mercato una rapidità di scambio pressoché istantanea, in funzione ventiquattr’ore su ventiquattro in tutto il mondo per commerciare. Da questa rapidità, da questa velocità, la tirannia del mercato ottiene la sua licenza extraterritoriale. Una simile velocità, tuttavia, ha un effetto patologico su quelli che la praticano: li anestetizza. Qualunque cosa succeda, business as usual.
Quella velocità non lascia spazio al dolore: forse alle sue avvisaglie, ma non alla sofferenza. Di conseguenza, la condizione umana è bandita, esclusa, da chi fa funzionare il sistema, che è solo, perché non ha cuore.
In passato i tiranni erano spietati e inaccessibili, ma facevano parte del vicinato ed erano esposti al dolore. Non è più così, e in questo sta il probabile punto debole del sistema.
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“I portoni si richiudono
Siamo nel cortile della prigione
in una nuova stagione”.–Tomas Transtömer.
Loro (noi) sono compagni di prigionia. Questo riconoscimento, con qualunque tono di voce lo si dichiari, contiene un rifiuto. Da nessuna parte più che in prigione il futuro è conteggiato e atteso come qualcosa di assolutamente opposto al presente. Chi è in carcere non accetterà mai che il presente sia definitivo.
Nel frattempo, come vivere questo presente? Che conclusioni trarre? Che decisioni prendere? Come agire? Adesso che il punto di riferimento è stato fissato, ho qualche indicazione da suggerire.
Di qua dai muri si dà retta all’esperienza, nessuna esperienza è considerata obsoleta. Qui la sopravvivenza è rispettata ed è inutile dire che spesso dipende dalla solidarietà tra compagni di prigionia.
Le autorità lo sanno, ecco perché ricorrono all’isolamento, attraverso la segregazione fisica o il loro brusio mediatico, per disconnettere le vite individuali dalla storia, dal lascito del passato, dalla terra e, soprattutto, da un futuro comune.
Ignorate le chiacchiere del carceriere. Ovviamente, tra i carcerieri, ce ne sono di cattivi e di meno cattivi. In certe condizioni è utile notare la differenza. Ma quel che dicono – anche i meno infami – sono cazzate. I loro inni, le loro shibboleth¹, le loro parole di legno, per esempio Sicurezza, Democrazia, Identità, Civiltà, Flessibilità, Produttività, Diritti umani, Integrazione, Terrorismo, Libertà, sono ripetuti all’infinito per confondere, dividere, distrarre e sedare tutti i compagni di prigionia. Di qua dai muri, le parole dei carcerieri sono prive di significato e non aiutano più a pensare. Non portano da nessuna parte. Rifiutatele anche quando riflettete in silenzio per conto vostro.
I prigionieri, al contrario, pensano servendosi di un vocabolario tutto loro. Molte parole sono tenute segrete e molte sono locali e hanno un’infinità di varianti. Parole e frasi brevi, brevi eppure capaci di contenere un mondo, come: lascia-che-ti-mostri, certe-volte-mi-chiedo, passerotto, nell’ala-B-sta-succedendo-qualcosa, spogliato, prendi-questo-piccolo-orecchino, caduti-per-noi, provaci, eccetera.
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Tra i compagni di prigionia non mancano i conflitti, a volte violenti. Tutti i prigionieri sono deprivati, eppure ci sono diversi gradi di deprivazione e le differenze di grado suscitano invidia. Di qua dai muri la vita vale poco. Il fatto stesso che la tirannide globale sia senza volto incoraggia la ricerca di capri espiatori, di nemici immediatamente identificabili, tra gli altri reclusi. Allora le celle soffocanti diventano un manicomio. I poveri aggrediscono i poveri, chi è stato invaso saccheggia l’invasore. I compagni di prigionia non andrebbero idealizzati.
Senza idealizzare, prendete semplicemente nota che quel che hanno in comune – la loro inutile sofferenza, la loro resistenza, la loro scaltrezza – è più significativo, più eloquente, di quel che li separa. È a partire da qui che si creano nuove forme di solidarietà. Le nuove solidarietà iniziano con il reciproco riconoscimento delle differenze e della molteplicità. Se questa è vita! Una solidarietà, non di massa ma reticolare, di gran lunga più appropriata alle condizioni di vita in carcere.
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Le autorità fanno sistematicamente del loro meglio per tenere i compagni di prigionia male o poco informati su quel che succede altrove nella prigione del mondo. Non indottrinano nel senso aggressivo del termine. L’indottrinamento è riservato alla formazione di una piccola élite di operatori ed esperti di management e mercato. Riguardo alla massa della popolazione carceraria lo scopo è non attivarla, bensì tenerla in uno stato di insicurezza passiva, per ricordarle senza rimorsi che nella vita non c’è altro che rischio e che la terra è un posto pericoloso.
Lo si fa mescolando informazioni accuratamente selezionate, informazioni sbagliate, commenti, dicerie, storie inventate di sana pianta. Nella misura in cui riesce, l’operazione propone e alimenta un paradosso allucinante, poiché spinge la popolazione carceraria a credere che per ognuno dei suoi membri la priorità sia organizzare la propria difesa personale e ottenere in qualche modo, nonostante il comune stato di reclusione, la propria speciale esenzione dal destino collettivo.
L’immagine dell’umanità che ci viene trasmessa dalla visione del mondo è ancora una volta senza precedenti. L’umanità è presentata come una massa di codardi: solo i vincenti sono coraggiosi. Inoltre non ci sono regali: ci sono solo premi.
I prigionieri hanno sempre trovato dei sistemi per comunicare tra loro. Nell’attuale prigione globale il ciberspazio può essere usato contro gli interessi di chi lo ha originariamente installato. In questo modo, i reclusi raccolgono informazioni su quel che il mondo fa ogni giorno e ricostruiscono le storie del passato, trovandosi così fianco a fianco con i morti.
Nel farlo, riscoprono piccoli doni, esempi di coraggio, un’unica rosa in una cucina dove non c’è abbastanza da mangiare, dolori indelebili, l’instancabilità delle madri, risate, aiuto reciproco, silenzio, una resistenza che continua a crescere, il sacrificio volontario, altre risate…
I messaggi sono brevi, ma si protraggono nella solitudine delle loro (nostre) notti.
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L’indicazione finale non è tattica, ma strategica.
Il fatto che i tiranni del mondo siano extraterritoriali spiega la misura della loro capacità di sorveglianza, ma indica anche una debolezza a venire. Operano nel ciberspazio e abitano in condomini strettamente vigilati. Non sanno niente della terra che li circonda. Né vogliono conoscerla, perché a sentir loro si tratta di un sapere superficiale, senza profondità. Contano solo le risorse che ne estraggono. Non possono prestare ascolto alla terra. Sul terreno sono ciechi. Nello spazio fisico e locale sono persi.
Per i compagni di prigionia è vero il contrario. Le celle hanno pareti che si toccano da una parte all’altra del mondo. Gli atti concreti di resistenza prolungata si radicheranno nel locale, vicino e lontano. Resistenza dell’outback², del dietro l’oltre, dando ascolto alla terra.
Lentamente la libertà viene ritrovata non all’esterno, ma nel cuore della prigione.
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Non solo ho immediatamente riconosciuto la tua voce, che mi parlava dal tuo appartamento di via Paolo Sarpi, ma grazie alla tua voce sono riuscito anche a intuire come ti sentivi. Ho percepito la tua esasperazione o, piuttosto, una resistenza esasperata che si combinava – e questo è così tipico di te – con i passi veloci della nostra prossima speranza.
(Traduzione di Maria Nadotti)
1) Shibboleth è un termine di origine biblica usato per identificare i membri di un gruppo. In linguistica indica una parola o un’espressione difficile da pronunciare per alcuni parlanti che, a causa delle limitazioni fonetiche tipiche di alcune lingue, possono facilmente essere identificati chiedendogli di pronunciare una determinata parola. Nel linguaggio moderno ha acquisito significato più ampio e indica persone unite da interessi comuni, come certi gruppi giovanili per i quali il linguaggio particolare diventa un simbolo d’appartenenza che automaticamente esclude l’accesso a ogni realtà esterna.
2) Il nome outback si riferisce, genericamente, alle aree interne più remote del continente australiano. L’outback non ha confini ben precisi ed è una regione ideale più che geografica.
Questo articolo è stato pubblicato il 27 dicembre 2008 nel numero 776 di Internazionale.
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