Questo articolo è stato pubblicato il 12 maggio 2006 nel numero 641 di Internazionale.

Lʼidea mi viene, come molte altre decisioni disperate, durante il periodo delle vacanze natalizie.

Ho spremuto la Visa, ho inaugurato la carta della CitiBank che giaceva da anni in un cassetto e ho prelevato dal bancomat come un guerrigliero iracheno che estrae greggio da un oleodotto. Benché convinta di non essermi concessa altro che fronzoli – un addobbo natalizio per Howard e Nanette, un sapone francese per Norma – in due sole settimane questo mostro di ateismo ha disseminato 1.001 dollari su internet e in giro per New York. Anche se non sono nello spirito giusto, ci sono caduta in pieno.

Nel corso di tre anni di bollettini economici poco brillanti e di disoccupazione in crescita, la fiducia dei consumatori langue e le bare continuano ad arrivare dallʼIraq. Tuttavia in questo mese, mentre i bravi ragazzi americani colpiscono i cattivi iracheni e le aziende in crisi licenziano i lavoratori, dai centri commerciali di tutta America si alzano urletti di gioia.

Intervistata il sabato prima di Natale, Barbara DʼAddario, affetta da shopping compulsivo, dichiara in tv con un sorriso smagliante: “Oggi ho speso settantacinque dollari in soli venti minuti”.

Da dove vengono tanta allegria e generosità? “Ho molta fiducia nella ripresa economica. Sono felice”. Siamo molto felici, e quando siamo felici, proprio come quando siamo tristi o arrabbiati o annoiati o confusi, o quando non abbiamo nessuno stato dʼanimo particolare, facciamo acquisti.

Coloro che hanno beneficiato maggiormente delle politiche presidenziali di detassazione rispondono con maggior entusiasmo. Orologi di lusso che costano dai mille ai duemila dollari spariscono dalle vetrine dei negozi alla velocità della luce. Nei quartieri più popolari, nonostante le vendite siano meno effervescenti, la plebe si arruola come può nella sua personale campagna dʼacquisti “colpisci e terrorizza”. Al Wal-Mart di Orange City, in Florida, una donna viene calpestata da una folla ondeggiante che cerca di impossessarsi di lettori dvd in offerta a ventinove dollari.

Dallʼ11 settembre il nostro “consumatore in capo” ci ha esortato a mostrarci forti e ad aprire i nostri portafogli. Nel suo secondo discorso alla nazione dopo lʼattacco, ci ha incitato “ad aver fiducia e a sostenere lʼeconomia americana”. Il vicepresidente, Dick Cheney, è stato più diretto, esprimendo in televisione la sua personale speranza che gli americani “reagiscano sbattendo in faccia ai terroristi il loro ottimismo” e “non permettano in alcun modo che gli avvenimenti incidano sulla loro abituale attività economica”.

A New York, un giorno solo dopo la caduta delle torri, il sindaco Rudolph Giuliani ha raccomandato ai suoi elettori sgomenti: “Fate vedere che non siete spaventati. Andate al ristorante. Uscite a fare shopping”. Quando il mondo ha chiesto in che modo avrebbe potuto rendersi utile, lui ha risposto: “Venite qui a spendere i vostri soldi”.

La parola ricchezza

I palazzi in fiamme e i corpi lanciati nel vuoto avevano momentaneamente trasformato la parola ricchezza, compresa quella andata in fumo, in qualcosa senza valore. Dopo lʼattacco, la gente parlava di valori comunitari e di beneficenza. Fare acquisti aveva perso dʼattrattiva. Ma invece di congratularsi con lʼAmerica per la nuova frugalità e lʼaltruismo acquisiti, il presidente e i suoi tirapiedi non si sono fatti scrupoli a farci sentire irresponsabili per non aver preso dʼassalto i negozi.

Non si ricorda unʼepoca in cui lo shopping sia stato così esplicitamente collegato ai destini della nazione. Il prodotto interno lordo degli Stati Uniti è determinato per due terzi dal consumo interno, e visto che il prodotto interno lordo è ciò che rende lʼAmerica forte, ci veniva detto, il mercato è ciò che ci rende liberi.

La scelta del consumatore è democrazia. Un dollaro speso è un voto per lʼamerican way of life. Lo shopping, per molto tempo un beneficio accessorio nella vita degli Stati Uniti, dopo lʼ11 settembre era diventato un dovere patriottico. Compratevi quel televisore al plasma, ci ordinavano i nostri leader, o i terroristi lʼavranno vinta.

Era metà dicembre, e questi erano i pensieri che mi turbinavano in testa mentre mi chinavo per raccogliere un guanto in uno di quei piccoli mari artici che si formano agli angoli delle strade di New York dopo una nevicata. Così facendo immergo il sacchetto dello shopping nella neve sciolta, lasciandolo sprofondare e inzupparsi nel terreno fradicio. Lʼacqua ghiacciata penetra tra le cuciture del mio stivale sinistro. “Natale del cazzo!”, dico rivolta al piede che schiaccia nella poltiglia infangata uno dei miei acquisti.

Ho la gamba incastrata in un enorme sacchetto e mentre lotto per non cadere, una massa di borse mi cade sulla testa e sulle spalle. Mi torna dʼimprovviso alla mente la vittima del Wal-Mart. Questa è libertà?, mi chiedo. Questa è democrazia? Mentre, arrancando, sollevo quel che resta del sacchetto, annuncio silenziosamente la mia obiezione di coscienza: io non compro!

So di non essere lʼunica ad avere un atteggiamento ambivalente nei confronti del consumismo. Gli ambientalisti ci mettono in guardia da decenni sul consumo sfrenato – dallʼestrazione alla produzione, dalla spedizione alla vendita al dettaglio, dalla distribuzione allʼuso indiscriminato – che rischia di rendere sterile il nostro pianeta. Stiamo divorando risorse venti volte superiori a quelle utilizzate nel 1900. Il consumo di carta è cresciuto di sei volte dal 1950, principalmente per gli imballaggi. Il consumo di acqua di falda è triplicato, prevalentemente per uso industriale, e lʼacqua potabile in tutto il mondo è contaminata a causa dellʼaumento esponenziale nellʼutilizzo dei pesticidi e dei fertilizzanti, un risultato, questo, della coltivazione intensiva, oltre che della manutenzione dei campi di golf e dei perfetti prati allʼinglese dei quartieri residenziali. Le nostre auto sono assetate di benzina e lo sviluppo generalizzato ha aumentato la quantità di serbatoi e di fabbriche da rifornire.

Gli scienziati di tutto il mondo (fatta eccezione per i consulenti di Bush) sono unanimemente concordi sulle conseguenze di una tale dispersione di combustibile fossile: lʼatmosfera sta diventando una serra, e negli ultimi venticinque anni si sta riscaldando a una velocità e in proporzioni mai registrate prima. Il riscaldamento globale e il suo alleato, la pioggia acida, stanno devastando lʼhabitat terrestre e le specie animali, inondando le terre con lo scioglimento dei ghiacci delle calotte polari.

Antiche diseguaglianze

Che lʼuomo sperperi i doni della natura non è una novità. Per secoli, cacciatori e pescatori hanno sterminato interi branchi di balene, massacrato stormi di uccelli. Né è nuova lʼineguaglianza nel consumo. Ma il livello attuale di ipersfruttamento e il relativo squilibrio che determina sono senza precedenti.

Secondo il World resources institute “in media, un abitante di un paese sviluppato consuma due volte il grano e il pesce, tre volte la carne, nove volte la carta e undici volte la benzina di un abitante in un paese in via di sviluppo”.

Tra i paesi ricchi, gli americani sono quelli che consumano di più. Anche se rappresentiamo solo il 4,5 per cento della popolazione mondiale, consumiamo il 24 per cento delle sue risorse ed emettiamo il 23 per cento dei gas serra che stanno annientando lo strato di ozono.

Lʼorganizzazione ambientalista Redefining progress misura lʼineguaglianza al consumo con uno strumento chiamato “impronta ecologica”, che calcola la quantità di risorse della Terra che ogni singola entità, dagli individui alle nazioni, utilizza. In base alla popolazione attuale della Terra e alle sue risorse complessive, misurate in acri, il consumo sostenibile del pianeta corrisponde a unʼimpronta ecologica di 4,7 acri per ogni essere umano. Lʼamericano medio ne divora 24.

Trasformando questo dato in misure di consumo più familiari, nel 1998 un americano ha usato in media 1.023 chilogrammi di petrolio, o un suo succedaneo, e 122 chili di carne. Nello stesso periodo, un abitante del Bangladesh ha utilizzato una quantità ridicola di carburante – 7,3 chili – e si è nutrito con un boccone di carne – 3,4 chili. Per produrre un chilo di carne servono risorse sette volte superiori a quelle necessarie per produrre un chilo di grano.

I nostri beni di consumo costano sempre meno; ogni nuovo gingillo che lʼindustria produce esegue un numero di funzioni superiore al precedente. Lʼottimismo è iscritto nei nomi freschi e frizzanti dei prodotti: BlackBerry, Apple, iPod. La nostra piacevole vita, tuttavia, richiede che da qualche altra parte – generalmente nellʼest o nel sud del mondo, ma anche nelle nostre strade – la vita non sia così divertente o comoda.

In tutto il mondo i lavoratori, e tra loro anche alcuni bambini, pagano i nostri oggetti di consumo a basso costo con paghe da fame, condizioni di lavoro schiavistiche e con aria e fiumi colmi di sostanze chimiche. Ma anche se gli oggetti rimpiccioliscono e le nostre case e le nostre città si espandono disordinatamente, non cʼè abbastanza spazio in cui mettere i nostri beni.

La famiglia media americana produce due chili di rifiuti al giorno, per un totale nazionale di quasi un miliardo di chili. “Non puoi avere tutto” rifletteva lʼattore Stephen Wright. “Dove lo metteresti?”. La risposta è: nella discarica. Unʼaltra: nel giardino di qualcun altro. In una spiaggia a nord di Salvador, in Brasile, Global garbage ha accertato la presenza di spazzatura proveniente da sessantanove paesi diversi.

I bambini intervistati alla Smithsonian institution sullʼestemporanea proposta di Bush di esplorare Marte avevano altre idee riguardo a dove piazzare i rifiuti solidi. Un ragazzino ha pensato che colonizzare il resto del sistema solare potrebbe rivelarsi utile, “dopo che avremo distrutto la Terra”. Potrebbe essere stato preveggente. Se il resto del mondo consumasse e producesse rifiuti al livello degli americani, afferma lʼEarth council, ci vorrebbero tre pianeti per ospitarci.

Unʼilluminazione

Mi faccio strada attraverso il tornello della metropolitana e nel treno diretto a Brooklyn, infilandomi tra decine di sacchetti bagnati e stracolmi per fare spazio al mio sacchetto bagnato e stracolmo. Sebbene abbia lʼimpressione che là dentro ci sia lʼintera popolazione degli Stati Uniti, so dellʼesistenza di una minoranza di persone che ha deciso di non unirsi a noi.

Alcuni hanno cominciato la loro resistenza il venerdì successivo al giorno del Ringraziamento (il più importante giorno di shopping in America), unendosi a milioni di persone nel mondo per celebrare il Buy nothing day, la giornata del non acquisto: ventiquattrʼore durante le quali non fare acquisti e riflettere sul vero significato della stagione degli acquisti.

La “festa nazionale” del non consumo è frutto di unʼidea avuta dodici anni fa da Kalle Lasn e dalla Adbuster media foundation di Vancouver, in Canada. Ecco perché, mentre mi infilo in un sedile tra due membri di una famiglia di consumatori natalizi, con i loro pacchi bagnati e stracolmi, e il loro odore di ketchup, mi appare una visione: vedo un cielo kitsch e fumettoso con soffuse luci rosa.

Cerco di evocare il vuoto: niente fanghiglia, niente famiglie, niente ketchup. Nessuna carta di credito, e nessuna borsa dello shopping. Niente shopping.Poi mʼillumino: perché non meditare sul significato – e le conseguenze economiche, ambientali, sociali – della stagione degli acquisti non solo per un giorno, ma per un mese? Troppo facile. Ho comprato tanta di quella roba che sarà uno scherzo farla bastare per tre mesi. Va bene, allora: tre mesi. No, la gratificazione del desiderio può essere procrastinata facilmente per un periodo simile. Sei mesi, allora sì che potrei cominciare ad avvertire i morsi dellʼastinenza. E se resistessi per tutta lʼattuale lunghezza della stagione: un anno intero? E se (assieme al mio convivente, Paul) intraprendessi una prova estrema di non consumo, un Buy nothing year, lʼanno del non acquisto?

Facciamo promesse solenni. A partire dal 1 gennaio 2004, io e Paul acquisteremo solo il necessario per il sostentamento, per la salute e per il lavoro: la spesa, lʼinsulina per il nostro gatto diabetico, la carta igienica, lʼaccesso a internet. Non lo faccio solo per risparmiare, tuttavia sarei felice se succedesse. Non tesserò le lodi della vita semplice e non dispenserò consigli su come viverla. Non mi illudo che rinunciare a un cd o a una gonna abbatterà la cultura del consumo, e non sono nemmeno sicura di volerla abbattere. Io e Paul faremo del nostro meglio per risparmiare sulla benzina, anche se per sei mesi lʼanno viviamo in Vermont, dove lʼuso della macchina è inevitabile.

Sono consapevole di non poter salvare da sola lo strato dʼozono. I grandi problemi richiedono grandi soluzioni politiche collettive. Porre termine alla distruzione della Terra deve essere una priorità del legislatore, dellʼeconomista, dellʼagronomo. Noi dobbiamo pretendere che lo facciano subito. Tuttavia un senso di responsabilità personale, per non dire di panico, mi spinge a considerare questo enorme e terribile problema e la rapidità con la quale la situazione sta degenerando.

La tendenza al consumo è un fenomeno sociale che travalica il singolo organismo o la famiglia. Ma è anche personale. Una volta sfamati e protetti dal freddo, ecco che ogni altro acquisto deriva da un impulso emotivo. Non cʼè modo di affrontare il problema del sovraconsumo senza indagare i sentimenti che circondano lʼimmaginare, lʼacquistare e il possedere i nostri oggetti. I miei oggetti.

Seguendo il principio per il quale non si presta la minima attenzione allʼacqua fino a quando la sorgente è a secco, io e Paul prosciugheremo la sorgente per vedere quanta sete abbiamo. Ci basterà il liquido chiaro che scende dal rubinetto o vorremo dellʼEvian? E perché? Da un punto di vista materiale sopravviveremo. Non è certo quello che mi preoccupa. Ma mi chiedo se sia possibile che una persona continui ad avere una vita sociale, comunitaria, familiare, un lavoro, relazioni culturali, unʼidentità, persino un sé al di fuori dal regno delle esperienze e delle cose acquistate? È possibile sottrarsi al mercato?

Sono tutte questioni non ancora studiate. Rispetto alla montagna di dati teorici su ciò che compriamo e perché lo compriamo “poche, o addirittura nessuna, ricerche sono state condotte sulle scelte delle persone di essere meno compulsive e materiali nel soddisfare i bisogni”, scrive Thomas Princen, condirettore del Workshop on consumption and environment allʼuniversità del Michigan. Continua: “È molto difficile afferrare le ragioni analitiche o empiriche di un atto che comporta il non fare qualcosa”.

Allʼora di pranzo gli economisti non frequentano i McDonaldʼs e non si siedono sulle panchine dei parchi dove i ragazzi mangiano un panino al burro di arachidi. Fino a oggi, dice Princen, le transazioni di mercato sono state lʼalfa e lʼomega dei modelli dellʼeconomia. Ma chi mangia panini al burro di arachidi – o chi, come me e Paul, non trova il modo di divertirsi lontano da una multisala – potrebbe avere la risposta ad alcuni piccoli e grandi problemi del consumo che ci sono sfuggiti di mano, compresa la ragione per cui è tanto difficile resistere.

Il nostro progetto poteva essere ascritto alla pratica di “modelli di vita sostenibili” che, in termini di politica sociale, avrebbero potuto diventare la chiave di volta della sopravvivenza della Terra. Questo mi fa sentire nobile. Mi sto già chiedendo, tuttavia, se lʼidea della sostenibilità, benché glorificata dallʼonorevole obiettivo di salvare il pianeta, basterà a sostenermi per un anno.

I sintomi del mio materialismo cominciano a manifestarsi due settimane prima del D (come deprivazione)-day: attacchi di panico, ansia, depressione. Quel lettore dvd che avevamo adocchiato? Decidiamo di comprarlo immediatamente. E gli abbonamenti alle riviste? Meglio rinnovarli prima di restare senza. Mia nipote si diploma a maggio. Sarebbe scorretto acquistare un regalo fin dʼora? Mi preoccupo, mi rattristo. La fame di oggetti mi tortura.

Passo davanti a un negozio coreano che ha in vetrina un mazzo di fiori. Sono attratta dai girasole. Starebbero così bene nel mio appartamento! Li voglio! Da Zabar, mentre compro a Paul un macinino da caffè nuovo per Natale (quello che abbiamo macina i chicchi come potrei fare io stessa), sono distratta, anzi disturbata, dalle centinaia, migliaia di utensili esposti. La mia cucina, e tutto ciò che contiene, mi appare irrimediabilmente squallida. I nostri asciugamani sono rovinati. Ne compro una mezza dozzina? E quella vecchia e orribile teiera tutta ammaccata? Quella pentola in acciaio inox in vendita a soli 49,99 dollari! E questo oggetto non è grazioso? È una débâcle!

Prime di Natale andiamo a vederci quattro film “imperdibili”. Il 29 dicembre sgancio la bellezza di centosettantacinque dollari (dopo due pomeriggi di shopping) per un paio di scarpe da neve da città da mettere quando non porto le altre scarpe da neve (da campagna). Il 30 dicembre ho bisogno di un cucchiaio di Grand Marnier per una ricetta: Paul torna a casa con la bottiglia di liquore più grande che abbia mai visto. Il 31 dicembre partiamo per il Vermont. Alle nove di sera accendiamo le candele sul tavolo della cucina di campagna e salutiamo il vecchio anno con la nostra abituale cena a base di spaghetti e caviale. Brindiamo al nostro anno senza acquisti con la penultima bottiglia di Dom Perignon.

Un brivido

Alle dieci dissotterro un vecchio catalogo Red Envelope che ha unʼorecchia a una pagina sulla quale fa bella mostra di sé un piccolo elefante in cemento. Quando lʼho visto, più di un anno fa, stavamo cercando una decorazione per il nostro giardino. Lʼelefante era perfetto, e Paul si era offerto di acquistarlo, ma poi non lo aveva fatto.

“Va beʼ”, dico sospirando. “Credo che dovremo dire addio al nostro elefante”. “Mancano ancora due ore!”, esclama Paul, sorprendendomi con il suo entusiasmo e correndo subito a collegarsi al sito della Red Envelope. “Ce lʼhanno ancora!”, urla estraendo la carta di credito.

Un brivido familiare mi percorre la schiena: il brivido del Regalo Perfetto, dellʼAcquisto Imperdibile, del cappello o della camicia assolutamente perfetti per me. Paul schiaccia il pulsante dellʼinvio e sullo schermo appare la conferma del nostro ordine.

Lʼelefante sarebbe arrivato entro due giorni. E poi per 365 giorni il fattorino della Ups non avrebbe più suonato al nostro campanello. Anche se avessimo fatto shopping forsennato nellʼora e trentasette minuti che mancava alla fine dellʼanno, purtroppo non ci sarebbe stato molto da fare. Il brivido si trasforma in una sensazione di gelo.

Questo articolo è stato pubblicato il 12 maggio 2006 nel numero 641 di Internazionale.

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