Funziona più o meno così. Uno studente cinese all’estero – in paesi come Stati Uniti, Australia, Nuova Zelanda, Regno Unito o Giappone, nei cui licei e università le famiglie facoltose mandano i loro figli – viene contattato da truffatori che si fingono agenti della polizia cinese o funzionari consolari e lo convincono a inscenare il proprio rapimento. La vittima, in alcuni casi minacciata di arresto o estradizione in Cina per presunti crimini di cui evidentemente non ha contezza, in altri convinta che si tratti di un’indagine in corso della polizia, esegue gli ordini e arriva a fare cose che hanno dell’incredibile, come scattarsi selfie con le mani legate o registrare video in cui chiede aiuto in lacrime.
Questo materiale servirà ai truffatori per chiedere alla famiglia un lauto riscatto e poi dileguarsi. Lo schema si è ripetuto molte volte negli ultimi anni, come racconta Magnus Fiskesjö, docente di studi asiatici e antropologia all’Università Cornell, negli Stati Uniti, ed ex addetto culturale all’ambasciata svedese di Pechino. Ma com’è possibile, si chiede Fiskesjö, che tutti questi ragazzi istruiti si facciano abbindolare da criminali che nemmeno si palesano davanti ai loro occhi ma li guidano da lontano?
In uno dei casi più recenti, il diciassettenne Kai Zhuang, che frequentava una scuola superiore nello Utah, lo scorso dicembre ha ricevuto istruzioni telefoniche da sedicenti “rappresentanti delle autorità cinesi”, che gli hanno comunicato che la sua famiglia in Cina era in pericolo. Gli hanno ordinato di procurarsi una tenda da campeggio, di andare nella foresta e di scattarsi delle foto. Così ha fatto. Per i suoi genitori in Cina quelle immagini erano le prove che Kai era stato rapito e dovevano pagare un riscatto: 80mila dollari versati direttamente sul conto dei truffatori, che nella maggior parte dei casi la fanno franca.
La chiave per capire il successo di questo schema fraudolento è “il potere percepito”, dice Fiskesjö, la paura delle autorità e della polizia, che a quanto pare ogni cinese dà per scontato siano corrotte. Le confessioni forzate trasmesse in tv, le sparizioni e l’uso diffuso della tortura in carcere sono note ai cittadini. In più negli ultimi anni Pechino è riuscita a installare stazioni di polizia in cinquanta paesi, compresi Australia, Stati Uniti e Canada (e l’Italia, fino al 2022), con il compito di sorvegliare, intimidire ed eventualmente rimpatriare cittadini cinesi. Ecco come mai fingersi poliziotti o funzionari di Pechino è più efficace di qualsiasi altro trucco.
Lo sa bene Vicky Xu, giornalista che ha lavorato per il New York Times e che nel 2021 ha firmato un rapporto sui campi di concentramento nello Xinjiang in cui le autorità cinesi rinchiudono gli uiguri. Xu ha pagato molto caro quel lavoro. Ha rinunciato alla cittadinanza cinese e preso quella del paese dove oggi vive, l’Australia, senza che questo la metta al riparo dalle minacce di Pechino e dalla possibilità di sparire e ritrovarsi in un carcere cinese. Oggi vive spostandosi in continuazione “per stare sempre un passo avanti rispetto agli sgherri del Partito comunista cinese”, ha scritto la settimana scorsa in un commento sul Saturday Paper che non solo suona come una denuncia, ma ha anche il tono disturbante del testamento. “Se mi succederà qualcosa non dite che non vi avevo avvertito” è in sostanza il suo messaggio.
Xu è intervenuta sul settimanale per commentare la recente visita in Australia del ministro degli esteri cinese Wang Yi, ricevuto dall’omologa australiana Penny Wong. Negli ultimi anni Canberra, elemento sempre più saldo del blocco occidentale, e Pechino erano arrivati ai ferri corti, e i loro floridi rapporti commerciali ne avevano risentito. Oggi i toni sono più cordiali e l’atmosfera più distesa. Il vino australiano, colpito dai dazi punitivi di Pechino ora eliminati, può riprendere a fluire verso la Cina, e la ministra Wong, parlando alla stampa dopo l’incontro con Wang, ha detto che Cina e Australia sono diverse, che le differenze rimarranno e vanno gestite con saggezza.
Un passo verso la stabilizzazione delle relazioni tra i due paesi, secondo Wong. Non una parola su Xu e gli altri ricercatori minacciati di rapimento o morte dalla polizia cinese. Persone che vivono costantemente con qualcuno che le segue senza preoccuparsi troppo di non darlo a vedere. La polizia australiana ne è consapevole, dice Xu, ma si limita a dare consigli pratici: “Non camminare a passo costante quando si è in giro; piuttosto passeggiare un po’, poi correre e cercare di prendere strade diverse tra una destinazione e l’altra. Non frequentare sempre gli stessi bar e caffè. Non fare mai prenotazioni”.
Una volta, dopo essere stata avvertita dalla polizia federale che era stata “attenzionata” da persone al centro di un’indagine sulle interferenze cinesi in Australia, ha chiesto di poter avere un certificato che attestasse il suo essere un individuo a rischio. Non è stato possibile. “Questo pezzo sarà il mio certificato”, scrive Xu, che chiude così: “Il giorno prima dell’arrivo di Wang Yi in Australia, a Pechino il commissario della polizia federale australiana Reece Kershaw ha stretto la mano al suo omologo cinese, Wang Xiaohong. Wang Xiaohong guida il ministero della pubblica sicurezza, una delle principali organizzazioni responsabili di condurre gli uiguri nei campi e di perseguitare individui come me. Il comunicato stampa del governo di Pechino diffuso dopo l’incontro prometteva: ‘Un nuovo capitolo nella cooperazione tra Cina e Australia in materia di applicazione della legge”.
Questo testo è tratto dalla newsletter In Asia
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